Bisognerà attendere ancora per sapere quale sarà la sorte di Patrick Zaki, poiché la seconda udienza del processo, tenutasi il 28 settembre scorso e durata solo pochi minuti, si è conclusa con un nulla di fatto. L’avvocato di Zaki, Hoda Nasrallah, su volere dello stesso assistito, ha richiesto il rinvio per studiare meglio gli atti e per impostare una strategia difensiva efficace; lo studente egiziano tornerà di nuovo nell’aula di tribunale il 7 dicembre, data simbolo del ventunesimo mese di detenzione. Lo studente egiziano si era già trovato di fronte alla corte del tribunale di Mansura, nella capitale egiziana, il 14 settembre per la sua prima udienza; in quell’occasione ha potuto prendere parola di fronte ai giudici e dichiararsi innocente per tutti i capi d’accusa, ribadendo come lui non abbia fatto altro che esercitare il diritto alla libertà di espressione.
L’arresto, le torture e il carcere
Patrick Zaki, studente nel master in “Studi di Genere” presso l’Università di Bologna, attivista e membro dell’associazione “Egyptian Initiative for Personal Rights” (EIPR), viene arrestato dai servizi segreti egiziani il 7 febbraio 2020 presso l’aeroporto del Cairo. Per più di ventiquattro ore nessuno è a conoscenza della sua situazione; secondo l’accusa è proprio questa “sparizione” che ha permesso agli agenti di bendarlo e torturarlo per diciassette ore consecutive, infliggendogli diverse torture al fine di ottenere una confessione. Le condizioni di Zaki vengono denunciate dai membri dell’associazione EIPR e in poco tempo vengono seguite con apprensione da diverse organizzazioni internazionali.
Dopo una breve detenzione nel carcere di Talkha, il 25 febbraio Zaki viene trasferito nel carcere di Mansura, ma già dopo pochi giorni viene ordinato un altro trasferimento, questa volta nel carcere di Tora. Situato a sud del Cairo, attualmente il penitenziario viene riservato ai criminali e prigionieri politici ed è tristemente conosciuto dalle associazioni per i diritti umani e dalle organizzazioni non governative per le sue gravi disfunzioni e per gli inquietanti abusi perpetrati ai danni dei detenuti. Ad oggi si fa sempre più forte l’idea che l’istituto sia utilizzato dai servizi segreti egiziani e funga da centro di detenzione per i dissidenti dell’attuale regime del Presidente Al-Sisi.
Cosa rischia Patrick Zaki
Il calvario di Zaki continua dunque a non finire; lo studente è in carcere in custodia cautelare già da 19 mesi e questo a causa dei numerosi rinvii a processo che si sono susseguiti fin dal suo arresto. Durante la sua permanenza nelle diverse carceri egiziane gli è stato concesso raramente di poter vedere i suoi genitori e il suo avvocato, i quali si sono detti più volte profondamente preoccupati per le condizioni del giovane studente, soprattutto dopo lo scoppio della pandemia di Covid-19 e gli scarsi protocolli igienico-sanitari applicati nelle strutture carcerarie.
Accusato dalla magistratura egiziana di minaccia alla sicurezza nazionale, incitamento alle proteste illegali, sovversione, diffusione di false notizie, di propaganda per il terrorismo e di istigazione al rovesciamento di regime, Patrick Zaki rischierebbe fino a 25 anni di carcere o addirittura l’ergastolo, secondo fonti giudiziarie egiziane. La legale Nasrallah, che in passato aveva dichiarato come nel dossier relativo al suo assistito non figurassero più le accuse di istigazione al terrorismo, relative a dieci post pubblicati su un account Facebook, ma soltanto quelle di “diffusione di notizie false dentro e fuori il Paese”, correlate ad un articolo riguardante l’oppressione della minoranza copta in Egitto, sarebbe stata smentita da un altro legale dello studente, il quale ha dichiarato durante l’ultima udienza che i capi d’accusa più pesanti restano in piedi.
Cosa si è fatto per aiutare Zaki
Il caso Zaki è stato seguito in maniera considerevole da numerose organizzazioni internazionali che si battono per la tutela dei diritti umani, una fra tutte Amnesty International, ed è stato al centro di petizioni online e manifestazioni di piazza. Per quanto riguarda la politica italiana, dopo il via libera del Senato dello scorso aprile, anche la Camera dei Deputati ha approvato la mozione per chiedere il conferimento della cittadinanza italiana a Patrick Zaki; a Montecitorio si sono registrati 358 voti favorevoli, 30 astenuti e nessun contrario, ed ora ci si aspetta che tutte le procedure necessarie previste dal caso vengano avviate tempestivamente. Alcune forze politiche si sono astenute in quanto contrarie a questa decisione, sostenendo come la mozione potrebbe essere interpretata dal governo egiziano come un atto di forza da parte dell’Italia, andando a ledere ancor di più la situazione di Zaki. Ciononostante, anche il Parlamento Europeo, in una proposta di risoluzione comune del 16.12.2020, ha espresso la massima preoccupazione per Patrick, richiedendone subito l’immediata scarcerazione e il ritiro di tutte le accuse. Il Presidente del Parlamento Europeo David Sassoli ha sottolineato come la cittadinanza italiana porterebbe “per trascinamento” alla cittadinanza europea, la quale ha un valore non solo per la difesa della sua condizione così crudele, ma anche il valore di una testimonianza.
Non solo Patrick Zaki
È doveroso ricordare che il caso di Patrick Zaki non è isolato nell’Egitto di Abdel Fattah Al-Sisi; si stima che le cifre relative ai prigionieri politici si aggirino intorno ai 60mila, dato che rappresenterebbe la metà della popolazione carceraria registrata e che a sua volta porta a riflettere sulle condizioni disumane delle carceri egiziane e il loro relativo sovraffollamento. La profonda crisi dei diritti umani che si registra nel paese affonda le sue radici in una repressione senza precedenti nella storia moderna egiziana. Nel 2013 viene approvata dal comitato costituzionale una nuova Costituzione, che andava a soppiantare quella del 1971, votata successivamente dal popolo attraverso un referendum e applicata poi nel 2014 dal nuovo Presidente in carica Abdel Fattah Al-Sisi. La nuova Costituzione non prevede la possibilità di limitare la libertà di stampa, la libertà di espressione e i diritti fondamentali attraverso le cosiddette Leggi di Emergenza e soprattutto non consente al Presidente di dichiarare uno stato di emergenza per un periodo di tempo indefinito.
Nonostante ciò, il primo stato di emergenza del governo Al-Sisi viene proclamato nel 2017, con una durata iniziale di tre mesi, dopo gli attacchi avvenuti nelle chiese copte di Tanta e Alessandria, i quali fecero registrare 45 morti e circa 100 feriti, ma da allora questo regime speciale è stato prorogato ben diciassette volte, e ad oggi è ancora in atto. L’ultimo aggiornamento al decreto è stato eseguito il 24 luglio 2021 e prevede che le forze armate e di polizia adottino tutte le misure necessarie per affrontare i pericoli del terrorismo e del suo finanziamento, mantenere la sicurezza, proteggere le proprietà pubbliche e private, salvare la vita dei cittadini. Come denunciano le organizzazioni non governative e alcune associazioni legate alla tutela dei diritti umani che operano anche in Egitto, lo stato di emergenza, che doveva essere utilizzato solo in momenti di estrema crisi per atti legati al terrorismo, viene invece applicato come strumento di repressione dalle forze di polizia e dagli agenti segreti. Il governo di Al-Sisi sostiene invece che le pratiche di censura e gli arresti di giornalisti, blogger e attivisti avvengano al fine di garantire la sicurezza nazionale e il rispetto della legge anti-terrorismo.
Secondo quanto espresso dal Parlamento Europeo, la situazione relativa ai diritti umani di base si fa sempre più grave in Egitto. La repressione nei confronti della società civile, degli attivisti, dei giornalisti, dei dissidenti e degli appartenenti alle comunità Lgbtq+, è andata intensificandosi di anno in anno, approfittando anche della pandemia di Sars-Covid19 per intensificare i controlli e gli arresti. Viste le gravi mancanze in materia di diritti umani, non stupisce il fatto che l’Egitto si posizioni oggi al 166esimo posto su 180 della graduatoria mondiale relativa alla libertà di parola, la quale viene redatta annualmente da Reporters Without Borders, dato che porta a riflettere sulle condizioni della popolazione e in particolar modo sui metodi attuati dal Presidente.
Condanne e pena di morte
I dati relativi alle condanne non sono facilmente reperibili poiché l’Egitto non pubblica dati ufficiali in merito da diversi anni, ma si stima che dal 2014, anno in cui Abdel Fattah Al-Sisi sale al governo, il sistema giudiziario ha subito un crollo. Dopo la presa al potere del 2013, sono state messe in funzione più di venti prigioni in tutto il Paese e sono aumentati a dismisura i processi a carico di imputati civili giudicati però da corti militari. Per quanto riguarda la pena di morte, la Costituzione del 2014 non ne riporta alcun riferimento, ma nell’articolo n.93 viene evidenziato l’impegno dell’Egitto nel rispettare tutti i Trattati e tutte le Convenzioni da esso ratificate in materia di diritti umani.
Tuttavia, in Egitto la pena di morte è applicabile per 40 reati, uno fra tutti quello di terrorismo; dal 2016 però è entrata in vigore una nuova legge sull’anti-terrorismo (Legge sulle Entità terroristiche) che dà una definizione così vaga dello stesso termine terrorismo che è finita per essere applicata ai casi più disparati. Questa legge ha facilitato l’incremento di arresti e di condanne a morte: dal 2014 al 2020 sono state eseguite circa 250 esecuzioni di pene capitali e di queste 34 soltanto lo scorso anno; le stesse avvengono tramite impiccagione all’interno delle carceri o in luoghi segreti e inaccessibili, e lo stesso detenuto non viene informato né del giorno né tanto meno dell’orario in cui è prevista l’esecuzione, mentre le famiglie vengono a conoscenza dell’esecuzione soltanto quando vengono avvisate per ritirare il cadavere.
Questi dati allarmanti aiutano a comprendere quanto drammatica sia la situazione in Egitto, in particolar modo per quelle categorie che tentano di apportare un cambiamento significativo, e che i minimi standard in materia di diritti umani, se comparati a quelli goduti dalle popolazioni occidentali, sono ancora ben lontani dall’essere raggiunti.