Il fallito attentato del 25 dicembre del 2009, condotto dal giovane nigeriano Abdulmutallab sul Volo 253 Amsterdam-Detroit della Delta Airlines, ha riportato l’attenzione dei media e della comunità internazionale sullo Yemen, sospettato di essere il paese di addestramento dell’attentatore. Secondo alcuni, ciò potrebbe far diventare lo Yemen, insieme alla prospiciente Somalia, un nuovo fronte della lotta al terrorismo internazionale, dopo l’Afghanistan e l’Iraq. L’instabilità politica e l’assenza di un governo forte, insieme alla frammentazione tribale e alla povertà, hanno reso il paese una comoda base per le attività di al-Qaeda, con alcune fonti d’intelligence statunitensi che parlano di circa 200 miliziani di legati alla rete operativi nel sud del paese.
Nel gennaio dello scorso anno il leader del gruppo al-Qaeda in Yemen, Nasir al-Wahayshi, ha annunciato via internet la formazione di un nuovo gruppo, al-Qaeda per la Penisola Araba (AQAP), comprendente anche alcuni membri della formazione di al-Qaeda in Arabia Saudita, cacciata dal paese nel 2007.
In precedenza vi sono stati segni della preoccupazione americana nei confronti di forze jihadiste in Yemen; già con l’attentato alla USS Cole del 2000, e poi con la scoperta, dopo l’11 settembre, dello Yemen come antica dimora di Osama bin Laden, gli americani si mobilitarono affinché il governo di Sana’a aumentasse la sua capacità di controllare queste forze all’interno del paese. Nel 2005 gli Usa dichiararono che due fucili AK-47, usati nell’attacco al consolato americano a Jeddah, provenivano dall’esercito yemenita; Washington inoltre ha spesso denunciato la presenza di combattenti stranieri arrivati in Iraq dopo l’invasione del 2003 provenienti dallo Yemen. Nel 2008 vi furono poi vari attacchi contro l’ambasciata statunitense a Sana’a.
La situazione però diventa assai più complicata se la si osserva in relazione alle tensioni che si verificano ad un diversa scala di grandezza, vale a dire tra gli elementi interni allo Stato yemenita e le loro implicazioni regionali. In questo momento il governo di Sana’a è impegnato nello scontro con il movimento autonomista del sud, l’al-harakat al-ganubiyyat (Southern Movement), soprattutto da quando Tariq al-Fadhli, un ex leader jihadista già arruolato tra i Mujahideen in Afghanistan, ha rotto l’alleanza con il governo, iniziata nel 1994, quando il Presidente Ali Abdullah Saleh lo assoldò, insieme ad alcuni seguaci del movimento salafita, per contrastare le aspirazione del Partito Socialista dello Yemen. Il movimento del sud opera nella provincia di Aden ed è particolarmente forte nel governatorato di Hadhramaut, zona ricca di petrolio, e infatti, oltre alla rivendicazione di una parità di diritti di cittadinanza e di un governo più trasparente, vi è la richiesta, da parte del movimento, di una maggiore redistribuzione dei proventi derivanti dalla vendita del petrolio (almeno il 20 %).
L’unione di al-Fadhli col movimento del sud impensierisce non poco il Presidente Saleh, il quale è però, al tempo stesso, alle prese con un altro confronto, quello con il movimento zaydita capeggiato dall’imām Abdel Malik al-Houthi (dato per morto nel dicembre del 2009); anche questa formazione, per una sorta di nemesi storica, si è rivoltata nel 2004 contro il governo che lo aveva armato e finanziato dal 1994 per bilanciare la diffusione delle scuole wahhabite nel Paese; fu guidato dal 2004 dall’imām Hussein Badr Eddin al-Houthi, col nome di Shabab al-Muomineen (Gioventù Credente), ma questi venne ucciso dopo pochi mesi dall’inizio del conflitto di Saada.
É qui che però si innesta una dinamica regionale che vede contrapposti, così come in altri contesti del Medio Oriente, Iran ed Arabia Saudita, laddove il primo è sospettato di sostenere il movimento di al-Houthi, che si dice inoltre si sarebbe spostato dottrinalmente dalla corrente zaydita verso quella duodecimana, prevalente in Iran; mentre il secondo, che sostiene il movimento wahhabita al-Tajammu al-Yamani li l-Islah (Raggruppamento Yemenita per le Riforme), teme che una eventuale autonomia della provincia di Saada, al confine con l’Arabia Saudita, possa contagiare la componente sciita all’interno del paese, in special modo quella stanziata nella regione orientale, ricca di pozzi petroliferi. Obiettivo di Riyadh è quello di impedire sconfinamenti da parte dei miliziani zayditi, e per questo scopo finanzia e sostiene militarmente il governo yemenita, ed è anche intervenuto in maniera diretta nel novembre scorso, in seguito alla crisi in cui era precipitato il governo di Sana’a dopo l’operazione “Terra Bruciata” di agosto.
Delineato questo quadro conflittuale intrecciato e multi-livello, si possono effettuare alcune brevi considerazioni. Uno degli interrogativi posti in questi giorni è quello relativo ad un possibile intervento statunitense nel Paese mirante a sgominare la presenza qaedista. L’obiettivo di Washington è condiviso sia dai sauditi che dal governo yemenita; entrambi, specialmente la monarchia saudita, temono un rafforzamento della presenza di al-Qaeda sul loro territorio, ed è noto che questa assume come nemici proprio i governi arabi che si piegano alle richieste degli Stati Uniti. D’altra parte la presenza di al-Qaeda è osteggiata anche dagli altri movimenti religiosi, come quello di al-Fadhli, sia per una diversità di visione, sia forse proprio per l’eventualità di una internazionalizzazione del problema. Secondo questa considerazione, al-Qaeda avrebbe già i suoi nemici, e l’amministrazione Obama, che da poco ha preso l’importante decisione di inviare altri 30mila soldati in Afghanistan, non potrà facilmente impegnarsi militarmente in un nuovo contesto; è pensabile che lasci fare al suo alleato strategico, l’Arabia Saudita, l’arsenale del Medio Oriente (le cui spese militari, ammontanti a 38,2 miliardi di dollari, la collocano al nono posto nel mondo – Sipri Yearbook 2009) e che chiami in causa il Qatar per impegnarlo, come fece nel caso degli scontri in estate, in una mediazione per una temporanea soluzione nel confronto tra governo e ribelli di al-Houthi.
Un eventuale intervento diretto americano non sarebbe ben accetto dallo Yemen, come ha fatto sapere alla CNN qualche settimana fa il ministro degli esteri Abu Bakr al Qirbi; l’obiettivo del governo è quello di ristabilire un equilibrio tra le componenti tribali/religiose del paese, e per far questo ha bisogno di nuove risorse economiche. In tal caso la Cina fornisce un rapporto meno impegnativo, ma più utile, in quanto rappresenta uno dei maggiori partner commerciali, con un interscambio che supera i 3 miliardi di dollari (con la Cina che assorbe il 37,3 % delle esportazioni yemenite). Pechino non ostacola di certo i tentativi americani di reprimere il terrorismo di matrice islamica, dato che anch’esso condivide l’obiettivo di contrastare il fondamentalismo religioso, ma va considerato anche che per ora il suo rimane un problema locale, e che il nemico principale dei terroristi resta, per il momento, il massimo rappresentante dei valori e del potere occidentale, cioè gli Stati Uniti. Ma è vero pure che il governo cinese sta sempre più guardando il Medio Oriente come area di approvvigionamento energetico, per cui lo Stretto di Bab al-Mandab, uno dei 10 più importanti chokepoints del mondo, rappresenta un elemento importante per la sua sicurezza energetica, e che attraverso la loro presenza gli Stati Uniti potrebbero effettuare una sorta di sea denial a svantaggio dei cinesi. Oltretutto il Golfo stesso fa parte, per i cinesi, della regione dell’Oceano Indiano, e la sua gestione rappresenta una questione relativa alla sua sicurezza strategica. Per alcuni l’interesse americano in Yemen può perciò essere letto come segno di una partita più geopolitica che relativa alla guerra al terrore, andando a militarizzare una zona strategica per i trasporti e per il controllo marittimo, e in cui inizia a prendere corpo una gestione dei capitali più autonoma, anche attraverso il progetto di una nuova moneta, il “Gulfo”, che potrà essere utilizzata per le transazioni dei paesi del Golfo.
Per ora il Presidente Obama ha dichiarato di non avere intenzione di inviare truppe in Yemen o in Somalia, e che preferisce affidare la soluzione del problema alla cooperazione con i partner locali; una decisione pro-intervento non sarebbe ben accolta dall’opinione pubblica americana, anche perché aggiungerebbe una nuova voce in passivo al bilancio federale.
Per ora il governo Usa si è buy viagra in las vegas limitato a sostenere economicamente Sana’a (si parla di aiuti per 70 miliardi di dollari) e l’alleato saudita (con l’offerta di un pacchetto militare da 20 miliardi di dollari in 5 anni), ma resta da vedere quanto le esigenze di geo-sicurezza peseranno rispetto ai costi, politici ed economici, di una azione diretta.