Mai come negli ultimi 69 anni la Turchia rappresenta oggi un dilemma geopolitico per l’Alleanza Atlantica e per Washington. È ormai sotto gli occhi di tutti che le recenti politiche di Ankara hanno causato più di una frattura all’interno della NATO, oltre ad aver ulteriormente deteriorato i rapporti con gli Stati Uniti, oggi al loro minimo storico. Il recente summit dell’Alleanza a Bruxelles è stato, fra le altre cose, l’occasione per un primo, atteso, faccia a faccia tra il presidente americano Joe Biden e il suo omologo turco Recep Tayyip Erdogan, i quali hanno affrontato molti dei dossier oggetto di contesa tra Ankara e Washington. Qual è stato il risultato dell’incontro e quale sarà il futuro delle relazioni bilaterali?
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Biden-Erdogan: round one
Il recente summit a Bruxelles ha segnato un passo importante nel definire l’agenda NATO2030, ma è stato anche l’occasione per una serie di importanti incontri bilaterali fra i leader dell’Alleanza Atlantica. Tra questi, spiccava indubbiamente quello fra il presidente americano Joe Biden e il suo omologo turco Recep Tayyip Erdogan. Si è trattato del loro primo incontro ufficiale da quando il leader democratico ha prestato giuramento in qualità di 46° presidente degli Stati Uniti. Il faccia a faccia, attesissimo in Turchia, è avvenuto in una fase molto complicata nella storia delle relazioni bilaterali fra Washington e Ankara. Moltissimi i dossier sul tavolo delle trattative: dagli S-400 russi acquistati dalla Turchia nel 2017, all’escalation nel Mediterraneo Orientale con Grecia e Cipro, passando per la Siria, la Libia e l’Afghanistan. Da anni Washington ritiene che la politica estera turca si sia allontanata dai binari tradizionali della NATO, sviluppando una strategia sempre più autonoma e una cooperazione ambigua su alcuni dossier con rivali tradizionali dell’Alleanza Atlantica come la Russia e la Cina. A queste preoccupazioni si sono unite quelle legate alle tensioni degli ultimi anni fra Ankara e i suoi vicini rivieraschi – Grecia e Cipro – in merito allo sfruttamento degli idrocarburi del bacino levantino e in merito alla definizione delle rispettive piattaforme continentali. L’attuale amministrazione è preoccupata anche dal crescente autoritarismo in Turchia, dalla violazione dello stato di diritto e dalla sempre minore attenzione che la presidenza turca presterebbe al rispetto dei diritti umani. Tutti elementi che cozzano con i valori difesi dalla NATO e ribaditi nel punto 2 del Communiqué rilasciato dai Capi di Stato e di Governo dell’Alleanza lo scorso lunedì.
Il recente avvicendamento alla Casa Bianca, come preannunciato da molti analisti turchi e anche su queste colonne, ha rappresentato un momento di rottura tra Washington e Ankara, con Biden che si era detto pronto a far pagare un prezzo salato al leader turco per le sue azioni. Non sorprende quindi il gelo successivo alla vittoria del leader democratico nelle elezioni statunitensi: la Turchia è stato l’ultimo paese NATO a congratularsi con il presidente Biden per la vittoria, mentre il primo contatto ufficiale fra i due è avvenuto solo lo scorso aprile, con il leader americano che ha informato il suo omologo turco dell’imminente riconoscimento del genocidio armeno, come promesso in campagna elettorale. È anche bene ricordare che la Turchia è attualmente oggetto di sanzioni da parte della Casa Bianca: Ankara è stata rimossa dall’accordo sugli F35 dopo l’acquisto degli S-400 russi e per lo stesso motivo la Direzione dell’Industria della Difesa turca è stata sanzionata lo scorso 14 dicembre. Al tempo stesso in Turchia è in netto aumento un generale sentimento antiamericano, frutto principalmente del supporto statunitense alle milizie curde YPG in Siria e alla crescente convinzione, condivisa ed esplicitata anche da alcuni politici di spicco, secondo cui Washington avrebbe orchestrato o collaborato nel fallito golpe del 2016. Quest’ultimo è un problema ancora irrisolto tra i due paesi e che mina alla base qualsiasi processo di confidence building. Ankara accusa, infatti, Washington di negare l’estradizione al predicatore Fethullah Gulen, ritenuto la mente dietro il fallito colpo di stato, mentre la Casa Bianca ritiene che non vi siano prove sufficienti per dimostrare la sua colpevolezza.
Tuttavia, la congiuntura internazionale ha fatto sì che il faccia a faccia tra i due leader si svolgesse in un clima caratterizzato dalla ripresa del dialogo fra la Turchia e molti dei partner con i quali era entrata in rotta di collisione: Francia e Grecia in primis, ma anche ex partner medio orientali come Egitto, Arabia Saudita ed EAU. I motivi di questa apertura vanno ricercati nel crescente isolamento diplomatico al quale è andata incontro la Turchia negli ultimi anni, nella sempre più grave crisi della lira turca e in generale dell’economia del paese della mezzaluna e nel crollo dei consensi del partito di Erdogan, strettamente legato al punto precedente. Non sorprende, quindi, quanto è stato affermato dal presidente turco durante l’incontro con i media, tenutosi al margine del meeting con Biden: “abbiamo avuto un incontro estremamente positivo e sincero […] non ci sono problemi irrisolvibili nelle relazioni tra Turchia e USA, con le aree di cooperazione che superano in numero gli argomenti oggetto di tensioni”. In merito alla questione degli S-400 il leader turco ha affermato di aver ribadito la sua posizione al presidente Biden secondo la quale Ankara non è intenzionata a privarsi del sistema d’arma russo, ma sarebbe comunque pronta a garantire che esso rimarrà sotto il totale controllo turco, senza interferenze di tecnici russi. Come gesto di distensione Erdogan avrebbe già chiesto ad alcuni di questi tecnici ancora presenti in Turchia di lasciare il paese, garantendo la piena compatibilità del sistema di difesa missilistico con gli armamenti NATO. Tuttavia, difficilmente gli USA accetteranno un compromesso del genere, come ribadito a più riprese dall’entourage di Biden: l’offerta statunitense mira piuttosto a porre gli S-400 sotto un controllo congiunto turco-statunitense nella base aerea di Incirlik, un compromesso a sua volta inaccettabile da Ankara, che teme ripercussioni importanti nei suoi rapporti con Mosca.
Gli obiettivi della Turchia e i potenziali spazi di cooperazione
Oltre ai problemi di lungo corso relativi alla Siria e al Mediterraneo Orientale, i due leader hanno discusso a lungo di Afghanistan: lo scorso mese la Turchia si sarebbe offerta di gestire l’aeroporto internazionale Hamid Karzai di Kabul dopo il completo ritiro delle truppe NATO previsto per il prossimo settembre. Nel corso di una conferenza stampa, tenuta dal presidente Erdogan prima della sua partenza per Bruxelles, il leader ha detto che la Turchia “sarà ovviamente l’unico paese affidabile rimasto a stabilizzare l’Afghanistan dopo il ritiro delle truppe americane”. Secondo le prime indiscrezioni, Erdogan avrebbe proposto a Biden un meccanismo trilaterale per la gestione dell’aeroporto che coinvolga anche il Pakistan e l’Ungheria, partner di lungo corso della Turchia, chiedendo in cambio l’assistenza diplomatica, logistica e finanziaria, che il presidente americano avrebbe concesso, come riferito dal Consigliere per la Sicurezza Nazionale Jake Sullivan. Tuttavia, come ribadito anche da Erdogan, la presenza continuativa di truppe turche sarà condizionata alla sua accettazione da parte delle autorità afghane: “se alla Turchia non sarà richiesto di ritirarsi dall’Afghanistan e se ci dovesse essere il supporto logistico, diplomatico e finanziario statunitense, allora sarà molto importante per noi, possiamo continuare a parlare con i talebani” ha detto il leader turco durante l’incontro con la stampa. A dire il vero, un primo segnale della contrarietà dei talebani nei confronti di una possibile permanenza turca sul suolo afghano è già arrivata: due settimane fa il portavoce dei talebani a Doha, Suhail Shaheen, ha specificato che: “la Turchia faceva parte delle forze NATO negli ultimi 20 anni, per questo dovrebbe ritirarsi dall’Afghanistan sulla base dell’accordo siglato con gli Stati Uniti”. Nonostante risulti ancora incerta questa possibilità, ciò che è evidente è che la Turchia sta puntando nuovamente a rendersi un attore indispensabile agli occhi di Washington. La presa in gestione della sicurezza del principale aeroporto del paese, unito al potenziale ruolo di mediazione che la Turchia svolgerebbe tra gli Stati Uniti e i talebani, sarebbe effettivamente una carta vincente che Erdogan potrebbe giocare per dimostrare a Biden di essere ancora un interlocutore affidabile e soprattutto utile in quei teatri dai quali Washington vorrebbe disimpegnarsi. Secondo alcuni analisti, parte di questa “campagna diplomatica d’immagine” turca sarebbero anche i recenti accordi per la vendita di droni Bayraktar TB2 all’Ucraina e alla Polonia, con Albania e Lettonia già alla finestra e la possibilità di espansione della vendita anche in Asia centrale, a Kazakistan e Uzbekistan.
Al tempo stesso, l’obiettivo attuale della Turchia è quello di veicolare un’immagine di sé diametralmente opposta a quella che si è costruita in questi ultimi anni. Per Ankara è importante non essere percepita come “emarginata dall’occidente” o agli antipodi con l’Alleanza Atlantica e i suoi membri, Stati Uniti in primis, perché necessita che i capitali stranieri tornino a fluire nel paese dopo che la crisi economica, la pandemia e le politiche repressive del governo hanno di fatto allontanato molti potenziali investitori. Al tempo stesso, Erdogan ha bisogno di ricostruire il suo consenso interno, oggi ai minimi termini secondo i sondaggi. Per questo motivo un riavvicinamento con i suoi partner tradizionali rappresenterebbe un elemento importante per riottenere la fiducia dei mercati e per riguadagnare il supporto del suo elettorato. Non è un caso che la lira turca sia risalita proprio nelle settimane precedenti all’incontro con Biden, salvo poi perdere nuovamente valore dopo la fine del summit, sintomo che l’andamento della valuta nazionale è fortemente condizionato dall’andamento della politica estera turca.
Gli ostacoli verso un “Turkish Reset”
Washington ha bisogno di un interlocutore più prevedibile e che agisca seguendo i suoi dettami, senza divergere in maniera considerevole dal tracciato, esattamente l’opposto di quanto messo in pratica dalla Turchia negli ultimi anni. Dei principali ostacoli che si frappongono oggi tra Ankara e Washington il più importante per quest’ultima è senza dubbio il mantenimento degli S-400 acquistati dalla Russia, non solo per l’incompatibilità con il resto degli equipaggiamenti e dei sistemi d’arma NATO, ma anche e soprattutto per il messaggio che la Turchia ha veicolato con il loro acquisto: un’evidente dichiarazione dell’indipendenza strategica turca, non solo nel settore della difesa, dove la Turchia punta a rendersi completamente autosufficiente già da tempo, ma anche da un punto di vista prettamente geopolitico.
La Turchia necessita dell’Alleanza Atlantica per la propria difesa, ma non è comunque intenzionata a rinunciare ad una politica estera autonoma, questo ormai è chiaro alla Casa Bianca. Secondo i piani strategici elaborati dai circoli vicini al presidente Erdogan la Turchia deve ambire a divenire una potenza con un raggio d’azione non solo limitato al Medio Oriente e al Mediterraneo Orientale, ma anche in molti altri quadranti in cui il soft power turco è già all’opera, come i Balcani, il Caucaso, il Nord Africa, il Sahel e il Corno d’Africa, dove è già operativa con una base militare in Somalia. Non deve tuttavia sorprendere questa autonomia in politica estera: spesso si dimentica che anche nel periodo storico in cui Ankara agì più all’unisono con i dettami di Washington, durante la Guerra Fredda, non mancarono momenti di tensione con gli USA e di divergenza dagli interessi della NATO. Il caso più lampante fu la crisi di Cipro, tutt’oggi irrisolta e ancora oggetto di tensioni interne all’Alleanza. Emblematica fu la lettera inviata nel giugno del ’64 dal presidente Lyndon Johnson al primo ministro İnönü nella quale si faceva intendere, senza troppi giri di parole, che la NATO difficilmente sarebbe intervenuta al fianco della Turchia qualora l’URSS fosse entrata nel conflitto invadendo il suolo turco. Allo stesso modo non deve sorprendere l’ambigua cooperazione che c’è oggi fra Ankara e Mosca su alcuni dossier. Già in piena Guerra Fredda, nel ’67, la Turchia diede avvio ad una cooperazione economica con l’URSS con la firma di diversi accordi per lo sviluppo del settore pubblico turco, grazie all’assistenza industriale e finanziaria sovietica. Secondo molti storici turchi fu proprio la diffidenza nei confronti del reale impegno statunitense ad intervenire in favore di Ankara a spingere la Turchia a trovare un modus vivendi con l’allora Unione Sovietica. L’autonomia ricercata oggi in politica estera può quindi essere letta come un elemento di continuità nella breve storia della Repubblica turca e non solamente come una progressiva divergenza dai valori occidentali o dalle alleanze tradizionali. Bisogna inoltre tenere a mente che la specificità geografica della Turchia le impone di adottare una politica estera proattiva che miri da un lato al mantenimento della propria sicurezza nazionale, dall’altro al mantenimento di relazioni quantomeno stabili con i suoi vicini più ingombranti, Russia in primis. Sarebbe impensabile per i decisori politici turchi rinunciare a relazioni positive con la Russia, sia per le potenzialità economiche e per i benefici che esse apporterebbero all’economia turca, sia per ragioni e valutazioni strategiche legate alla sicurezza stessa del paese della mezzaluna.
Al netto delle numerose difficoltà, il momento favorevole dettato dalla debolezza del presidente Erdogan in patria può rappresentare l’assist di cui necessita Biden per ottenere concessioni da Ankara su alcuni dei dossier più caldi. Al tempo stesso però un vero e proprio “Turkish Reset” non sarà mai possibile se non si comprenderanno anche le necessità del paese della mezzaluna. Per rinsaldare la vecchia alleanza e ricostruire la fiducia reciproca occorrerà superare il problema principale che oppone oggi Ankara a Washington: il sostegno statunitense alle milizie YPG. A più riprese i decisori politici turchi hanno criticato il supporto che gli Stati Uniti hanno fornito alle milizie curde nel nord-est della Siria, supporto che è stato fondamentale per la lotta all’ISIS, ma che viene visto dalla Turchia come una minaccia alla propria sicurezza nazionale. Questa posizione è stata sottolineata in maniera molto forte da Fahrettin Altun, direttore delle comunicazioni della presidenza turca, il quale pochi giorni prima del summit NATO ha affermato che dalla Turchia: “non ci si può aspettare che danneggi la sua sicurezza nazionale e sovranità per accomodare le richieste irragionevoli di alcuni stati membri e le loro percezioni erronee riguardanti il disordine regionale che il paese sta affrontando da un decennio a questa parte”. Se non ci si può attendere dalla Turchia alcuna concessione sul fronte siriano, sarà però altrettanto difficile osservare un passo in avanti sul dossier di politica interna e su quello dei diritti umani, sui quali Biden ha posto più volte l’accento. Con un AKP fortemente indebolito e sempre più dipendente dalle alleanze politiche, difficilmente Erdogan sarà intenzionato a cedere su questo fronte, poiché sarebbe visto come un segno di debolezza del governo e minerebbe ulteriormente la sua posizione, specialmente in vista delle prossime elezioni presidenziali. Dove potrebbero esserci spiragli è sul dossier del Mediterraneo Orientale e nelle tensioni con la Grecia: dopo due anni di frizioni oggi Ankara sembra aver sotterrato momentaneamente l’ascia di guerra per intavolare trattative e un dialogo con Atene nel tentativo di ricomporre la crisi. Proprio a Bruxelles Erdogan si è intrattenuto con il PM Mitsotakis affermando di aver avuto un “bellissimo” incontro con il leader greco in cui ha affrontato i principali problemi tra i due paesi e i meccanismi per risolverli. Anche con la Francia sembra essere ripreso il dialogo, con il Presidente turco che ha discusso con il suo omologo Macron di strategie comuni da adottare in Libia e Siria. Anche sul dossier libico ci sono spiragli importanti per la cooperazione: l’intervento turco nell’ex colonia italiana, per quanto inviso a Roma e Parigi, è stato propizio per fermare le truppe di Haftar sostenute dalla Russia e non è escluso che nella ricostruzione libica possano esserci spazi per la cooperazione soprattutto con l’Italia, con il benestare di Washington. In conclusione, se il recente incontro con Biden non sembra aver segnato passi decisivi verso una totale ricomposizione delle crisi in atto tra la Turchia, gli Stati Uniti e la NATO, certo è che mai come negli ultimi anni il momento sembra propizio per la ripresa di un dialogo che possa quantomeno ristabilire un modus vivendi e una cooperazione in settori di interesse comune. Sarà quindi necessario intavolare un dialogo franco e diretto con i turchi, che metta da un lato in evidenza le criticità e le incompatibilità evidenti, ma che al tempo stesso evidenzi gli spazi di cooperazione.