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VIII Summit delle Americhe: conclusioni

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Dal 13 al 14 Aprile ha avuto luogo a Lima (Perù) l’ottavo Summit Ordinario delle Americhe. L’incontro internazionale si dimostra un puro esercizio politico, un dovere al quale ottemperare e non un’opportunità di condivisione.

L’VII Summit delle Americhe si è chiuso lo scorso 14 aprile a Lima con il più basso numero di presenze istituzionali: dei 35 paesi membri, 34 sono stati quelli invitati dal governo peruviano (il Venezuela è stato escluso), ma nei fatti le rappresentanze effettive hanno riguardato 33 paesi (Cuba ha declinato l’invito) dei quali alcuni hanno presenziato mediante un rappresentante in sostituzione del Presidente (tra questi Stati Uniti, Ecuador, Nicaragua e Paraguay). Il tema del Summit era incentrato sulla corruzione e in un clima di distrazione dovuto all’escalation bellica in Siria, ha assunto centralità la questione venezuelana. Il mandatario statunitense Donald Trump doveva essere al suo primo viaggio in Sud America, ma proprio la questione siriana ha annullato l’intervento del Tycon che è stato rappresentato dal suo vice Mike Pence che non ha esitato nel manifestare la visione statunitense nelle dinamiche regionali e internazionali. Ovvio sottolineare l’importanza dell’intervento in Siria in contrapposizione alle strategie geopolitiche di Mosca, ma al contempo Pence, ha diretto la propria attenzione sul Venezuela di Nicolas Maduro dichiarando apertamente che “[…] non si rimarrà a guardare mentre il Venezuela collassa […]”. Un avvertimento netto al governo di Maduro al quale si aggiunge la ferma decisione preventiva di non riconoscere il risultato elettorale delle prossime elezioni presidenziali riguardanti il Venezuela (20 maggio 2018).

La preventiva disconoscenza del risultato elettorale venezuelano deriva dal non riconoscimento da parte di Washington dei parametri di democraticità nel paese necessaria a garantire la trasparenza del voto e del suo risultato. Una manifestazione d’intenti che lascia presagire una futura nuova stretta alle sanzioni finanziarie unilaterali inflitte a Caracas e che nei fatti traducono l’oggetto del Summit all’ennesimo processo internazionale al chavismo venezuelano. A dar maggiore consistenza alla posizione statunitense sono i mandatari di altri paesi della regione quali Brasile, Argentina e Cile che si espongono apertamente sulla stessa linea politica di Washington con il no al riconoscimento del risultato elettorale. Meno diretto Enrique Peña Nieto (mandatario del Messico) che si esprime in modo più diplomatico per giungere ad una mediazione politica interna al paese caraibico, ma a contrapporsi a tale visione è stato Juan Manuel Santos (mandatario Colombia) sottolineando come la crisi venezuelana abbia gravi conseguenze sulla stabilità nelle aree colombiane al confine. Da quanto si può sin qui notare, il Summit appare un test istituzionale atto a confermare un pressoché generico allineamento continentale sull’approccio antagonista al governo venezuelano capitanato da Washington.

Una visione diametralmente opposta è quella di Evo Morales (mandatario Bolivia) che partecipa al Summit da antagonista all’allineamento continentale. Morales ha criticato aspramente i contenuti del Summit e più in generale dell’OSA (Organizzazione degli Stati Americani) definendola più come un inconcludente esercizio politico che un luogo di condivisione e integrazione. Il presidente boliviano ha difeso i governi di Cuba e Venezuela definendo l’approccio statunitense quale ennesima ingerenza nel sub continente latinoamericano a comprova dell’ancora attualità della Dottrina Monroe. Ecco quindi tornare all’ordine del giorno la questione dell’embargo unilaterale statunitense nei confronti di Cuba che dura ormai da più di mezzo secolo.  Un tema poi ripreso e condannato da più presidenti all’interno del Summit, ma per il quale Pence non ha lasciato intendere alcun cambiamento. Il vice presidente statunitense ha infatti rimarcato come per il Venezuela, la non democraticità del regime castrista condizione che Washington intende fermamente contrastare. Evo Morale inoltre, nel suo discorso, ha riportato all’attenzione dei presenti i grandi temi geopolitici irrisolti della regione: oltre al già citato Embargo a Cuba, la restituzione alla stessa isola caraibica della sovranità su Guantanámo, la legittimità della sovranità Argentina sulle Isole Malvinas, l’autodeterminazione del popolo di Porto Rico e in ultima battuta, l’accesso all’Oceano Pacifico della stessa Bolivia. Proprio su quest’ultimo punto Morales ha inteso ovviamente soffermarsi per ribadire al mandatario cileno, Sebastián Piñera, la necessità di un confronto politico costruttivo per la risoluzione della questione.

Quel che appare è che in definitiva tali temi siano più l’esercizio propagandistico regionale che questioni capaci di giungere ad una vera soluzione nel breve periodo. Impensabile una ridefinizione della sovranità delle isole Malvinas né tanto meno un ridimensione territoriale del Cile in favore di un espansionismo boliviano fino al porto di Iquique. Forse, con le dovute precauzioni, si potrebbe giungere ad una soluzione dell’embargo a Cuba, ma questo lo si potrà dire solo a seguito della ripresa dei dialoghi tra Washington e il nuovo governatore dell’isola insediatosi il 19 aprile con lo storico cambio di leadership: Raul Castro ha infatti lasciato la presidenza in favore di Miguel Díaz-Canel.

In definitiva l’VIII Summit delle Americhe si è dimostrato scarno di contenuti concreti e più idoneo a misurare una certa condivisione politica su quanto sarà da farsi a seguito delle elezioni venezuelane del prossimo maggio. Tutto il resto appare più che altro un esercizio politico nel cui esprimere tanti intenti e poche soluzioni concrete alla condivisione del fine ultimo: la lotta alla corruzione. A uscirne con un basso profilo da tale Summit è l’OSA, che appare un organismo poco utile all’integrazione continentale di cui si può fare a meno.

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