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Le relazioni economiche tra Washington e Bruxelles alla prova dell’Inflation Reduction Act

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Il pacchetto di sgravi fiscali noto come Inflation Reduction Act, varato il 16 agosto 2022 dall’amministrazione Biden, è destinato ad avere un impatto non indifferente nelle relazioni economiche tra gli Stati Uniti e i Paesi membri dell’Unione Europea. Tale provvedimento, entrato a regime all’inizio del 2023, mira a incentivare nuove filiere industriali made in USA potenziando la produzione nei settori legati all’economia verde, in cui la Cina ha oggi un vantaggio competitivo in termini di prezzi al consumo e di disponibilità delle materie prime essenziali alla produzione stessa. Le agevolazioni in questione, destinate a rilanciare la vocazione industriale nelle aree depresse del sud e del Mid-West degli Stati Uniti, hanno sollevato concrete preoccupazioni nel dibattito pubblico europeo, poiché le mosse dell’amministrazione Biden avranno ripercussioni significative sui principali produttori di tecnologie verdi nel Vecchio Continente. Questi ultimi rischiano infatti di rimanere fuori mercato nei settori chiave per l’economia del futuro, schiacciati tra il vantaggio competitivo cinese e il mercato statunitense, destinato a diventare meno redditizio a causa delle misure varate dalla Casa Bianca.

Il pacchetto di investimenti varato dall’amministrazione americana nell’agosto 2022, noto come Inflation Reduction Act, prevede investimenti nei settori legati alle nuove tecnologie e alla produzione di energie rinnovabili per un valore che si aggira intorno ai 750 miliardi di dollari. Il fine ultimo di tale provvedimento, entrato in vigore all’inizio del 2023, è quello di ridurre i livelli di inflazione e deficit degli Stati Uniti, potenziando la sicurezza energetica ed economica del Paese e consentendo altresì il raggiungimento degli obiettivi previsti dagli Accordi di Parigi sulla riduzione delle emissioni inquinanti. In concreto, la norma in questione prevede un programma finalizzato a ridurre le emissioni di metano sia disincentivandole attraverso una tassa applicata sulle dispersioni di tale gas nell’atmosfera, che dovrebbe indurre le attività produttive più inquinanti a ricorrere maggiormente a fonti di energia pulite, sia attraverso incentivi mirati destinati a imprese e privati. Ulteriori disposizioni contenute in tale norma prevedono inoltre dei crediti di imposta per le industrie che investiranno nello sviluppo e nel miglioramento di quelle tecnologie che consentono la decarbonizzazione e l’efficientamento energetico delle attività produttive.

Gli incentivi più consistenti riguarderanno il settore dell’automotive e della produzione di batterie, con queste ultime che beneficeranno di un credito di imposta pari a 35 dollari per chilowattora per ogni cella di batteria prodotta sul suolo americano. Altro settore chiave beneficiato dalla normativa in questione è quello inerente alla produzione di materiali e componenti essenziali per la produzione delle batterie stesse, per cui è previsto un credito d’imposta pari al 10%. La nazionalizzazione della catena del valore sarà alimentata anche tramite 2 miliardi di dollari di sovvenzioni dirette a quelle industrie che riorganizzeranno gli stabilimenti destinandoli alla produzione di veicoli elettrici e attraverso ulteriori 20 miliardi di dollari destinati alla costruzione di impianti ex novo. I crediti di imposta saranno altresì destinati al consumatore finale, che potrà beneficiarne in caso di acquisto di veicoli elettrici e pannelli fotovoltaici made in Usa. In tal modo, il prezzo al consumo dei prodotti fabbricati entro i confini degli Stati Uniti presenterà un vantaggio comparato che, a parità di qualità e prestazioni, li renderà competitivi per il consumatore finale statunitense rispetto a quelli provenienti dall’Europa e dalla Cina. 

Nel caso del fotovoltaico è tuttavia la Cina a ricoprire il ruolo di principale concorrente per i produttori statunitensi, che devono fare i conti con una catena del valore che include componenti made in China e materie prime sotto l’immediato controllo di aziende cinesi, le quali si sono assicurate negli anni numerose concessioni per l’estrazione di terre rare in Africa e in America Latina. In tal modo, le società cinesi si sono assicurate il controllo di una larga parte della supply chain legata alla componentistica e ai materiali essenziali per la fabbricazione di tutti quei prodotti legati all’economia verde. Pertanto, l’iniziativa dell’amministrazione americana si pone sulla scia dell’ormai consolidata politica di contrasto alla crescente pervasività cinese nei settori ad alto contenuto di tecnologia, destinati a diventare il traino dell’economia del Dragone secondo quanto previsto dai vertici del partito comunista cinese con il piano “Made in China 2025”, che pone Pechino in concorrenza diretta con Washington. La politica di incentivi varata dall’amministrazione Biden mira quindi alla reindustrializzazione degli Stati Uniti, da concentrare soprattutto in quelle aree del Mid-West depresse dopo la crisi del 2008, che rappresentano un consistente bacino di voti per il prossimo appuntamento elettorale.

L’approvazione di tali misure non ha tardato a suscitare le preoccupazioni di quei Paesi membri dell’Unione Europea in cui sono presenti vasti settori industriali legati alle tecnologie verdi, che potrebbero optare per l’insediamento negli Usa, viste le ingenti agevolazioni dell’Inflation Reduction Act. Gli effetti protezionistici di tale normativa hanno spinto alcuni Stati Ue come la Francia e la Germania a sollecitare una risposta congiunta da parte dei Ventisette al pacchetto di aiuti varato dalla Casa Bianca, che dal canto suo non si è mostrata molto propensa a prendere in considerazione le preoccupazioni degli alleati europei. Tuttavia, nonostante i pareri concordi nel giudicare le misure statunitensi come lesive della libera concorrenza, non tutti i governi del Vecchio Continente ritengono opportuna una politica sistematica di sussidi europei alle industrie verdi, poiché non tutti gli Stati Ue sarebbero in grado di sostenere i costi necessari a fornire incentivi alle produzioni europee, di cui beneficerebbero direttamente solo alcuni Paesi. Le relazioni economiche tra Bruxelles e Washington, già inficiate da reciproche accuse in merito al ricorso agli aiuti di Stato in settori strategici, rischiano pertanto di giungere a un’ulteriore controversia in materia di concorrenza tra le due sponde dell’Atlantico.Nell’elaborazione di un’eventuale risposta comune europea all’Inflation Reduction Act, i Ventisette dovranno tener conto della presenza di un disegno sistematico da parte di Washington, che punta alla messa in sicurezza, o quanto meno all’accorciamento delle catene del valore, anche attraverso il riallocamento entro un perimetro controllabile di una produzione essenziale come quella dei microchip. L’Inflation Reduction Act, insieme al “Creating Helpful Incentive to producesemiconductors for America Act”, che prevede oltre 50 miliardi di dollari di incentivi da erogare nel giro di cinque anni per rafforzare la produzione statunitense di semiconduttori, pone una sfida non indifferente agli Stati membri dell’Unione Europea, desiderosi di ritagliarsi un posto nei settori chiave per l’economia del futuro. Al di là dei propositi di un ipotetico Fondo SovranoEuropeo, Bruxelles dovrà fare i conti con delle difficoltà oggettive nell’attuazione dei suoi piani, messi a rischio da una crisi economica ed energetica dovuta a una congiuntura internazionale sfavorevole in cui l’Unione Europea appare come il vaso di coccio posto tra i due vasi di ferro degli Stati Uniti e della Cina.

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