Negli anni di Obama e Trump gli Stati Uniti hanno progressivamente abbandonato la tradizionale posizione di “ambiguità strategica” sulla disponibilità a difendere Taiwan in caso di aggressione cinese. La nuova amministrazione Biden si porrà in continuazione sul piano della narrazione, seguita dai fatti. Senza arrivare a sciogliere il “dilemma della deterrenza”.
Sin dai tempi dell’apertura ufficiale delle relazioni diplomatiche con la Repubblica Popolare Cinese (Rpc) e dalla conseguente chiusura dei legami ufficiali con Taipei (1979), gli Usa hanno mantenuto una postura di “ambiguità strategica” nel triangolo con Rpc e Repubblica di Cina (nome ufficiale di Taiwan). Riconoscendo ufficialmente, dal 1992, l’esistenza di una sola Cina (“One China Policy”), quella comunista. Formidabile artificio diplomatico, sfruttato dalla superpotenza per mantenere rapporti formali con Pechino e, contemporaneamente, sostenere l’ex Formosa in funzione anti-cinese. Armandola fino ai denti ai sensi dello US-Taiwan Relations Act (1979) e delle “Sei Assicurazioni” del 1982 (recentemente desecretate). Restando però ambigua sulla possibilità di intervenire direttamente a difesa dell’isola in caso di aggressione dalla terraferma.
Allora, quella postura, data l’assoluta sproporzione di forze a vantaggio dell’America e l’arretratezza tecnologica dell’arsenale bellico cinese costituiva un sufficiente deterrente verso Pechino. Oggi, le distanze in termini di potenza militare tra numero uno e numero due rimangono ampie, ma si sono accorciate. Soprattutto, si è ampliato lo squilibrio militare tra la terraferma e l’isola, quanto ha reso più assertiva la condotta sinica nel suo “estero vicino”.
Sino ad oggi, l’“ambiguità strategica” è stata funzionale ad una doppia deterrenza. Nei confronti della Cina, per indurla a non agire di forza. E verso la medesima Taiwan, per dissuaderla dal dichiararsi unilateralmente indipendente dalla Mainland. Linea rossa invalicabile per il Partito Comunista Cinese (Pcc), per il quale “indipendenza significa guerra”. Xi Jinping ha posto la riunificazione (pacifica o forzata) della “provincia ribelle” come traguardo imprescindibile per la sua stessa legittimità politica, per la realizzazione del “Sogno del risorgimento nazionale” e l’elevazione dell’Impero di Mezzo a superpotenza globale entro il 2049.
Negli ultimi anni, in parallelo al consolidamento dei rapporti politici, diplomatici e militari promosso dall’amministrazione Trump, gli analisti americani sono tornati a dibattere sulla necessità, o meno, di mantenere questa posizione di ambiguità.
Da una parte, c’è chi sostiene che soltanto abbandonando l’ambiguità e abbracciando una maggiore “chiarezza strategica” sull’impegno americano a difendere Taiwan contro qualsiasi uso della forza, offrendole esplicitamente una “garanzia di sicurezza”, il Pcc potrà essere dissuaso efficacemente. Senza arrivare ad un trattato di mutua sicurezza. Senza fornire un “assegno in bianco” alle crescenti pulsioni indipendentiste e nazionaliste dell’identità degli isolani (più dei due terzi di essi si definisce solo taiwanese).
Altri osservatori, invece, sostengono che una tale scelta tattica potrebbe non essere sufficiente a scongiurare lo scenario “bellico”. Al di là degli ostacoli legali, secondari nel conflitto geopolitico, la chiarezza strategica potrebbe rivelarsi controproducente, alimentando una catena di escalation che potrebbe sfociare in conflitto armato involontario ed accidentale. Ad esempio, i taiwanesi, forti di un formale impegno di sicurezza Usa, potrebbero compiere passi definitivi verso la dichiarazione d’indipendenza, varcando la linea rossa tracciata dal Pcc, costringendo Pechino ad intervenire.
Nella direzione della “chiarezza strategica” si inseriscono i dibattiti all’interno degli ambienti militari americani sulla possibilità di tornare a stanziare permanentemente forze americane sull’isola, a 41 anni dal loro ritiro, per scoraggiare lo scenario, al momento improbabile, di “riunificazione forzata”. Opzione intollerabile per gli strateghi cinesi e considerata controproducente da parte di alcuni analisti americani. In quanto potrebbe provocare quel gesto di forza che si vuole deterrere. Esporrebbe i soldati Usa al tiro dei sistemi missilistici basati a terra della Rpc, proprio ora che il Pentagono sta rivedendo la distribuzione regionale delle forze per disperderle in più basi, disposte oltre la seconda catena di isole, al fine di renderle meno vulnerabili ai sistemi missilistici cinesi Anti Acces/Area Denial (A2/AD).
Costituirebbe, in definitiva, una provocazione in grado di minare la stabilità regionale, alzando l’asticella della tensione. Obiettivo che non solo a Washington, ma soprattutto a Taipei, mirano a scongiurare. Consapevoli di essere le prime vittime di un’eventuale rappresaglia cinese. “L’esercito americano non deve necessariamente essere di stanza a Taiwan per agire come deterrente“, ha dichiarato lo scorso settembre Lo Chih-cheng, parlamentare del Partito popolare democratico.
La nuova amministrazione americana si porrà in sostanziale continuità nel rapporto con Taipei, descritto “solido come una roccia” dal presidente Joe Biden. Come testimoniato dalla partecipazione all’Inauguration Day dello scorso 20 gennaio di Hsiao Bi-khim, ambasciatrice de facto di Taiwan a Washington, su invito diretto della Casa Bianca, prima volta dal 1979. Negli stessi giorni, il Comando americano per l’Indo-Pacifico (Us Indopacom) inviava nel Mar Cinese Meridionale il gruppo portaerei USS Theodore Roosevelt in una operazione di libertà di navigazione (Fonop), in risposta alle sempre più frequenti incursioni sui cieli di Taiwan da parte di otto bombardieri H-6K con capacità nucleare e quattro jet da combattimento J-16 cinesi.
La superpotenza manterrà la deterrenza verso possibili azioni di forza di Pechino (che si legge in “impegno a difendere l’isola” nelle linee strategiche indo-pacifiche risalenti al 2018, ma desecretate dal Consiglio per la Sicurezza Nazionale negli ultimi giorni di vita dell’amministrazione Trump). Washington aumenterà il ritmo delle esercitazioni congiunte e delle operazioni aeronavali per la libertà di navigazione e sorvolo nei Mari Cinesi. Continuerà ad addestrare le truppe autoctone in missioni d’assalto e infiltrazione. Cementerà la cooperazione di intelligence. Incentiverà lo sviluppo della strategia del “porcospino”, funzionale a trasformare l’isola in “fortezza” a prova di sbarco anfibio. Per rafforzarne la resilienza e la deterrenza autonoma, in modo da elevare i costi politici dell’opzione militare per il Dragone e ridurre il rischio degli Usa di essere trascinati in un conflitto con esso. Continuerà, quindi, a fornirle hardware, know-how e tecnologie militari per potenziarne le capacità di autodifesa, convenzionale (caccia F-16V, droni da sorveglianza Sea Guardian e droni d’attacco) e asimmetrica (missili terra-aria Patriot e sistemi di difesa costiera Harpoon, mine intelligenti).
Se la competizione Usa-Cina dovesse assumere dimensione cinetica, essa si giocherebbe proprio attorno alla “portaerei inaffondabile”, come la ebbe a definire il generale Douglas MacArthur per la sua strategica posizione a ridosso della massa terrestre cinese, a sole 100 miglia dalla Cina continentale. Gli Usa non potrebbero non difendere l’isola. Essa costituisce il fulcro del contenimento geoeconomico (decoupling delle tech supply chains) della Rpc. E di quello geostrategico, esteso lungo la prima catena di isole dal Giappone alla Malaysia. Volto a soffocare la proiezione oceanica dell’Impero di Mezzo, a mantenerla potenza terrestre, ad impedirle di controllare/interdire le rotte commerciali, a rinunciare alla pretesa di estendere la propria sovranità su Taiwan e sui mari rivieraschi. A non puntare alle stelle del primato mondiale. A mantenere gli occhi fissi sulla terra, quale ricca provincia dell’impero americano.