L’instabilità costituisce, nella cultura politica cinese, uno dei principali problemi determinati dalla natura del sistema internazionale contemporaneo. Crisi, pandemie e guerre ostacolano la crescita economica ed il compimento del “sogno cinese”. “Sogno” protetto e sostenuto da Xi Jinping durante i suoi due mandati da Presidente della Repubblica Popolare e, al contempo, da Segretario Generale del Partito e da Presidente della Commissione Centrale Militare, un accumulo di cariche unico nella storia della Cina comunista.
La straordinarietà della modifica costituzionale necessaria per consentire la continuità della prima delle tre cariche menzionate avvenuta a marzo 2018 potrebbe, con ragionevole sicurezza, essere superata dagli esiti del XX Congresso del Partito Comunista Cinese che si aprirà il 16 ottobre. È infatti previsto l’inedito rinnovo delle cariche già in possesso di Xi e non è da escludere il conferimento di titoli simbolici ed alquanto evocativi come quello, proprio del Presidente Mao, di “timoniere” (nella versione originaria – 舵手 duoshou – o in una rivista – 领航掌舵linghang zhangduo).
Il Congresso, momento centrale della vita politica cinese, si colloca temporalmente in un momento di crescente instabilità del sistema internazionale e di serpeggiante malcontento all’interno dei confini nazionali (come dimostrano le proteste in Henan di luglio e le tensioni legate alla politica “zero-Covid”). Alla volubilità del contesto in cui opera, la Cina è pronta a rispondere con la massima continuità del vertice, supportato da un rinnovato Politburo con composizione favorevole a Xi. Verrebbe nuovamente sacrificato sull’altare della stabilità il principio dell’alternanza di potere promosso da Deng Xiaoping e ormai cancellato dal leader della Cina 3.0, vero e proprio 核心领导 (hexinlingdao, “nucleo della leadership”), come solo Mao e, appunto, Deng prima di lui. Un tale evento non può essere ignorato nell’analisi della politica estera di Pechino: due sembrano i punti essenziali da tenere in considerazione.
In primo luogo, con il Congresso tanto l’apparato di politica estera quanto quello militare potrebbero subire dei cambiamenti al vertice. Infatti, Yang Jiechi, capo della diplomazia cinese in quanto Direttore dell’Ufficio della Commissione Centrale per la Politica Estera, potrebbe abbandonare il Politburo lasciando un considerevole vuoto da riempire. Wang Yi, attuale ministro degli esteri, dovrebbe, nonostante i 68 anni di età (soglia per il “pensionamento”) e una discreta concorrenza, prendere il suo posto per evitare un cambiamento troppo profondo delle cariche apicali degli affari esteri cinesi. In tal caso, la diplomazia cinese continuerebbe a lavorare sui canonici canali bilaterali e rimarrebbe vivo il supporto alla cosiddetta “wolf-warrior diplomacy”. Sul versante militare, i due attuali rappresentanti dell’Esercito Popolare di Liberazione (EPL) presso il Politburo verranno verosimilmente sostituiti da generali strettamente legati a Xi Jinping. Ampiamente sconfessate, dunque, le voci riguardo ad un possibile colpo di stato militare ai danni del Presidente, che si sono diffuse molto rapidamente nel web alla fine di settembre e sono frutto non solo delle speculazioni dell’Epoch Times, testata fondata e sostenuta dalla setta del Falun Gong, ma anche e soprattutto dell’evidente distacco tra la realtà cinese, in indubbio fermento ma coesa sotto la cupola istituzionale del Partito, e le fantasiose visioni di una parte dell’opinione pubblica sempre più hawkish nei confronti di Pechino.
Viene da chiedersi, dunque, se l’agenda di politica estera cambierà dopo il Congresso e se l’atteso nuovo accentramento del potere conferirà a Xi un’attitudine più disinvolta nei rapporti con il resto del mondo. Diversi fattori portano a prevedere una sostanziale continuità della politica estera cinese: gli obiettivi sono in gran parte di lungo periodo e sono ormai radicati nella pratica internazionale di Pechino e nell’organizzazione istituzionale concepita per raggiungere i traguardi della “nuova era”. In questo senso, appunto, oltre ai vincoli strutturali e alla costruzione di un’identità e di una retorica da nascente grande potenza, spingono alcuni processi che hanno caratterizzato la definizione delle politiche d’oltreconfine cinesi dal 2012 in poi. Innanzitutto, Xi ha promosso una progressiva riforma del decision-making orientata, da una parte, alla centralizzazione del potere decisionale e, dall’altra, all’allargamento della partecipazione nelle fasi consultive del policy-making: il Congresso potrebbe effettivamente seguire questa linea, orientata a rinsaldare il ruolo apicale di Xi e, al contempo, a soddisfare le richieste di udienza di numerosi interessi costituiti desiderosi di incidere sulla politica estera del Dragone, su tutti organi provinciali e SOEs (State-Owned Enterprises). Il rinnovo del mandato di Xi trova così un’ulteriore giustificazione nella necessità di continuare a perseguire gli obiettivi internazionali stabiliti nei due precedenti mandati, con i dovuti aggiustamenti rispetto al mutato contesto globale.
Il potere di Xi, apparentemente illimitato e corroborato dalla pratica dell’assegnazione delle cariche decisive (e non) ai suoi fedelissimi, conosce in realtà una serie di vincoli, in gran parte informali e non direttamente legati al dominio istituzionale che dieci anni di governo hanno consolidato e che il XX Congresso potrebbe ulteriormente rinforzare. Da un lato, i 中央领导小组 (zhongyang lingdao xiaozu, in inglese Central Leading Small Groups, abbreviato in LSGs) coinvolti nella politica estera, organi ausiliari ma fondamentali, pensati per assistere i funzionari più alti nella gestione delle diverse politiche e nel coordinamento dei differenti interessi, fanno tutti riferimento direttamente a Xi Jinping. Dall’altro, quest’ultimo deve comunque, come accennato, fare i conti con una moltitudine di parti potenzialmente in conflitto tra loro ma decisive nella formulazione della politica estera cinese, soprattutto quando le linee guida prodotte dalla Commissione Centrale rimangono programmatiche, se non del tutto vaghe, e dunque malleabili per gli attori deputati alla loro implementazione.
Più in generale, da un punto di vista interno, ciò che limita il potere decisionale in politica estera di Xi non è, chiaramente, la struttura istituzionale nella quale opera, tanto più alla luce delle previsioni di un XX Congresso che potrebbe consacrarlo a pater patriae della Cina. I veri limiti interni alla fungibility di questo enorme potere sono legati, innanzitutto, alla necessità di mantenere sulle linee politiche proposte un generico consenso tra la moltitudine di attori interni ma internazionalizzati e, in secondo luogo, alla natura, checché ne dica il Partito, umana del leader: è inevitabile che una politica estera su scala globale dipenda da attori non autonomi ma con un certo grado di indipendenza de facto dal centro e con un ruolo di gatekeeping (di filtraggio di informazioni e dunque di influenza sulla definizione dell’agenda) verso di esso. L’accumulo di funzioni da parte di Xi potrebbe poi significare la perdita di incisività nel loro esercizio e la compensazione di questo problema, ossia la nomina dei soli fedelissimi, potrebbe crearne di nuovi, favorendo ad esempio meccanismi di auto-censura intesi a non entrare in contrasto con Xi stesso (meccanismo rinforzato dal senso gerarchico confuciano).
Resta da capire come effettivamente il Congresso distribuirà le cariche “in palio” e come Xi saprà continuare a proporsi come legittimo leader di un paese che si ritiene destinato alla grandezza. Se internamente c’è un considerevole spazio di manovra per soddisfare le più disparate richieste delle diverse componenti politico-sociali cinesi, esternamente sarà più difficile cambiare rotta in maniera decisiva e repentina: più probabili aggiustamenti progressivi a politiche già formulate, sotto la guida indiscussa (forse) dell’uomo forte.