Nello “scontro ibrido” in atto tra la Russia, da un lato, le ex repubbliche sovietiche baltiche più la Polonia (ex satellite dell’URSS), dall’altro, pare emergere un nuovo capitolo: quello della diatriba storiografica. La recente Risoluzione dell’Unione Europea sui totalitarismi, infatti, chiama direttamente in causa Mosca esortandola a confrontarsi con il proprio passato ripudiando ogni revisionismo storico. I riferimenti al Patto Ribbentrop-Molotov testimoniano che il Parlamento europeo ha scelto di gettare nell’agone geopolitico un tema assai spinoso che, tuttavia, ad una attenta disamina, rischia forse di avere un effetto controproducente, lasciando trasparire un intento propagandistico di cui il documento UE sembra essere permeato.
La Risoluzione 2819 del Parlamento europeo
Il 19 settembre 2019 l’Europarlamento ha adottato la Risoluzione 2819 intitolata Importanza della memoria europea per il futuro dell’Europa, approvata con 535 voti a favore e 66 contrari (52 gli astenuti), presentata dai gruppi PPE, S&D, Renew, Verts/ALE ed ECR. L’occasione – vi si può leggere – è stata rappresentata dall’80° anniversario dall’inizio della Seconda guerra mondiale. Quest’ultimo riferimento omette tuttavia un dato non trascurabile: l’esistenza dello stato di guerra con il Reich venne comunicata da Parigi e Londra, non senza riluttanza, solo il 3 settembre. La “riluttanza” di francesi e inglesi ad aprire le ostilità fu testimoniata dal fatto che per ben nove mesi quello occidentale fu un fronte freddo, tanto che quella inusuale stasi venne chiamata dai francesi drôle de guerre (lett. “guerra comica”). Durante quei mesi di stallo la Germania potè occupare la Città Libera di Danzica e la Polonia senza preoccuparsi del proprio fianco occidentale, mentre l’URSS annetteva parte del territorio polacco (le Kresy Wschodnie) e iniziava una guerra contro la Finlandia. In aprile (operazione Weserübung) i tedeschi poterono invadere anche Danimarca e Norvegia. La drôle de guerre ebbe termine solo a maggio, quando la Wehrmacht, penetrando nei Paesi Bassi, in Lussemburgo e in Belgio, diede inizio a Fall Gelb, nome in codice per il piano d’operazioni preliminari alla neutralizzazione della Francia. Queste circostanze potrebbero suggerire che, forse, la Risoluzione UE non possa pretendere di esaurire, nelle sue sei pagine, le (assai) complesse dinamiche all’origine del secondo conflitto mondiale, che divenne tale solamente il 7 dicembre 1941, quando il Giappone bombardò Pearl Harbor.
Una memoria lacunosa
Nemmeno qui, ça va sans dire, si vuole avere la presunzione di esaurire tali tematiche. Vale tuttavia la pena prendere in considerazione alcuni passaggi nodali del documento UE, soprattutto per via degli effetti che potrebbero avere sul dibattito geopolitico odierno. Ad esempio, la Risoluzione afferma (punto B) che il Patto Ribbentrop-Molotov abbia: <<spianato la strada allo scoppio della Seconda guerra mondiale>>. Tale asserzione appare opinabile per una serie di motivi che diversi storici avevano già messo in luce. Tra questi Alan J.P. Taylor che, nel suo The Origins of the Second World War (1961), documentò le responsabilità delle potenze occidentali nel secondare le rivendicazioni hitleriane attraverso l’appeasement. Un osservatore privilegiato quale William L. Shirer – corrispondente dall’Europa per la CBS* dal ’37 al ’41 e membro del Peace Aims Group del CFR** dal ’43 al ’45 – nel saggio The Rise and Fall of the Third Reich (1960) non si discostò dalle tesi di Taylor circa le responsabilità di Parigi e Londra nel consentire che la politica di Hitler determinasse la disintegrazione del “sistema di Versailles”. Nella complessità che caratterizzò le relazioni internazionali durante quella che Edward H. Carr definì the twenty years’s crisis (1919-1939) un dato sopra tutti sembra ulteriormente mettere in dubbio la tesi storiografica dell’UE: il ruolo avuto dalla diplomazia sovietica, durante gli anni Trenta, nel tentare di costruire con francesi e inglesi un sistema di sicurezza collettiva che contenesse il revisionismo hitleriano. In tal senso, i ripetuti sforzi di Maksim Litvinov, Commissario del Popolo per gli Affari Esteri dal 21 luglio 1930 al 3 maggio 1939, naufragarono sempre dinnanzi a due ostacoli: la conventio ad excludendum delle potenze occidentali (di fatto emuli del “cordon sanitaire” a suo tempo propugnato da George Clemencau) e il pregiudizio della Polonia, nonostante il governo di Varsavia, il 25 luglio 1932, avesse firmato con l’URSS un patto di non aggressione, rinnovato il 5 maggio 1934 sino al 31 dicembre 1945. In séguito (26 gennaio 1934) i polacchi firmarono altresì un patto analogo con il Terzo Reich.
Realpolitik anglo-americana
L’UE sembra inoltre ignorare che il pragmatismo con il quale nazionalsocialismo e marxismo-leninismo seppero intendersi contraddistinse anche l’approccio di Downing Street. Andreas Hillgruber, in Hitlers Strategie: Politik und Kriegsführung, 1940-1941, (edito nel 1965), ha descritto come nell’ottobre 1940 Winston Churchill avesse chiesto all’URSS – in quel frangente ancora alleata della Germania – una “benevole neutralità” in cambio del riconoscimento de facto del controllo sovietico su Estonia, Lettonia, Lituania, Bessarabia, Bucovina settentrionale e sui territori polacchi occupati dall’Armata Rossa. In sostanza, il do ut des britannico implicava il riconoscimento delle acquisizioni territoriali ottenute dai sovietici grazie agli accordi da essi siglati nel ’39 con Berlino. Si può così notare un particolare: i contenuti geopolitici del patto tedesco-sovietico che nel settembre ’39 per Gran Bretagna e Francia avevano costituito il motivo scatenante della guerra in Europa, nell’ottobre del ’40 divenivano, mutatis mutandis, oggetto di possibile intesa tra Londra e Mosca. Peraltro, la disinvoltura di inglesi e russi non era una loro esclusiva. Basti ricordare che nel 1938 la rivista statunitense “TIME” attribuì il riconoscimento di “Man of the Year” ad Adolf Hitler. Quella scelta fu fatta sulla scorta dell’esito incruento della Crisi dei Sudeti, consumatasi a Monaco nel settembre di quell’anno con il sacrificio dell’integrità cecoslovacca sull’altare del principio di autodeterminazione. Taylor ha scritto che nel ’44 l’ex presidente cecoslovacco, Edvard Beneš, rivelò che a spingere il suo governo a cedere alle richieste tedesche fosse stata la minaccia della Polonia di procedere manu militari se non le fosse stata ceduta la regione della Slesia di oltre Olza con la città di Teschen. Secondo talune interpretazioni storiografiche, l’ultimatum polacco fu una “pugnalata alla schiena” della Cecoslovacchia. A questa si aggiunse, parallelamente, un altro “colpo basso”. Il 30 settembre, infatti, l’ambasciatore statunitense a Varsavia avvertì Washington che i polacchi si apprestavano a presentare un ultimatum al governo cecoslovacco. Il telegramma giunse al Segretario di Stato, Cordell Hull, alle 7:20 p.m di quello stesso giorno. Il 1° ottobre il ministro ceco a Washington, Vladimir Hurban, informò Hull che alle 12:30 a.m. [ora di Washington] da Praga erano giunte istruzioni di comunicare immediatamente al governo statunitense il contenuto dell’ultimatum, che la Cecoslovacchia considerava una violazione del Patto Briand-Kellog nonché dell’Accordo delle Quattro Potenze appena sottoscritto a Monaco. Hull – già a conoscenza dell’ultimatum – rispose laconicamente che prendeva semplicemente atto del fatto che Hurban si fosse offerto: <<to transmit a message to this Government shortly after half-past twelve this morning and regret that through no fault of your Legation or the Department of State you were unsuccessful in your efforts>> [fonte: FRUS-DP***, 760C.60F/287, 1938, Vol. I].
Storiografia o war propaganda?
Nel punto M (§§. 16 e 22) la Risoluzione sembra alfine palesare uno spirito erìstico nei confronti della Federazione Russa. Si afferma infatti che l’UE sia <<profondamente>> preoccupata: <<per gli sforzi dell’attuale leadership russa volti a distorcere i fatti storici>>, considerando << tali sforzi una componente pericolosa della guerra di informazione condotta contro l’Europa democratica>>. Il sospetto sembra aumentare nelle ultime righe, ove si incarica il Presidente dell’Europarlamento di trasmettere la Risoluzione, oltre che agli organi istituzionali UE e agli Stati membri, anche: <<alla Duma russa e ai parlamenti dei [P]aesi del partenariato orientale>>. Lungo questa falsariga, la Risoluzione appare essere (anche) uno strumento propagandistico nell’accesa dialettica geopolitica tra gli Stati baltici e Mosca su questioni tutt’ora aperte, tra cui: lo “Stivale di Saatse”, Suwalki Gap, il dispiegamento missilistico nell’exclave [russa] di Kaliningrad, la creazione da parte russa di una A2/AD (Anti Access/Area Denial), la sospensione (2007) del Trattato sulle Forze Convenzionali in Europa, l’estinzione (2019) del Trattato INF, lo Scudo anti-missile, il Nord Stream 2, le istanze economiche legate all’occupazione sovietica delle tre repubbliche baltiche come indicate nel memorandum d’intesa firmato a Riga il 5 novembre 2015. A ciò si aggiunga l’esistenza di due opposte posizioni sulla natura dell’ordine internazionale attuale: da un lato la Russia, la quale ritiene che tale ordine debba riferirsi ancora agli equilibri scaturiti dalla vittoria nella Seconda guerra mondiale e, dall’altro, gli Stati Uniti che focalizzano invece l’attenzione sulla fine del mondo bipolare (1989-1991) ovvero sulla preservazione dell’unipolar moment enunciato da Charles Krauthammer nel 1990. Il cortocircuito diplomatico che ne deriva sembra così suffragare la tesi circa la New Cold War profetizzata da George F. Kennan nel 1998 come reazione alla politica di espansione ad Est della NATO, da lui definita nel 1996: <<a strategic blunder of potentially epic proportions>>.