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TematicheAfrica SubsaharianaWeak States e sicurezza. Il caso della Guinea Bissau

Weak States e sicurezza. Il caso della Guinea Bissau

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1. Introduzione: obiettivi e concetti fondamentali

Lo stato – inteso come entità sovrana che esercita il proprio potere su un determinato territorio, o, secondo la definizione di Max Weber, come il detentore del monopolio dell’utilizzo legittimo della coercizione e della forza – è al centro di alcuni mutamenti in atto nell’attuale panorama internazionale. Da un lato esso sembra adattarsi alle nuove esigenze mediante forme d’integrazione economica e politica che trascendono i confini nazionali, oppure decentralizzando il potere mediante assetti costituzionali caratterizzati da un marcato regionalismo. Dall’altro aumentano i casi in cui le strutture statali vengono meno alle loro funzioni fondamentali, fino al definitivo collasso, soprattutto dove lo stato, così come concepito in Europa, è il lascito della dominazione coloniale. In riferimento a tale situazione ha assunto particolare importanza il concetto di weak state. L’obiettivo di questa ricerca è l’analisi della situazione della Guinea Bissau, come esempio di weak state o failing state nel tentativo di evidenziare come aree apparentemente marginali del panorama politico internazionale possano generare o favorire fenomeni che, ripercuotendosi oltre l’ambito locale, rappresentano minacce alla sicurezza.

Secondo Found for Peace, che ogni anno elabora il Failed State Index, le caratteristiche di un failed state sono: a) l’incapacità di controllare il proprio territorio e i confini; b) il basso grado di legittimità dell’autorità politica; c) l’incapacità di fornire servizi pubblici essenziali; d) l’incapacità di interagire con gli altri stati come membro a pieno titolo della comunità internazionale. È necessario considerare che questo approccio non è universalmente accettato dagli studiosi del settore e quindi il tema ha generato un vivo dibattito, tuttavia qui ci limiteremo a considerare come failed state quello stato in cui le istituzioni sono venute meno alle loro funzioni fondamentali, e come failing state quello stato in cui una tale situazione si stia realizzando o sia in parte realizzata. Quando ci riferiremo in generale a queste due categorie, tra le quali non esiste ovviamente una netta distinzione, lo faremo con il termine di weak state.

L’importanza del problema e i suoi legami con il tema della sicurezza sono resi evidenti dai frequenti riferimenti a esso. Nel 2002 George W. Bush affermava che “weak states, like Afghanistan, can pose as great a danger to our national interests as strong states”; contemporaneamente tanto le agenzie governative, quanto i think tank statunitensi intraprendevano studi e analisi sul problema. L’affermazione del presidente Bush va certamente collocata nel contesto immediatamente successivo agli eventi dell’11 settembre 2001, tuttavia contribuisce a rendere evidente l’importanza che i weak states hanno assunto nell’attuale dibattito sulla sicurezza. Ulteriori conferme vengono dal fatto che la Peacebuilding Commission, costituita in seno alle Nazioni Unite nel 2005, dedichi particolare attenzione al tema, cosí come dai tentativi di inquadrare il fenomeno e le sue conseguenze nelle categorie del diritto internazionale. Le modalità attraverso cui il problema dei weak state si collega al tema della sicurezza sono chiaramente esposte nell’opera The Breaking of Nations (2004) dell’ex diplomatico britannico Robert Cooper. Secondo l’autore, quando le istituzioni collassano si crea un contesto ideale per l’azione di attori non statali che da tale situazione possono trarre vantaggio, quali organizzazioni criminali e terroristiche. Allo stesso tempo, benché lo stato abbia abdicato ad alcune sue funzioni fondamentali, rimane una preda appetibile per tali organizzazioni che possono così disporre di maggiori opportunità, prestigio e vantaggi. Tuttavia un weak state non è solitamente l’obiettivo finale di tali organizzazioni, spesso ne è una base operativa o una zona di transito, poiché le loro attività, si concretizzano in altre parti del mondo, spesso nei paesi sviluppati, (si considerino ad esempio il traffico di stupefacenti o di essere umani e il radicalismo religioso).

Riprendendo quanto anticipato sopra, possiamo riassumere l’assunto fondamentale di questa analisi nel seguente modo. Nell’attuale contesto internazionale, minacce alla sicurezza di un paese, di un insieme di paesi, o eventualmente della comunità internazionale intesa nel suo complesso, possono sorgere o rafforzarsi a causa dell’esistenza di situazioni in cui l’autorità statale è venuta meno o sta venendo meno, anche qualora queste situazioni si collochino in aree ritenute marginali rispetto agli interessi dei soggetti considerati. Oggi, esempi di queste situazioni sono ormai numerosi, estendendosi dalla Somalia, all’Afghanistan, alla Repubblica Democratica del Congo al Sudan, e la possibilità che altri paesi possano seguire un tale percorso involutivo suscita le preoccupazioni della comunità internazionale.

 

2. Il caso della Guinea Bissau

Con l’eccezione di Capo Verde, la Guinea Bissau è il meno popoloso tra i paesi dell’Africa Occidentale e l’ultimo ad aver ottenuto l’indipendenza, proclamata nel settembre del 1973 e riconosciuta dal Portogallo l’anno successivo. Con una superficie di circa 36.000 kmq e 1.640.000 abitanti, il paese presenta una notevole eterogeneità etnica, religiosa e linguistica. La situazione politica, economica e sociale può essere efficacemente sintetizzata da una serie di indicatori. La lista di stati in base al reddito procapite a parità di potere d’acquisto, stilata dal Fondo Monetario Internazionale, vede la Guina Bissau collocarsi 172° su un totale di 187 paesi; un approccio alternativo, e complementare, alla mera considerazione del reddito è quello fornito dalla lista di paesi sulla base dell’Indice di Sviluppo Umano corretto per la disuguaglianza, elaborata dallo UNPD, che comunque fornisce un responso analogo: il paese si colloca 129° su un totale di 134. L’analisi di Transparency International in merito alla corruzione pone la Guinea Bissau nella 163° posizione su 177. Il report annuale di House of Freedom sulle libertà politiche classifica il paese come “not free”. Il sopracitato Failed State Index colloca il paese al 15° posto (su 171) rispetto al rischio di fallimento. Nei paragrafi seguenti si cercherà di delineare brevemente l’evolversi della situazione politica della Guinea Bissau per porre l’attenzione sugli elementi di debolezza che fanno del paese un esempio di weak state.

Carenze strutturali, debolezze istituzionali e clientelismo. I portoghesi raggiunsero le coste dell’attuale Guinea Bissau negli anni Quaranta del XV secolo, colonizzando un territorio che nel 1836 assunse il nome di Guinea Portoghese, tuttavia l’entroterra non fu completamente pacificato fino al 1930, quando il territorio in questione non aveva più l’importanza economica che derivava dalla tratta degli schiavi e il Portogallo aveva da tempo perduto terreno rispetto alle altre potenze europee. Furono queste le ragioni principali per cui il governo di Lisbona non volle, ne poté, promuovere investimenti per favorire lo sviluppo del paese, che rimase quindi privo di un sistema amministrativo articolato e di infrastrutture, se non nella misura in cui ciò fosse necessario alla ristretta comunità europea. La lunga guerra d’indipendenza (1963 -1974) guidata dal Partido Africano da Independencia da Guiné e Cabo Verde (PAIGC) contribuì ad approfondire le debolezze del paese e pose il partito alla guida di un territorio quasi del tutto privo di un assetto istituzionale e di un sistema infrastrutturale. Benché nel corso della guerra il PAIGC fosse riuscito a organizzare un rudimentale apparato di governo, le strutture politiche della lotta di liberazione mal si conciliavano con il governo di uno stato indipendente; ciò, inoltre, determinò una sostanziale coincidenza tra partito e stato. Principale conseguenza di questa situazione fu la formazione di apparati governativi spesso costretti a reperire autonomamente le risorse per il proprio funzionamento e, allo stesso tempo, privi di supervisione politica e di responsabilità di fronte ad un’assemblea parlamentare che in uno stato a partito unico aveva un ruolo meramente consultivo. Fu in questo contesto che pratiche clientelari e nepotistiche misero radici nella vita politica fin dall’indipendenza. Altra conseguenza della debolezza istituzionale fu il progressivo allontanamento tra le città e le aree rurali che ridusse ulteriormente le capacità di governo del nuovo regime.

Le prospettive di sviluppo del nuovo stato subirono inoltre gli effetti negativi della rottura d’intenti tra la componente guineana e quella capoverdiana, che per ragioni politiche e strategiche avevano combattuto insieme la guerra di liberazione. Il risentimento della prima verso la seconda, che sotto la dominazione portoghese aveva goduto di uno status privilegiato e quindi rappresentava un notevole capitale umano in ambito politico ed economico, portò alla fine dei progetti di unità e quindi al venir meno della possibilità di avvalersi di tali risorse nello sviluppo del paese. Il modo in cui ciò avvenne fu il colpo di stato con cui João Bernardo Vieira pose fine alla presidenza di Luis Cabral nel novembre del 1980.

Il difficile rapporto tra potere civile e militare. La lotta di liberazione e la sostanziale coincidenza tra il PAIGC e lo stato posero le basi di uno stretto, e spesso complesso, rapporto tra politica e forze armate, confermato anche a livello costituzionale. L’appoggio dei militari a Vieira nel 1980, la guerra civile del 1998-99 e i ripetuti colpi di stato, da ultimo quello che ha impedito la seconda tornata elettorale nell’aprile 2012, sono solo alcuni degli esempi di come le forze armate influenzino la vita politica del paese. L’apparato militare è oggi una struttura sovradimensionata, sclerotizzata e che drena considerevoli risorse (circa il 30% della spesa pubblica è destinato a difesa e sicurezza). È un sistema di potere che influenza la vita politica sfuggendo però ai controlli dell’autorità civile, e allo stesso tempo è uno strumento per il perseguimento di interessi personalistici e un bacino di risorse per i meccanismi clientelari. Quindi, non solo esso rappresenta un fattore di instabilità politica ma anche, in quanto struttura di potere autoreferenziale, un freno a eventuali processi di riforma e democratizzazione.

Una transizione incompiuta. Un processo di progressiva liberalizzazione economica e politica iniziò negli anni Ottanta sotto la pressione dei donatori internazionali e come tentativo di Vieira di rafforzare la sua legittimità di fronte al venir meno del sostegno dei militari. Nonostante elezioni multipartitiche abbiano avuto luogo a partire dal 1994, la transizione verso la democrazia non può tuttora dirsi compiuta, con un conseguente deficit di legittimità dell’autorità politica. Tra gli ostacoli a tale processo si possono annoverare alcuni elementi già citati, come la debolezza istituzionale, il diffuso clientelismo e il ruolo dei militari nella politica, ma particolare attenzione va posta al ruolo di un sistema di governo semi-presidenziale che affida poteri determinanti alla Presidenza della Repubblica senza predisporre adeguati contrappesi. Il processo elettorale diviene così una serrata competizione per la più alta carica dello stato, la conquista della quale permette di riorganizzare consistenti settori dell’apparato pubblico in modo congeniale ai vincitori, emarginando al contempo gli sconfitti e generando così un senso di frustrazione e d’illegittimità dell’autorità.

Vecchie e nuove fratture. La realtà della Guinea Bissau è caratterizzata da alcune linee di frattura che rappresentano un ostacolo al superamento dei problemi che affliggono il paese. In particolare si possono individuare una frattura tra società e stato e una tendenza alla frattura all’interno dei gruppi dirigenti che si sono susseguiti alla guida del paese. La prima caratteristica deriva dall’esclusione di ampie fasce della popolazione dal godimento di servizi essenziali e da un’effettiva partecipazione politica: si è così determinata una contrapposizione tra società e stato, in cui la prima ha sviluppato un senso di vittimizzazione da parte del secondo. La tendenza alla frattura all’interno dei gruppi dirigenti può invece essere considerata una conseguenza di un sistema di potere che poggia su reti clientelari ed è orientato a finalità personalistiche: a partire dal colpo di stato del 1980, le minacce ai governi in carica hanno sistematicamente avuto origine all’interno dello stesso establishment politico-militare che deteneva il potere.

Benché l’eterogeneità etnica e religiosa non abbia costituito, fino ad ora, un elemento di conflittualità, a partire dalla fase di transizione che ha seguito il conflitto del 1998-99, si è assistito a tentativi di politicizzare l’etnicità ad opera di alcune figure politiche di spicco, mentre ha assunto maggior vigore il dibattito in merito agli squilibri esistenti nella composizione etnica delle forze armate.

 

3. Attività illecite e sicurezza

 Dalla sintetica analisi tracciata nel paragrafo precedente, emerge un quadro istituzionale particolarmente fragile e, per questo, incapace di far fronte alle funzioni enumerate nel primo paragrafo per descrivere la condizione di weak state. In questo paragrafo si cercherà di illustrare come la Guinea Bissau sia divenuta una base operativa e un luogo di transito per attività illecite e come queste s’inseriscano in un più ampio contesto internazionale.

                Da weak state a narco-state. In una situazione come quella delineata la conduzione di attività illecite è favorita non solo dalle ridotte capacità dello stato di controllare quanto avviene sul suo territorio, ma anche dalla possibile complicità di esponenti dello stato stesso che mirano così a reperire risorse, altrimenti difficilmente ottenibili, necessarie al mantenimento di sistemi di potere clientelari e al perseguimento di fini personalistici. Nel corso degli anni Novanta la Guinea Bissau è divenuta un importante mercato nel traffico di armi, destinate prevalentemente all’insurrezione in atto nella vicina Casamança. Organizzazioni criminali potevano così operare nel territorio del paese, in un contesto di relativa impunità e permettendo alle sue élite di arricchirsi, creando al contempo effetti destabilizzanti al di là dei suoi confini. Lo stesso schema può applicarsi a molte altre attività illecite che traggano vantaggio dall’esistenza di weak states: nel caso considerato, a fronte della crescita esponenziale del traffico di sostanze stupefacenti, provenienti dall’America Latina e dirette principalmente in Europa, si è coniato il termine narco-state per indicare la situazione di uno stato in cui le istituzioni siano sotto il controllo, completo o parziale, delle organizzazioni dedite a tali attività. Il narcotraffico è un problema che investe l’intera Africa Occidentale, ma che assume una particolare urgenza in Guinea Bissau a causa delle sue peculiari condizioni. Non solo il paese si trova in una posizione che ne fa un ideale luogo di transito per i traffici che dall’America Latina si dirigono verso l’Europa e il Medio Oriente, ma dispone anche, per ragioni storiche, economiche e culturali, di agevoli collegamenti con il Brasile e il Portogallo, mentre la diaspora degli sciiti libanesi in America Latina e in Africa Occidentale garantisce una linea di comunicazione con alcuni settori del mondo arabo. La conformazione geografica, soprattutto per quanto concerne le circa 90 isole dell’arcipelago Bijagos, agevola la conduzione di traffici illeciti, resa in ultima analisi possibile dalla situazione politica qui delineata. La portata del fenomeno è efficacemente esemplificata dalle stime secondo cui il 13% della cocaina venduta sui mercati europei transita dalla Guinea Bissau, dove costituisce un giro d’affari il cui volume, secondo l’United Nations Office on Drug and Crime, eguaglia o supera il prodotto interno lordo del paese.

Network criminali. Il narcotraffico rappresenta la principale, ma non l’unica, di una serie di attività illecite. Come si è detto, la situazione del paese permette non solo agevoli collegamenti con l’Europa, ma anche verso il Medio Oriente, grazie ad una cosiddetta lebanese connection che consente il finanziamento, attraverso attività legate al traffico di stupefacenti, di organizzazioni politico-militari come Hezbollah e, in misura minore, Hamas, secondo quanto sostenuto da Matthew Levitt, del Washington Institute for Middle East Policy, nella sua opera Hizbullah: the global footprint of Lebanon’s Party of God (2013). In questo modo il quadro si allarga a comprendere la galassia dell’islamismo militante, tema che viene in rilievo anche per altre due ragioni. La prima riguarda le modalità con cui le sostanze stupefacenti sono trasportate verso i mercati europei, in quanto una parte di esse passa attraverso i territori della Mauritania, del Mali e della Libia, a loro volta paesi caratterizzati da una forte instabilità, finanziando con il pagamento di “diritti di transito” le organizzazioni armate che controllano le aree interessate e che possono essere, più o meno direttamente, affiliate ad Al-Qaeda nel Maghreb Islamico (AQMI). La seconda ragione riguarda, ancora una volta, l’incapacità delle istituzioni di controllare il territorio che quindi potrebbe diventare un retroterra operativo per le organizzazioni jihadiste coinvolte in quella che è stata definita l’insurrezione islamica nel Maghreb e nel Sahel: non ci sono motivi per ritenere che tali attività siano condotte in modo stabile e continuato all’interno del paese, tuttavia eventi come l’arresto, avvenuto a Bissau nel 2008, di alcuni affiliati di AQMI responsabili dell’uccisione di quattro turisti francesi in Mauritania lasciano aperta la possibilità di sviluppi in tal senso.

Infine vi è il rischio che la situazione di forte instabilità e alta concentrazione di attività criminali possa diffondersi negli stati vicini, come confermato dai timori in merito ai recenti eventi nella vicina Guinea, che alcuni già indicano come potenziale narco-state.

 

4. Conclusione

Sembra quindi possibile concludere che, come affermato nell’introduzione, l’esistenza dei cosiddetti weak states può avere gravi ripercussioni nel campo della sicurezza internazionale. Attualmente la Guinea Bissau appare come un nodo di una rete transnazionale in cui confluiscono interessi e attività di una serie di attori che vanno dai cartelli della droga sudamericani, alle organizzazioni politico-militari con i più diversi orientamenti (come Hezbollah e le FARC), alla criminalità organizzata africana ed europea, al terrorismo islamico (AQMI e i suoi affiliati). Il problema quindi trascende l’ambito strettamente locale e, benché spesso non sia percepito in tutta la sua portata nelle nostre opinioni pubbliche, dovrebbe essere al centro di un’azione coordinata a più livelli.

Il rafforzamento delle istituzioni, dalla cui debolezza e inefficacia sembra dipendere in larga misura la situazione descritta nel terzo paragrafo, non può che passare attraverso la risoluzione di alcuni dei nodi sopracitati. L’attuale governo di transizione ha ammesso l’incapacità di intraprendere la maggior parte delle riforme ritenute necessarie, evidenziando così il rischio che le prossime, e più volte posticipate, elezioni si rivelino un formale esercizio di democrazia insufficiente ad avviare il paese verso un percorso di stabilizzazione. Allo stesso tempo le forze favorevoli ad intraprendere una tale azione, benché attive nella società civile, si scontrano con la drammatica carenza di risorse e con l’opposizione di una classe dirigente, politica e militare, favorevole al mantenimento di uno status quo dal quale trae prestigio e ricchezza. É in questo contesto che il ruolo di organizzazioni regionali e internazionali, governative e non, può essere determinante per permettere alla Guinea Bissau di risolvere i problemi che gravano sul suo sviluppo politico, economico e sociale, ma allo stesso tempo si pongono problemi di coordinamento tra entità che spesso operano con modalità e finalità differenti. D’altra parte le limitate dimensione del paese potrebbero aumentare significativamente l’impatto positivo del sostegno fornito e la stabilizzazione della Guinea Bissau potrebbe divenire un modello per casi analoghi nella regione.

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