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TematicheRussia e Spazio Post-sovieticoViolare il santuario nemico

Violare il santuario nemico

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Alla fine della Seconda Guerra Mondiale, sir Basil Liddell Hart raccolse una serie di interviste ai generali tedeschi prigionieri degli angloamericani. Queste conversazioni vennero sistematizzate nel volume “L’altro lato della collina” (la Rizzoli lo ha presentato al pubblico italiano come “Storia di una sconfitta”).

Il titolo rimandava a una battuta del (presunto) vincitore di Waterloo: il Duca di Wellington e alla tattica che i britannici avevano sviluppato nella Campagna Peninsulare (e prima ancora in Calabria, nella Battaglia di Maida): cioè usare il crinale ‘inverso’ per ‘appoggiare’ la propria ‘linea’ per spezzare successivamente – con il fuoco – lo slancio delle colonne rivoluzionarie francesi. L’obiettivo di questo libro – scrutando appunto l’altro versante della collina – doveva essere quello di dar voce ai vinti, trasferendo anche – vista l’ostilità montante tra i passati Alleati – una conoscenza pratica della lotta sul ‘Fronte Orientale’.

Da un punto di vista storiografico, il libro è oggettivamente di scarso valore (le monografie di Robert Citino e David Glantz hanno messo a fuoco la questione con ben altra capacità analitica, anche alla luce del loro lavoro sugli archivi post-sovietici). Siamo di fronte a un testo ambiguo e soprattutto assolutorio per i generali tedeschi che ebbero facile gioco nell’affascinare lo storico britannico e scaricare tutte le proprie responsabilità – prima morali che operative – sul Comandante supremo: Adolf Hitler. Il valore del volume e dell’intera operazione culturale fu certamente più importante sul piano politico. Questo perché fece parte di quell’ampio movimento che traghettò i vertici della Wehrmacht ‘appena’ denazistificata nella Bundeswehr e poi nella NATO, sostenendo – in chiave antisovietica – il riarmo di Bonn. Detto ciò, varrebbe comunque la pena di recuperarne lo spirito originario, proprio in questo momento in cui – paradossalmente – l’Occidente sembra rigettare il “relativismo” come strumento cognitivo e strategico (in questo senso interessi diversi non dipendono tanto da percezioni diverse quanto da diverse condizioni materiali, anche se la questione va sempre esplicitata: come variabile che spiega le scelte, contano più le condizioni materiali o le percezioni delle stesse?). Altra cosa è il relativismo morale che – comunque – in una fase di ripensamento della globalizzazione avrebbe un suo interesse concettuale. E non è il relativismo la base del Tao e dell’Arte della Guerra cinese? Tutto fluisce nel suo contrario. Liddell Hart – come storico e polemologo – era animato dal desiderio di entrare nella mente del nemico. Non aveva forse SunTzu cristallizzato quasi 2000 anni prima questa incontrovertibile verità, cioè che la via per la vittoria ‘assoluta’ passa per la conoscenza del cuore e della mente del nemico (oltre che di se stessi)? 

Tornando ai generali tedeschi, alcuni, di altissimo grado, intercettati, commentarono – più o meno così – gli interrogatori alleati: “Sanno tutto sulle nostre operazioni, sui movimenti sul campo, ma non sanno nulla sulle motivazioni”. Qui sta il fulcro della questione. Violare il santuario segreto del perché, che va oltre una mera matrice di costi-benefici e che deve integrare tutte le sfere che muovono un’azione. Sempre SunTzu ha affermato che: “La guerra è di somma importanza per lo Stato: è sul campo di battaglia che si decide la vita o la morte delle nazioni, ed è lì che se ne traccia la via della sopravvivenza o della distruzione. Dunque, è indispensabile studiarla a fondo”.Quindi dobbiamo – escludendo la follia e la pazzia, capire – comprendere il processo decisionale che ha portato Putin e la leadership russa a questa scelta così violenta e lacerante. Oggi – in Occidente – un esercizio di questo tipo espone al rischio di essere additati come disfattisti o peggio collaborazionisti, senza comprendere che è possibile definire una adeguata strategia di contrasto e così vincere, solo elevandosi al di sopra del campo di battaglia, oltre il frastuono mediatico che mostra senza nulla spiegare. Intendendosi anche su cosa significa – per una società postmoderna come la nostra – appunto vincere. 

Per von Clausewitz, significherebbe imporre al nemico la propria volontà. Imporre, nemico, volontà: sono parole che possono sfidare – anche di fronte alle distruzioni, alla lacerazione del Diritto internazionale attuato da Putin – il politicamente corretto? Certo – se volessimo riprendere un classico della storia e del realismo politico – si possono trovare molte similitudini con la nota e citatissima vicenda di Melo: durante la Guerra del Peloponneso, in un momento di difficoltà per Atene, i Melii che pur appartenevo alla Lega ed erano tributari della potenza dell’Attica non tennero fede al vincolo imperiale, subendo per questo una devastante rappresaglia da parte degli Ateniesi. 

Il grande storico Tucidide (su cui i neoconservatori hanno versato fiumi di inchiostro, soprattutto nel tentativo di capire perché tra Atene e Sparta – alla fine – abbia prevalso la potenza più arcaica e ideologicamente retriva) sintetizza così l’accaduto: “Chi è superiore esige quanto è possibile e i deboli cedono”. I realisti sarebbero tentati di chiudere la lettura della storia e delle relazioni internazionali in questo quadro concettuale. Ma, nel medesimo frangente, quella stessa cultura politica che ha generato quell’atto così efferato (tutti gli uomini vennero uccisi, le donne e i bambini venduti come schiavi) ha prodotto 2500 anni di riflessione teoretica (il realismo è al contrario una prassi operativa) per limitare, contrastare e non arrendersi ai poteri “di fatto”: cratos e bia (come li chiamavano appunto i greci). 

In attesa di sviscerare ancor più in profondità le presunte ragioni che hanno innescato la criminale invasione dell’Ucraina, può essere interessante provare a esplorare la matrice ideologica dell’”Operazione Speciale”, che non solo la lotta geopolitica all’espansione della NATO. La questione ideologica è (e deve essere) in primo piano, così come lo è la struttura che (marxianamente) genera la sovrastruttura della narrativa (e questo è valido per entrambe le parti in conflitto). Da un lato il tema dell’”antiRussia” richiama quello di una crociata escatologica e antiglobalista battezzata persino dal patriarca Cirillo, dall’altra viene evocata una lotta antifascista e panslavista di matrice nazionalcomunista (non nazionalbolscevica, si badi). Le due traiettorie si saldano nel rifiuto di tutto ciò che arriva da una dimensione cardinale: l’Occidente (Liberalismo, fascismo, bolscevismo). 

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