Secondo il ministro degli Esteri Luigi Di Maio una missione di caschi blu europei in Libia “sarebbe l’unico modo per fermare le interferenze esterne, il massacro di civili innocenti e per dare all’UE una sola voce”. A Palazzo Chigi ed alla Farnesina sembrano ora fare propria la linea di un intervento congiunto – da attuarsi con il concorso di Francia, Germania e Spagna – nella ex colonia italiana onde separare i contendenti e favorire il processo di pace. In un certo senso una copia di UNIFIL, la missione militare d’interposizione ONU a guida italiana in Libano rinnovata nel 2006 dopo la fine del conflitto israelo-libanese.
Proprio l’impostazione simile ad UNIFIL di questa missione ancora tutta da decidere ed approntare – anche perché Di Maio ha detto che “sono i libici gli unici titolati a decidere” se accettare la presenza di truppe straniere – appare poco adattabile all’attuale scenario bellico libico: innanzitutto in Libia allo stato attuale non esistono confini ben delineati da presidiare ma un agglomerato di tribù armate l’una contro l’altra e due entità politico-militari rivali che si fronteggiano lungo una non meglio definita linea di faglia soggetta ad oscillazioni; in secondo luogo non è assolutamente garantito – anzi è probabile il contrario – che i libici, a prescindere dalla fazione di riferimento, siano propensi ad accettare un intervento straniero che preveda la presenza di truppe armate e non di osservatori disarmati; quantunque uno dei due macrogruppi di potere, quello di Tripoli o quello di Tobruk-Bengasi, accettasse la presenza di un contingente d’interposizione, lo stesso potrebbe essere visto come fumo negli occhi dal rivale e la sicurezza dei soldati europei non sarebbe assolutamente garantita.
Gettare nel focolaio libico le proprie truppe, senza la certezza di avere un piano di pace con una scaletta cadenzata e ben definita e, per di più, senza la garanzia di avere il totale sostegno della popolazione e dei contendenti, sarebbe una mossa azzardata, a maggior ragione se, in questa copia sbiadita di UNIFIL, le regole d’ingaggio fossero le stesse di una qualunque missione di “peace monitoring” .
Le questioni d’ambito tecnico-militare sono schiettamente legate alle decisioni politiche prese a monte ed alla percezione dello scenario – meglio ancora, del campo di battaglia – cosicché se l’idea alla base della missione è quella di essere semplici garanti della pace e non anche dei propri interessi si finisce per diventare bersagli facili delle rappresaglie nemiche. Le avvisaglie – per il momento solo “politiche” – di Haftar al nostro esiguo contingente (280 soldati tra paracadutisti della Folgore e carabinieri) di Misurata, posto a protezione di una missione sanitaria che ha una valenza ormai ridotta allo zero, indicano chiaramente quanto sia difficile, se numericamente inferiori, farsi accettare dai libici a fronte di un conflitto in corso. Senza dimenticare poi che la presenza di un contingente d’interposizione lungo una linea ben definita, che sia quella di fronte attuale o quella antebellica rispecchiante la divisione geografica tra Tripolitania e Cirenaica, equivarrebbe a tracciare sulla mappa un nuovo confine, anticipando e favorendo quindi la spaccatura in due entità statali indipendenti e “sovrane” della vecchia Libia.
Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha dichiarato alla stampa che l’Italia sta lavorando affinché “a parlare sia la diplomazia e tacciano le armi” e che, cosa ancora più importante, a Roma non esistono “agende nascoste” sulla questione libica, che tutto avviene alla luce del sole e che non si ha alcuna intenzione di fornire armi a Tripoli. Continua dunque il percorso della “diplomazia pura” scelto dal governo italiano; percorso sin qui fallimentare e che non apre a prospettive rosee per il nostro Paese, anche perché è cosa ben nota che le altre Potenze interessate alla Libia abbiano le loro “agende segrete” divergenti da quella di Roma.
Nell’audizione alle Commissioni Difesa di Camera e Senato il ministro Lorenzo Guerini ha aperto alla possibilità di rimodulare la presenza militare italiana in Libia ma si è concentrato soprattutto sull’importanza di riattivare la quiescente Missione Sophia, cosicché le navi del dispositivo tornino ad occuparsi del contrasto all’afflusso di armi dirette sui campi di battaglia libici. La piaga del commercio di armi va contrastata ma non si può creare stabilità in una regione dilaniata dalla guerra solo tramite un dispositivo navale – per altro superato nei tempi e nei modi – che lo stesso ministro degli Esteri Di Maio ha chiesto di “smontare e rimontare”. I conflitti si decidono a terra e le componenti navali e/o aeree possono essere di supporto, garantire un forte sostegno, ma non influenzare, da sole, le sorti di una guerra.
Senza dimenticare che fino a questo momento è rimasta fuori dai radar qualunque discussione sulla stabilizzazione e sulla ricostruzione del tessuto politico-amministrativo del Fezzan, la porosa frontiera meridionale della Libia, nonché principale via di transito per trafficanti di armi e droga, flussi migratori illegali e miliziani islamisti (https://www.geopolitica.info/il-fezzan-anarchico-la-crisi-libica-e-litalia/). Ogni questione sulla frontiera meridionale della Libia sembra essere passata in secondo piano, inghiottita dagli eventi bellici sulla costa, quando invece la complessità degli equilibri e l’esplosione del tribalismo imporrebbero una discussione in merito molto più approfondita, anche perché in ballo ci sono situazioni importanti come la lotta al terrorismo, il contrasto al traffico di esseri umani e la lotta al contrabbando di armi.
Né la sicurezza di eventuali soldati italiani impegnati in una missione d’interposizione né il riassetto futuro della Libia secondo i nostri interessi nazionali sono stati garantiti dai colloqui moscoviti e dalla Conferenza di Berlino. Nella capitale tedesca si è optato per un flebile cessate-il-fuoco già violato sul campo da Haftar (con il bombardamento sull’aeroporto di Tripoli) senza aver però tratteggiato una “road map” sul futuro processo politico di pacificazione. A dare le carte in questo momento sono Ankara e Mosca con l’aggiunta del Cairo, Roma non sta giocando la propria partita ma sta tentando di infilarsi maldestramente in quella altrui. Con un approccio realistico, forse cinico, ma sicuramente rispondente agli interessi nazionali, verrebbe quasi da dire che il crollo repentino delle speranze suscitate dalla Conferenza di Berlino consenta all’Italia di rientrare – sempre che Roma abbia nel frattempo approntato una linea politico-diplomatico-militare ben precisa – a gamba tesa in Libia, in una crisi decisamente più complessa di quella siriana e che sta già ridisegnando gli equilibri di potenza nel Mediterraneo.