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TematicheAmerica LatinaVIII Summit delle Americhe: premesse

VIII Summit delle Americhe: premesse

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Dal 13 al 14 Aprile avrà luogo a Lima (Perù) l’ottavo Summit Ordinario delle Americhe. L’incontro internazionale avviene prima dei grandi appuntamenti elettorali che riguarderanno i principali paesi del Sud America e nel bel mezzo del attuazione di una politica commerciale di chiusura da parte degli Stati Uniti.

A pochi giorni dall’apertura del Summit Ordinario delle Americhe è utile vedere quali sono le condizioni geopolitiche in cui si arriva a tale incontro internazionale appartenente all’OSA (Organizzazione degli Stati Americani). Innanzi tutto partiamo dagli assenti ovvero il Venezuela di Nicolas Maduro e Cuba. L’isola caraibica come da consuetudine si autoesclude dopo esser stata formalmente riammessa nel 2009 all’interno dell’OSA. L’Avana resta ferma sulla sua posizione quale atto di protesta nei confronti del persistere dell’embargo unilaterale statunitense da oltre cinquant’anni attivo a proprio sfavore. E Cuba lascerà vacante si la sua poltrona, ma rimarrà pur sempre nei pensieri di chi si riunirà a Lima. Soprattutto Donald Trump avrà modo di dibattere sulla condizione dell’isola scambiando pareri ufficiosi sul prossimo cambio alla leadership che riguarderà la stessa Cuba. Raul Castro questo il 19 aprile lascerà la guida del paese segnando un cambio storico sull’isola caraibica. Dopo il piano di riforme economiche avviato nel 2008 dallo stesso Raul succeduto al fratello Fidel Castro, oggi è il sistema politico a riformarsi partendo proprio dai suoi vertici. Cuba cambia e Washington appare avere una posizione attendista nei suoi riguardi in attesa di capire come e se varieranno le attitudini politiche di L’Avana e del suo nuovo leader (tutto sembra portare alla nomina di Miguel Diaz-Canel).

Differente invece il caso di Caracas. Il Venezuela pur avendo avviato nel 2017 la procedura per abbandonare l’OSA (gesto di protesta nei confronti del persistere di una generalista condanna internazionale nei confronti del governo di Maduro e della sua gestione dell’attuale crisi economico-politica interna) avrebbe tutto il diritto di prender parte al Summit. Una partecipazione utile anche per tentare di smorzare i toni e riaprire tavoli di dialogo con gli attori internazionali a Caracas contrapposti (in primis Washington che ha avviato da tempo diverse procedure sanzionatorie contro il governo venezuelano), ma che non avrà luogo a causa del mancato invito all’appuntamento di Lima. Pedro Pablo Kuczynski, (ex)presidente del Perù, ha infatti escluso ufficialmente Maduro dal Summit facendosi in vero portavoce del più generico antagonismo governo chavista (più volte esplicitato dagli attuali governi di Stati Uniti, Argentina, Brasile, Paraguay tra gli altri). Resta tuttavia, quello venezuelano, un altro tema all’ordine del giorno del summit seppur non espressamente dichiarato. A tener banco sono le prossime e discusse elezioni presidenziali (20 maggio salvo nuove variazioni) che vedranno contrapposto all’uscente Maduro un esiguo e poco carismatico numero di alternative (i nomi più popolari sono stati estromessi dalla candidatura dallo stesso governo in carica). Non si può non constatare quanto le elezioni venezuelane saranno in prospettiva oggetto di grande dibattito internazionale e da queste scaturiranno nuove e diverse interazioni geopolitiche regionali.

Tra i presenti invece abbiamo alcuni presidenti che quest’anno lasceranno la guida dei rispettivi paesi e che quindi si congederanno a questo Summit dalla platea internazionale. Juan Manuel Santos presidente della Colombia conoscerà il suo successore il 27 maggio prossimo e lo farà con la certezza di aver lasciato un segno indelebile nella storia del suo Paese. Proprio Santos è stato protagonista dell’avvio e della conclusione del processo di pace interno al paese che ha portato all’epilogo una condizione di guerra civile longeva oltre mezzo secolo. Differente invece la posizione di Michel Temer in Brasile, che il prossimo ottobre lascerà la presidenza senza alcuna speranza di riconferma. Temer, subentrato a Dilma Rousseff, dopo la destituzione di questa per impeachment (2016), non ha certo lasciato il segno nella popolazione brasiliana e da questa ha progressivamente preso le distanze perseguendo una politica fortemente neoliberale atta a rimuovere gran parte della progettualità di lungo periodo predisposta dal Partido dos Trabalhadores. Ma è proprio il PT a cercare nuovamente la leadership del paese sventolando la candidatura del carismatico Lula da Silva, una mossa che se da un lato pone il partito in una condizione di vantaggio nei confronti dei suoi rivali, dall’altro fa trapelare una pericolosa imprescindibilità dal suo più blasonato esponente politico. Anche Enrique Peña Nieto si presenterà al Summit sul finire della propria presidenza. A luglio il Messico deciderà a chi affidare la presidenza di un paese che con Nieto non ha certo vissuto momenti facili. L’eredità che il prossimo presidente riceverà dall’attuale mandatario è quella di un paese in cui la violenza è tornata a crescere in modo preoccupante e ancor peggio una situazione geopolitica di non facile gestione. Città del Messico infatti sembra destinata a perdere il suo principale partner commerciale e politico, ovvero gli Stati Uniti che con Donald Trup riscrivono il quadro delle relazioni strategiche regionali. Se la dialettica del tycoon sul muro alla frontiera messicana lascia il tempo che trova, il dietrofront sugli accordi del NAFTA, causano concrete preoccupazioni al Distretto Federale. La chiusura commerciale statunitense vuol dire dover trovare un nuovo mercato di destino per quanto di quel poco più del 70% dell’export (a tanto ammonta l’incidenza del mercato statunitense sull’export messicano) verrà estromesso dall’interscambio con il paese a nord del Rio Grande. Città del Messico dovrà con ogni probabilità riscrivere le proprie strategie puntando su una più che equilibrata diversificazione dei propri partner commerciali guardando a sud dei propri confini e cercando di implementare gli interscambi con il mercato asiatico.

Tra gli altri illustri invitati ci saranno Evo Morales (Presidente Bolivia) e il neo eletto (dicembre 2017) presidente cileno Sebastián Piñera e tra i due un esposto boliviano al Tribunale dell’Aia avente ad oggetto l’accesso sovrano all’Oceano Pacifico. Da un lato Evo Morales, che lascerà la presidenza nel 2019, chiede a gran voce il ripristino della sovranità boliviana sui territori a nord del Cile (persi nella Guerra del Pacifico di fine ‘800) e dall’altra la presidenza cilena che a prescindere dai suoi interpreti ha sempre inteso ignorare ogni pretesa del paese andino. Al summit ci sarà Lenín Moreno (Presidente Ecuador) figlio della Rivoluzione Cittadina del suo predecessore Correa, ma che dalla stessa ha inteso prendere le distanze per dare una propria identità al nuovo corso politico ecuadoriano. Ma fra i tanti mandatari ci sarà anche una defezione dell’ultimo momento che stride fortemente con la cornice delineata. Mancherà proprio il firmatario degli inviti al summit ossia il Presidente peruviano Kuczynski che a poco meno di due anni dall’elezione rinuncia alla presidenza surclassato dagli scandali che lo vedo al centro di una compravendita di voti in parlamento volti a evitarsi la più grave accusa di corruzione. L’ormai ex mandatario infatti sembra aver favorito l’impresa di costruzione brasiliana Odebrecht nell’acquisizione di diversi appalti sul territorio peruviano. Una situazione paradossale per il paese ospitante del Summit anche perché il titolo dato a questa sezione di lavori non è altro che “La governabiltà democratica dinanzi alla corruzione”. Spetterà a Martín Vizcarra, vice di Kuczynski e ora suo successore, fare gli onori di casa per un Summit delle Americhe che appare più che altro interlocutorio tra paesi per lo più nel pieno della propria transizione politica compreso quello che più di tutti appare il grande osservatore d’eccellenza, ovvero gli Stati Uniti dove Donald Trump ad oggi non ha ancora dato un segno concreto alla politica estera statunitense nel sub continente latinoamericano. Ogni presidente statunitense è stato artefice di un Corollario alla Dottrina Monroe, ovvero di una personale interpretazione all’influenza geopolitica di Washington a sud del Rio Grande, ma Trump ad oggi ha più provocato che attuato una propria strategia.

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