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Droni e missili sulla base di Al-Tanf. Chi vuole gli americani fuori dalla Siria

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Il modus operandi dell’attacco alla base di al-Tanf e i precedenti delle scorse settimane lasciano pensare che dietro l’aggressione alla base americana ci sia probabilmente la mano delle milizie pro-iraniane. Damasco e i suoi alleati vogliono segnalare agli Stati Uniti che la presenza dei militari americani sull’arteria principale che collega Baghdad con Damasco non sarà più tollerata. Ancora una volta, emerge la vulnerabilità degli eserciti occidentali di fronte agli attacchi condotti con sciami di droni.

L’attacco alla base statunitense e gli interessi in gioco 

Nella notte del 20 ottobre, una base statunitense situata nell’area di al-Tanf, nella Siria meridionale, è stata oggetto di un attacco condotto tramite un imprecisato numero di UAV (Unmanned Aerial Vehicle) suicidi e di armi a tiro indiretto. L’attacco, che il portavoce del CENTCOM ha definito “deliberato, complesso e coordinato”, non ha causato vittime tra le forze USA. Le autorità americane hanno preferito non fornire dettagli in merito alla natura delle armi utilizzate per colpire la base, tuttavia, fonti di Al Mayadeen – canale d’informazione basato in Libano che segue con attenzione le dinamiche della guerra siriana – riferiscono che a condurre l’attacco siano stati uno sciame di cinque droni armati con una carica esplosiva accompagnati da una salva di missili

I dettagli sulla natura dell’attacco sono alquanto rilevanti perché permettono di fornire indicazioni in merito all’identità di chi lo ha condotto. In effetti, attacchi di questo tipo, che includono la presenza di droni suicidi in coordinazione con sistemi d’arma a tiro indiretto, sono tipicamente pianificati e condotti dalle milizie irachene sostenute dall’Iran, tra le quali figurano gruppi come Kataib Hezbollah, Asaib Ahl al-Haq, l’organizzazione Badr e Harakat Hezbollah al-Nujaba. A ricondurre l’attacco perpetrato ai danni degli Stati Uniti la notte del 20 ottobre all’azione delle milizie supportate dall’Iran non sono stati solamente alcuni tra i centri di ricerca più attenti alle dinamiche mediorientali, ma anche le autorità americane, che nella giornata del 25 ottobre hanno esplicitamente sostenuto questa posizione.

Non è solo il modus operandi a spingere gli analisti a vedere la mano delle milizie iraniane in Iraq dietro l’attacco ad al-Tanf. In effetti, l’aggressione alla base americana avviene a pochi giorni dall’ultimo attacco aereo israeliano contro alcune milizie pro-iraniane nei pressi di Palmira, in Siria. In seguito all’attacco, una dichiarazione della Sala Operativa degli “Alleati della Siria” – il gruppo, formato nel 2015, ingloba una vasta rete di milizie operanti in Siria a favore del governo di Assad, incluso Hezbollah libanese – accusava Israele di aver condotto i raid utilizzando lo spazio aereo americano sopra la base di al-Tanf per entrare in Siria e prometteva atti di rappresaglia per vendicare l’accaduto.

L’attacco condotto contro le milizie pro-Assad a Palmira non sarebbe affatto il primo episodio in cui Israele colpisce questi attori in Siria. Prima ancora, l’8 ottobre, forze israeliane avevano colpito la base di Tiyas, vicino Homs, una delle strutture realizzate dall’Iran nella regione dove vengono costruiti i droni di Teheran. Colpire questa base consente a Gerusalemme di perseguire uno dei suoi scopi principali nei confronti della Siria, ovvero quello di evitare che le milizie agenti nel Paese, formalmente solo a supporto del governo di Assad, ricevano da Teheran armi con le quali poter attaccare Israele dal territorio siriano. Le azioni di Israele in Siria vanno lette nell’ambito di una più larga strategia, condotta da Gerusalemme, volta a contrastare i gruppi armati supportati dall’Iran in tutto il Medio Oriente, scongiurando la possibilità di attacchi a tiro indiretto o tramite droni contro il territorio israeliano. 

La base americana di al-Tanf giova particolarmente alla strategia israeliana. Oltre a fungere come una sorta di waypoint per le forze aeree delle IDF che, dopo aver navigato lungo il confine tra Siria e Giordania, sfruttano la base per entrare nello spazio aereo siriano, essa consente di controllare il contrabbando di armi proveniente dall’Iran. Al-Tanf si trova infatti sulla strada principale che collega Teheran, Baghdad, Damasco e Beirut, un’arteria fondamentale per il traffico di armi a favore delle milizie pro-iraniane. La base, creata nel 2016 ufficialmente per ospitare le truppe americane impegnate nella lotta contro l’ISIS, nell’ambito dell’operazione Inherent Resolve, non è stata smantellata, anche se Damasco non ha mai smesso di fare pressione su Washington per farla chiudere. Oggi le forze speciali americane presenti nell’avamposto – gli americani in Siria dispongono di poco meno di mille unità, divise tra al-Tanf e la regione settentrionale del Paese, vicino Hasaka, dove sono situati molti grossi pozzi petroliferi – conducono ufficialmente addestramento in favore delle forze siriane di Maghawir al-Tawra, per rafforzarne la capacità di contrasto all’ISIS. Più verosimilmente, la base rappresenta, per Washington, un utile strumento nella sua strategia di contrasto all’Iran. In effetti, mentre il corpo diplomatico americano sta guidando uno sforzo internazionale volto a riportare Teheran al tavolo delle trattative, la tensione tra Stati Uniti e Iran è tornata a crescere. Nel corso di quest’anno Biden ha autorizzato due attacchi aerei contro obiettivi in Siria, il primo a febbraio, contro milizie pro-iraniane, in risposta ad alcuni attacchi tramite razzi condotti contro le forze statunitensi in Iraq, il secondo a settembre, contro obiettivi di al Qaeda vicino Idlib. 

Quanto all’Iran e alle milizie che esso supporta, l’ultimo grosso attacco contro le truppe statunitensi è avvenuto nel gennaio del 2020, quando, come rappresaglia per l’attacco americano che aveva portato alla morte del Generale Soleimani, la base americana di al-Asad, in Iraq, venne colpita da una salva di missili che causò solo lievi danni alle truppe schierate al suo interno. Le milizie irachene supportate dall’Iran, dal canto loro, hanno condotto con costanza attacchi contro le truppe USA schierate nel nord della Siria, sebbene in scala molto ridotta. Nessuno di questi, infatti, aveva mai raggiunto le dimensioni e la complessità di quello condotto contro al-Tanf, che ad oggi rimane il più grande e sofisticato attacco condotto contro gli Stati Uniti in Siria dal 2015. 

L’Iran ha tutto l’interesse a che la base americana di al-Tanf venga abbandonata. In questo senso, l’attacco condotto nella notte del 20 ottobre potrebbe essere letto come un messaggio rivolto dalle milizie pro-iraniane verso gli Stati Uniti, volto a segnalare che la presenza americana nell’area non resterà a lungo indisturbata.  Se si osserva con attenzione il modus operandi adottato da coloro che hanno condotto l’operazione, gli UAV che hanno raggiunto la base hanno colpito obiettivi secondari, come un deposito di cibo e una cucina. Il fuoco delle armi a tiro indiretto, poi, avrebbe colpito l’area circostante la base, e non il suo interno – il che appare un atto volontario, se si tiene conto che queste armi, come riferisce Al Mayedeen, erano dei missili, quindi ordigni autopropulsi dotati di un sistema di guida che li permette di colpire con precisione, a differenza dei razzi e delle bombe da mortaio, che non possono modificare la loro traiettoria in volo, risultando molto meno precisi. Il tutto lascerebbe pensare, dunque, che l’intenzione non fosse quella di fare dei morti, ma solo di inviare un messaggio, ancora una volta evitando un’escalation del conflitto. Che l’Iran si avvalga dei suoi proxy per recapitare il suo messaggio non stupisce, ma anzi conferma una tendenza consolidata in molti teatri bellici da diversi anni, cioè quella di sfruttare l’azione di attori non statali presenti sul territorio per condurre azioni belliche senza assumersene la responsabilità e quindi pagarne le conseguenze.

Quanto alla Siria, l’attacco ad al-Tanf può essere letto come un segnale di ripresa del Paese e dei suoi alleati. Il fatto che il messaggio rivolto agli americani e agli israeliani in seguito all’attacco aereo su Palmira, una settimana prima di quello ad al-Tanf, sia stato indirizzato ad essi proprio dagli “Alleati della Siria” potrebbe segnalare un nuovo atteggiamento nei confronti delle potenze ostili a Damasco. Dopo anni di furiosa guerra, il governo è in grado di esercitare un controllo sempre maggiore sul territorio e la Siria, in fase di ripresa, sarebbe pronta a un nuovo confronto con gli americani, qualcosa di simile a quanto sta avvenendo in Iraq. Dal canto loro, le milizie presenti sul territorio, ufficialmente per supportare il regime di Damasco, sarebbero pronte a unirsi contro le forze di occupazione americane nel Paese. 

La proliferazione dei droni in Medio Oriente

L’evento accaduto ad al-Tanf non suggerisce solamente considerazioni di carattere geopolitico, ma anche militare. Quest’ultime, in questo caso, appaiono molto rilevanti. L’attacco alla base americana, infatti, rivela ancora una volta la vulnerabilità delle forze occidentali rispetto agli attacchi condotti tramite assetti non pilotati, o pilotati da remoto, soprattutto quando essi sono di dimensione alquanto ridotta. 

In effetti, il Medio Oriente sta assistendo, da qualche anno, a un vero e proprio fenomeno di proliferazione di droni di varia natura, dai grossi UAV MALE turchi alle piccole munizioni circuitanti israeliane. L’Iran ha giocato e gioca tuttora un ruolo da protagonista in questo processo, avendo contribuito ad innescarlo già a partire dagli anni ’80, durante la guerra con l’Iraq. Col trascorrere degli anni, grazie soprattutto alle informazioni tratte dai grossi UAV americani di cui sono entrati in possesso – Teheran ha abbattuto un Sentinel americano nel 2011, ma anche un Global Hawk nel 2019 – le Guardie della Rivoluzione iraniane hanno creato un vero e proprio esercito di droni di tutte le dimensioni, uno strumento efficace che l’Iran ha sapientemente utilizzato per proiettare potenza in tutti i paesi vicini, soprattutto in Iraq, Siria, Libano, Yemen e Sudan. Gli assetti non pilotati, grazie al loro costo ridotto, all’estrema versatilità e alla semplicità di utilizzo, vengono usati in maniera sempre più frequente ed efficace dai gruppi armati non statuali supportati dall’Iran. Questi apparecchi vengono utilizzati non soltanto come vere e proprie mine volanti, ma anche come assetti per la ricognizione e la raccolta di fonti intelligence. Più di recente, per rendere ancora più complessa la difesa contro un attacco condotto tramite assetti UAV, questi gruppi hanno cominciato a impiegare veri e propri sciami di droni. Il principio è semplice: per evitare che il difensore possa individuare e intercettare il velivolo, l’attaccante impiega un gruppo più o meno folto di assetti in contemporanea, così da scongiurare la possibilità che il difensore possa intercettare tutti gli apparecchi utilizzati. Questo tipo di attacco, evidentemente, è reso possibile dal costo molto basso dei piccoli UAV.

Come dimostrato in moltissimi recenti teatri bellici – soprattutto nel conflitto libico, nel conflitto yemenita e nel conflitto nel Nagorno-Karabakh – oggi qualsiasi esercito moderno – fatta eccezione forse per la Russia, che ha sviluppato difese antiaeree all’avanguardia – fa fatica ad assicurare una difesa efficace contro questi assetti. Gli Stati Uniti hanno cominciato ad interessarsi seriamente del problema a partire dal 2016, quando si resero conto che il loro principale sistema di difesa su cui potevano contare per affrontare questa minaccia, il sistema Patriot, oltre che essere troppo costoso – un intercettore supera il milione di dollari – risultava spesso poco efficace. Resosi conto della vulnerabilità delle forze USA nei confronti di questa minaccia, i vertici militari americani hanno avviato diversi progetti volti a fornire le proprie forze di sistemi in grado di far fronte a questo tipo di attacchi, ma a oggi le loro forze ancora risultano eccessivamente esposte. 

Un esempio plastico dell’impreparazione occidentale di fronte a questa tipologia di armi si è avuto nel 2019, in quella che è divenuta famosa, tra gli esperti, come una nuova Pearl Harbour della difesa antiaerea americana. Il 14 settembre del 2019, quando le tensioni tra Stati Uniti e Iran erano molto alte, i Pasdaran iraniani pianificarono e condussero un attacco complesso con droni e missili da crociera ai danni dell’Arabia Saudita. Lo sciame di droni, dopo aver sorvolato per centinaia di chilometri l’Iraq, si diresse verso le infrastrutture petrolifere dell’Aramco presso Abqaiq, al confine col Bahrain. In quel momento, le strutture erano difese da una serie di sistemi di difesa aerea all’avanguardia, tra i quali una batteria di PATRIOT americana, un cannone Oerlikon GDF da 35 mm con un radar Skyguard e un sistema francese CROTALE “Shahine”. Nonostante le difese, per 17 minuti di fila lo sciame di droni riuscì a colpire a più riprese le infrastrutture, provocando danni tali da provocare una riduzione della capacità mondiale di greggio del 5%.

L’impreparazione americana

A ribadire l’impreparazione americana, più di recente, è stato proprio il comandante del CENTCOM, il Generale Kenneth McKenzie, che nel febbraio di quest’anno si è espresso con parole alquanto preoccupanti a riguardo. “Queste armi rappresentano lo sviluppo a livello tattico più preoccupante dall’avvento degli Improvised Explosive Device (IED) in Iraq e in Afghanistan”, ha detto McKenzie, “sono sistemi molto economici, molto versatili, facili da armare e da diffondere ovunque…attualmente noi siamo nel lato sbagliato della curva di imposizione del costo perché questa tecnologia (quella dei droni) favorisce l’attaccante, non il difensore. Ma ci stiamo lavorando con determinazione”. 

In effetti gli Stati Uniti hanno avviato diversi programmi per garantire alle loro forze un’efficace difesa contro questi apparecchi. La soluzione più promettente è quella che impiega la tecnologia delle armi ad energia diretta. Nonostante le armi laser richiedano una quantità di energia molto elevata, per abbattere queste macchine non è richiesto un fascio di luce eccessivamente potente, motivo per il quale gli Stati Uniti hanno già cominciato a schierare veicoli Stryker armati di un sistema ad energia diretta da 50 kW. Per far fronte all’impiego di droni in sciami, gli USA stanno sviluppando un programma, chiamato Leonidas, che sfrutta, oltre all’energia diretta, la diffusione di microonde per abbattere i droni interrompendo il collegamento con la stazione che li controlla. 

La proliferazione di questi apparecchi, oltre a rappresentare un pericolo per le forze statunitensi e per gli eserciti occidentali in generale, porta con sé alcune implicazioni molto preoccupanti. In effetti questa tecnologia, oltre a risultare poco costosa, permette di abbassare il rischio di subire rappresaglie da parte del difensore, dato che non è facile risalire all’artefice dell’attacco. Inoltre, visto che quella di cui si sta parlando è un’arma che si può diffondere e utilizzare con semplicità, essa permette a determinati attori, soprattutto statuali, di agire con efficacia contro eserciti tecnologicamente avanzati utilizzando dei proxy, esattamente come fa l’Iran, senza pagarne le conseguenze. Tutto questo risulta in un minor costo in termini politici, economici e militari, rendendo più probabile il ricorso all’uso della forza. In conclusione, l’attacco alla base di al-Tanf mette in luce, ancora una volta, la vulnerabilità con cui gli eserciti occidentali si trovano a dover fare i conti quando affrontano avversari, siano essi regolari o irregolari, capaci di utilizzare in maniera massiccia droni o sciami di droni. Più in generale, quanto accaduto suggerisce di considerare sempre che, quando si tratta di innovare, il progresso tecnologico non risulta necessariamente in un vantaggio tattico se questo non è accompagnato da un adeguamento della dottrina e dell’organizzazione. Lo strumento bellico di Washington, indubbiamente in grado di disporre di tutte le più moderne tecnologie militari, non è riuscito ad innovare in maniera efficace quanto l’Iran negli scorsi anni, trovandosi ora a dover recuperare quanto lasciato indietro negli scorsi anni.

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