Il fondatore e leader della compagnia militare privata russa Wagner, Evgeny Prighozin, è stato ucciso sul suo aereo privato, abbattuto tra Mosca e San Pietroburgo. Anche il suo braccio destro, Dimitry Utkin, ex tenente colonnello delle forze speciali del servizio segreto militare Gru, è morto nell’attentato.
Negli ambienti della Wagner la convinzione è unanime: il mandante dell’omicidio sarebbe il presidente russo Vladimir Putin e, con esso, il gruppo legato al Ministero della Difesa, facente capo al generale Sergey Shoigu.
Che la “marcia dei mercenari” di giugno non avrebbe avuto strascichi a causa di un presunto accordo tra Prighozin e Putin per “smascherare” i traditori – come il generale Surovikin – partiva dal presupposto sbagliato che lo “Chef di Putin” non avesse ambizioni politiche o che i rapporti con Shoigu, Gerasimov ed altri maggiorenti militari non fossero logorati.
Così quando i wagneriti hanno rivolto le armi contro l’esercito russo e non contro l’Ucraina, a molti è sembrata una “farsa”. Oggi, con la morte dello stato maggiore dei Muzikanti, l’idea della guerra civile strisciante in Russia prende maggiore forza.
Anche Kyiv – su cui alcuni in Russia hanno fatto ricadere la colpa della morte di Prighozin – aveva molti buoni motivi per uccidere i capi di Wagner, ma al suo servizio segreto, lo Sbu del generale Budanov, conveniva più avere lo “Chef” vivo per disporre di una sorta di “contropotere” con base in Bielorussia rispetto al Cremlino. Generare confusione all’interno dell’establishment russo serviva molto più che vendicare Bakhmut.
Certo è che la morte di Prighozin non risolve – anzi, per certi versi lo acuisce – il dilemma sul potere in Russia e sulla tenuta del sistema che si regge su Putin e sui siloviki.
C’è una domanda legata alla vicenda che dovrebbe interessare anche all’Italia, e cioè cosa faranno ora le schegge di Wagner presenti in Africa e, nello specifico, in Libia e nel Sahel adesso che la propria testa è stata decapitata dal suo principale datore di lavoro, quel Cremlino di cui rappresenta(va)no la longa manus tra le sabbie africane.
La morte di Prighozhin e di Utkin non equivale alla fine del Gruppo Wagner, o meglio, non è la cancellazione definitiva della PMC ma la sua trasformazione in qualcos’altro.
Pensare che una struttura come quella della Wagner, per come è ramificata e per gli interessi che gestisce fuori e dentro la Russia e per conto del Cremlino in Africa e Medio Oriente, possa semplicemente “sparire” a seguito dell’uccisione del suo fondatore non è ammissibile.
Ecco perché Putin e Shoigu hanno in mente una “transizione” che porti i Muzikanti superstiti nell’orbita del Ministero della Difesa moscovita. La questione non è tanto legata alla guerra in Ucraina quanto al suo sostentamento ed a quello del “sistema Paese” russo tramite la proiezione imperiale nel MENA e nel Sahel.
Già alla fine di maggio, il numero due dell’Svr, il servizio segreto estero russo, Andrei Averyanov (da più parti indicato come il “commissario liquidatore” della Wagner), pochi giorni prima dell’ammutinamento di Prighozin, aveva autorizzato l’invio in Africa di 20mila soldati russi regolari per sostituire i mercenari.
Altre voci davano per certo l’arrivo in Africa di mercenari della compagnia Redut, controllata dal colosso energetico Gazprom e dall’oligarca Gennady Timchenko e della Convoi, parte della “galassia” paramilitare più legata al sistema della Difesa.
L’impegno in Africa, in Paesi come Libia, Mali, Niger e Repubblica Centrafricana – solo per citarne alcuni – è fondamentale per la Russia. Gli uomini della Wagner in quei territori possono, anzi devono, essere o inglobati in PMC “lealiste” o sostituiti direttamente da truppe regolari (quest’ultima ipotesi è meno conveniente).
Già il viceministro della Difesa russo, Yunus-Bek Yevkurov, ha assicurato al generale libico Khalifa Haftar, l’uomo forte della Cirenaica, che l’impegno di Mosca in Africa continuerà. E quello libico è un teatro fondamentale anche per l’Italia.
Sarà importante vedere se la “transizione morbida” della Wagner funzionerà o se avrà ripercussioni pericolose per la tenuta del sistema putiniano. Resta il fatto che né l’ammutinamento di Prighozin né la sua morte hanno determinato un mutamento della strategia generale del Cremlino in Africa e Medio Oriente, aree in cui la PMC dell’ex “Chef di Putin” era – e sotto una diversa forma continuerà ad essere – il più importante strumento di hard power e soft power della politica estera russa.
Lo scenario è fluido e complesso, così come complessa è la rete di contatti e potere sviluppata da Wagner nei cosiddetti “fronti secondari” del conflitto contro Kyiv che Mosca non può permettersi di perdere e che vanno, anzi, ricondotti entro gli schemi della “diplomazia armata” putiniana.