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Molto più di un gioco: quando il calcio incontra la politica. La vittoria del Trabzonspor rivela le debolezze di Erdogan

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Sabato scorso, il Trabzonspor, la squadra di calcio della città di Trabzon (Trebisonda), sul Mar Nero, per la prima volta dopo 38 anni ha vinto il campionato di calcio turco, la Spor Toto Süper Lig, spodestando le storiche “Big Three” di Istanbul: Fenerbahçe, Galatasaray e Beşiktaş.

Sui profili Facebook, Twitter e Instagram del presidente Recep Tayyip Erdoğan non solo sono apparsi diversi post dedicati alla squadra di Trebisonda, con tanto di hashtag #şampiyonTrabzonspor, (Trabzonspor campione), ma è stato condiviso persino un video in cui il leader turco, al termine della partita, ha chiamato il presidente del Trabzonspor, Ahmet Ağaoğlu, per congratularsi della vittoria. Anche sui profili social della moglie del presidente, Emine Erdoğan, sono apparsi dei post celebrativi.

Come mai il presidente turco, che in questi giorni vediamo impegnato sia nella mediazione tra russi e ucraini, sia nella ricostruzione dei rapporti economici e diplomatici con Israele e mondo arabo, ha dedicato così tanto tempo e parole a una piccola squadra di calcio del Mar Nero?

Innanzitutto, il presidente turco ha una predilezione per il calcio, che del resto è lo sport più amato dal popolo turco. Non a caso il giornalista Patrick Keddie, autore del libro The Passion: Football and the Story of Modern Turkey, ha affermato che chi riesce ad avere presa sul calcio in Turchia, possiede un’arma potente per il consenso. Erdogan è consapevole di ciò, pertanto non perde occasione, nei suoi discorsi, di rievocare il proprio passato da giocatore dilettante, vantandosi di aver ricevuto una proposta di reclutamento da parte del Fenerbahçe. Da quando è al potere, poi, secondo un’inchiesta del Financial Times, avrebbe anche avuto un ruolo nella scalata in campionato del Basakşehir, un piccolo club di Istanbul nato negli anni 90, i cui dirigenti sarebbero vicini all’AKP, il partito di governo. Sembra infatti che Erdogan avrebbe contribuito alla “costruzione” di una storia calcistica di successo della squadra per rafforzare la propria base elettorale e contrastare i grandi club di Istanbul, le cui tifoserie nel 2013 si erano unite alle contestazioni di Gezi Park.

Da qualche anno, però, il monopolio politico di Erdogan sulla retorica calcistica è stato spezzato dal sindaco di Istanbul Ekrem Imamoğlu, membro del CHP, il maggior partito di opposizione. Proprio come Erdoğan, Imamoğlu ostenta la propria passione per il calcio e anche lui da giovane ha giocato a livello semi-professionale, in particolare nel Türk Ocağı Limasol, una squadra turco-nordcipriota. Ma soprattutto, Imamoğlu è legato al Trabzonspor, non solo perché è originario di Trabzon, ma anche perché è stato membro del consiglio direttivo della squadra. Considerato l’astro nascente della politica turca, dotato di un notevole carisma, è un avversario politico temuto da Erdoğan, tanto che quest’ultimo ha cercato, inutilmente, di contestarne la vittoria come sindaco di Istanbul nel 2019.

Alla luce di ciò, i post entusiastici di Erdoğan rispetto alla vittoria del Trabzonspor potrebbero indicare il tentativo di adombrare Imamoğlu ma anche quello di non farsi scappare una parte di elettorato che teme di poter perdere. In particolare, l’area del Mar Nero, di cui anche lui è originario, è uno dei più importanti feudi elettorali dell’AKP.

L’esempio turco dimostra che calcio e politica sono un binomio che funziona e questo vale non solo dal punto di vista della politica interna ma anche di quella internazionale. Lo hanno spiegato bene Valerio Mancini, Narcis Pallarès-Domènech e Alessio Postiglione nel loro saggio Calcio & geopolitica. Come e perché i Paesi e le potenze usano il calcio per i loro interessi geopolitici, edito da Edizioni Mondo Nuovo. Attraverso un’analisi storica e sociologica, questi autori hanno dimostrato che molti Stati utilizzano il calcio come uno strumento di soft power per promuovere i rapporti interstatali e influenzare tanto i partner economici che le masse.

Negli anni più recenti, poi, il calcio si è mescolato alla politica anche nell’ambito dei conflitti, soprattutto negli ambienti ultras. In particolare, in Ucraina molti membri delle tifoserie della Dinamo Kiev e dello Shakhtar Donetsk si sono uniti alla resistenza armata contro i russi. In realtà questi gruppi erano attivi già dall’inizio del conflitto nel Donbass, e nel 2014 avevano firmato una “tregua”, mettendo da parte le reciproche divergenze in favore della difesa della comune identità ucraina. Gli ultras ucraini non sono i primi ad essersi trasformati in militanti. Negli anni Novanta molti gruppi paramilitari serbo-bosniaci erano costituiti da membri delle tifoserie serbe. La milizia più nota alle cronache, per la sua particolare efferatezza, è quella delle Tigri di Zelijko Ražnatović, detto Arkan il felino, che reclutava proseliti dal Delije, il gruppo ultrà della squadra di calcio belgradese Stella Rossa, di cui era a capo. 

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