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TematicheCina e Indo-PacificoUn altro passo avanti nel decoupling tra Cina e...

Un altro passo avanti nel decoupling tra Cina e USA? Seconda parte

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Nell’ultima settimana di febbraio 2021, il POTUS Joe Biden ha espresso la volontà di rafforzare la cooperazione con i suoi alleati nel Pacifico per costituire una catena produttiva di chip e batterie “China-free” e di limitare l’approvvigionamento di terre rare da quest’ultima. La seconda parte dell’analisi di Alessandro Vesprini, Geopolitica.info

La Cina incalza sempre più la concorrenza nei settori tech

La recente firma della RCEP, e i prospetti di guadagno per la Corea che questa comportano, mal si coniugano con la pretesa del Presidente Biden di escludere la Cina dalla catena produttiva di questi settori, specialmente ora che il Dragone ha firmato un accordo con l’UE che prevede un’apertura degli investimenti nel settore dell’automotive, in particolar modo quello delle auto elettriche. Sebbene vi sia una differenza sostanziale tra veicoli ad idrogeno ed elettrici, è indubbio che i due chaebol, Hyundai e SK, abbiano ampi margini di guadagno dal mercato delle due tipologie di veicolo a seguito dei menzionati accordi internazionali e i recenti investimenti di SK nel campo dei semiconduttori, così come la presenza cinese, preminente, nel mercato delle batterie al litio-ferro-fosfato (LFP), escludono l’ipotesi che si possa effettivamente tagliare fuori la Cina dai suddetti settori.

In particolare, quest’ultimo mercato è dominato dalla LG Energy Solution, ma è incalzato dalla Contemporary Amperex Technology Co. Limited (CATL), una multinazionale cinese che nel 2020 ha annunciato la collaborazione con la Changan Automobile e la Huawei Technologies per accelerare lo sviluppo di veicoli elettrici, ma non solo, all’avanguardia. Sempre nel 2020, la CATL ha annunciato che si avvarrà della consulenza del RCS Global Group, una società di audit specializzata nella raccolta di dati e nell’identificazione di catene produttive virtuosi nel campo dei prodotti tecnologici e dell’approvvigionamento di terre rare.

Particolare attenzione è da porsi sul lancio del nuovo modello di cellulare della Huawei, che avrà un e-wallet di serie per lo Yuan digitale che Beijing ha testato in varie occasioni; è importante questo aspetto poiché alla Cina appartiene la quota maggiore del mercato del mobile africano e sempre all’inizio del 2021 è entrata in vigore l’African Continental Free Trade Area, l’area di libero scambio che abbraccia tutte le nazioni del continente, tranne l’Eritrea. Il Dragone rappresenta un elemento imprescindibile dell’economia del continente africano: avere interessi economici in Africa significa inevitabilmente confrontarsi anche con la Cina, un fattore da tenere in considerazione, considerando l’importanza che rivestono entrambi nell’esportazione di materie prime.

Le imprese giapponesi ritengono imprescindibile trovarsi nel mercato cinese

Tetsuro Homma, l’Amministratore Delegato di China & Northeast Asia Company, una sussidiaria della multinazionale giapponese Panasonic, afferma che quest’ultima, con il lancio della compagnia in-house di cui è AD, vuole guardare oltre la guerra commerciale tra Washington e Beijing, il che può significare che l’impresa nipponica non creda realmente alla possibilità di un decoupling effettivo e duraturo. Intervistato da Nikkei Asia, oltre alla precedente dichiarazione, aggiunge che ritiene improbabile che l’industria manifatturiera possa sopravvivere alla concorrenza globale rinunciando ad un mercato competitivo come quello cinese: “Being able to compete in China is a ticket to competing in the global market”, ha affermato.

Nonostante Tokyo abbia incentivato le proprie imprese a delocalizzare dalla Cina, secondo un sondaggio della Japan External Trade Organization (JETRO), condotto su un campione di circa 6000 società affiliate giapponesi operanti nell’Indo-Pacifico, solamente il 7,2 % delle compagnie operanti nel Celeste Impero sono disposte o hanno seriamente preso in considerazione di farlo; appare evidente, dunque, che i legami economici sino-giapponesi siano difficilmente recidibili, considerando anche l’aumento degli investimenti nipponici nel Paese.

Medio Oriente e “schizofrenia asiatica”

Nei primi giorni di gennaio 2021 ha avuto luogo un incidente diplomatico tra la Corea del Sud e la Repubblica Islamica dell’Iran circa una nave cargo sudcoreana; la vicenda ha implicazione più ampie, non solamente legate al diritto marittimo, bensì agli interessi che il Paese del Calmo Mattino sta avanzando in altre aree della regione MENA, tra cui i rapporti con gli Emirati Arabi Uniti e, in special modo, con Israele, un altro alleato degli Stati Uniti.

In relazione a questa vicenda, Seoul ha recentemente dichiarato che lo scongelamento dei fondi iraniani detenuti presso banche sudcoreane, potrà avvenire solamente con il beneplacito degli Stati Uniti, in quanto la vicenda rientrerebbe all’interno della più ampia gestione del nucleare persiano. Inoltre, grandi multinazionali coreane, tra cui si annoverano LG, Samsung e Lotte, stanno investendo pesantemente in Israele sia per quanto riguarda i settori menzionati dal Presidente Biden, che nel settore della difesa, in un momento in cui anche la Cina sta intensificando, come vedremo, i propri investimenti in quegli stessi settori; nel 2019, durante una visita in Corea del Sud, il principe degli Emirati Arabi Uniti Mohamed bin Zayed ha finalizzato una serie di trattati e accordi con lo Stato coreano, attraverso i quali quest’ultimo rafforzerebbe il proprio soft power nella regione.

Ritornando ai rapporti tra Beijing e Tel Aviv, è da notare che Israele rappresenta per la Cina sia un elemento fondamentale nella strategia di promozione della Belt-and-Road Initiative, sia un partner commerciale rilevante, considerando che Israele importa dal Celeste Impero la maggioranza dei propri beni, per lo meno secondo le stime della Banca Mondiale nel 2018, e che verso di esso esporta il secondo volume più ampio di beni, sebbene gli Stati Uniti rappresentino ancora la prima meta per distacco delle esportazioni israeliane. Inoltre, secondo il ChinaMed Project, gli investimenti cinesi in Israele sono aumentati significativamente in tempi recenti soprattutto nei campi dei software, dei servizi IT e dell’elettronica.

L’incidente diplomatico tra Iran e Corea del Sud, i rapporti militari tra questa e gli Stati Uniti e i rapporti economici tra i chaebol e la Cina,  sembrerebbero riconfermare quella schizofrenia asiatica con cui Evan Fegeinbaum descrive il comportamento dei Paesi orientali e che avevamo avuto modo di osservare anche in sede di Consiglio di Sicurezza dell’ONU, alla fine del 2020. Il Paese del Calmo Mattino è puntualmente allineato con gli Stati Uniti per quanto riguarda questioni in materia securitaria, si veda la questione iraniana, o il burden sharing delle spese militari nella regione, oppure si pensi al Giappone, il quale mira a ridurre l’influenza militare cinese nell’Indo-Pacifico attraverso la propria strategia FOIPFree and Open Indo Pacific – coinvolgendo la potenza atlantica nel Quad. Per legami economici, tuttavia, non sembrerebbero essere altrettanto in sintonia, così come non sembrerebbero esserlo, inoltre, i rapporti commerciali nipponici-americani, dal momento che il Giappone non si può permettere di rimanere tagliata fuori dal mercato cinese. Che anche Israele possa manifestare gli stessi sintomi?

Joe Biden e i mercati internazionali

Nella prima settimana di marzo 2021, il Senato americano ha dato il via libera all’American Rescue Plan Act (ARPA), con il quale intende contrastare gli effetti economici della crisi pandemica; tuttavia, la reazione dei mercati internazionali non è stata estremamente positiva: si teme, cioè, un aumento dell’inflazione a seguito di un eccesso di liquidità iniettato nel mercato. Non volendo entrare nel merito della questione economica, che sembrerebbe prefigurarsi come una misura espansiva mirata a contenere gli effetti di una recessione economica, in piena linea con quanto l’economista britannico John Maynard Keynes affermava nella sua teoria generale, questo scetticismo del mercato, in realtà, potrebbe essere legata anche alla dichiarazione del presidente statunitense circa la volontà di continuare la guerra commerciale con la Cina, sebbene con toni più temperati rispetto al suo predecessore.

La vittoria elettorale dell’attuale POTUS è stata in bilico fino all’ultimo e il passaggio dell’ARPA è stato possibile solamente grazie ad un voto; che la dichiarazione di voler escludere la Cina dalla supply chain dei settori high-tech fosse stata il prezzo da pagare per poter garantire il passaggio del piano di stimoli? D’altronde, come abbiamo avuto modo di constatare, lo scetticismo sul mercato finanziario rispetto all’ARPA è accompagnato allo scetticismo sul mercato reale rispetto al tagliare Beijing dalla catena produttiva; aspettative scettiche degli agenti economici circa inflazione attesa e accesso a determinati mercati, potrebbero, in effetti, fondersi e portare gli Stati Uniti a prendere decisioni basate su proprie aspettative che non troverebbero riscontro nei mercati e, di conseguenza, innescare un processo inflazionistico generato, piuttosto che dall’eccesso di liquidità, dalla guerra commerciale in determinati settori tecnologici.

Alessandro Vesprini,
Geopolitica.info

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