Alla fine degli anni ‘30 – su un periodico statunitense ad ampia diffusione (‘Look’) – apparve una carta geografica (in realtà quasi un’infografica) dal titolo: “In Ucraina la prossima guerra in Europa?”.
Lavorare sui parallelismi, sui ‘corsi e ricorsi’ – fin dalle famose sentenze di Vico, Hegel e Marx – è una delle tentazioni di ogni storico, ma a volte – soprattutto quando i concetti diventano meri slogan – il passato rischia di diventare una lente deformata e deformante. Si pensi – in queste settimane – all’uso indiscriminato del termine ‘Blitzkrieg’, che tra l’altro, alcuni sprovveduti ufficiali dello Stato Maggiore italiano, quegli stessi che di lì a poco avrebbero portato il ‘Regio Esercito’ a sbattere – sulle montagne dell’Epiro – contro un’accanita resistenza greca, arrivarono a definirla ‘un’invenzione italiana’. Questo termine ha a che fare con una specifica modalità dottrinaria-operativa tedesca, sviluppata dal generale von Seeck negli anni ‘30 e portata a compimento nel “Caso Giallo”: l’occupazione della Francia nel maggio-giugno 1940. Come dicevamo, estrarla da quel contesto storico (come abbiamo accennato in un precedente articolo) non spiega nulla e nulla ci fa comprendere del modo russo di fare la guerra e di quello che sta accadendo in Ucraina in questi primi 20 giorni di guerra.

Detto questo, fa una certa impressione riprendere in mano un volume come “Verlorene Siege” (“Vittorie Perdute”) che raccoglie le memorie del maresciallo Erich von Manstein, quel genio del “livello operativo della guerra” che riuscì – dopo la crisi del Fronte orientale dei mesi precedenti (la VI Armata si era arresa il 2 febbraio a Stalingrado) – a contenere e poi a contrastare momentaneamente l’offensiva sovietica. I tedeschi riuscirono a vincere – nel tardo inverno del 1943 – la terza battaglia di Karkiv (la prima è la seconda si erano combattute nel ‘41 e ‘42) prima con un “arrocco” e poi con un successivo, ben assestato “Schlag aus der” (“manrovescio”). Le divisioni panzer riuscirono a vanificare “la battaglia in profondità” con il “Bewegunskrieg” (“il combattimento mobile”); ma quella di Kharkov (come il nome della città è riportato sulle mappe tedesche) non fu nulla più di un “breve bagliore di vittoria”: la Wehrmacht e la Germania – dopo i combattimenti nell’Ucraina orientale nel febbraio/marzo 1943 – erano ormai davanti all’abisso. Quegli stessi campi di battaglia evocano oggi luoghi che sono tornati drammaticamente familiari: il Donets, il Don, il Donbas e appunto Karkiev dove torna – dopo 80 anni – a infiammare la lotta. Da notare anche le costanti – geostrategiche, geopolitiche e geoeconomiche – della storia: il grano dell’Ucraina, il petrolio del Caucaso che – tra le altre motivazioni – portarono Hitler a esporre fatalmente il suo fianco sud durante la fase esecutiva del “Caso Blu”, l’offensiva estiva del ‘42.
Come sappiamo il Gruppo di Armate Sud venne fatalmente diviso in A e B per tentare di prendere contemporaneamente Baku e Stalingrado.
Proprio Stalingrado viene – in modo fuorviante – usato sempre oggi per indicare (o meglio auspicare) quello che i russi potrebbero trovare avventurandosi (come a Grozny nel 1991/92) nei tunnel di cemento delle città ucraine: Mout (‘Military Operation in Urban Terrain’) nel linguaggio spesso “esoterico” delle Forze armate Usa, è l’acronimo che indica le operazioni militari nelle città. Un’espressione che oggi evoca Falluja o Mogadiscio come altrettanti campi di battaglia da incubo. Ma un parallelo tra Stalingrado e Kiev è fuorviante. Per due ordini di motivi.

Il primo è che ci sono tanti esempi che mostrano come un attaccante può prevalere anche in contesto urbano: Berlino (1945), Varsavia (1944), Hue (1968), Grozny (1999), Jenin (2002). Tutte queste operazioni hanno in comune il totale isolamento del nemico, negli ultimi due casi anche mediatico; mentre per quanto riguarda la riconquista della città santa del Vietnam – dopo l’offensiva del Tet, proprio la sovraesposizione mediatica Usa ha trasformato la vittoria sul campo in un disastro. Il secondo ordine di motivi sta nel fatto che è certamente vero che a Stalingrado la Blitzkrieg si arrestò con un fragoroso stridere di freni, trasformandosi in “Rattenkrieg”, una guerra di topi, una dura lotta casa per casa, combattuta in scantinati, tratti di fogna, quartieri ormai in rovina: la “Fabbrica dei Trattori” e quella “Ottobre Rosso”, “La Casa del Commissario Pavlov”, lo stabilimento “Barricate”, luoghi usciti dalla storia per entrare nella leggenda. Ma la VI Armata non morì lì, fu distrutta dopo le battaglie di accerchiamento tra il Volga e l’ansa orientale del Don (le varianti di Urano), dove il nostro ARMIR e le divisioni rumene a cui era affidato il compito di presidiare gli esposti e ciondolanti fianchi tedeschi vennero letteralmente cancellati dall’Ordine di battaglia dell’Asse.
È il 4 novembre del 1942 – in base a un ordine diramato alle ore 18e25 del giorno precedente – affluivano – via aereo – a Stalingrado “pionieri” dei battaglioni d’assalto 294. e 336. (che verranno aggregati alla 100. ‘Divisione Cacciatori’) per partecipare all’operazione “Hubertus”: l’ultimo attacco tedesco contro il settore settentrionale della città per forzare le difese sovietiche e raggiungere il Volga.
I genieri d’assalto tedeschi avrebbero profuso gli ultimi sforzi a partire dal 9 e 10 novembre; abilissimi nell’uso delle cariche esplosive, meno nel “fuoco e movimento”, sarebbero arrivati a poche centinaia di metri dal loro obiettivo ma non sarebbe stato sufficiente. Il 22 novembre i bollettini avrebbero dato una notizia sconvolgente: “Armee eingeschlossen”, “L’Armata è accerchiata”. I russi non (ri)conquistarono la città , ma spensero la sacca. Piccola digressione tecnica: a Stalingrado i tedeschi scontarono anche problemi tattici su due diversi fronti. Il primo sul volume di fuoco: la squadra di fanteria tedesca era incentrata sulle mitragliatrici leggere (Mg 34 e 42), ottime negli spazi aperti, ma inutili negli scontri ravvicinati – stanza per stanza – dove i russi riuscivano a sviluppare (per intensità, concentrazione e durata) un volume di fuoco nettamente superiore rispetto alla controparte. Nelle cantine, oltre le pareti sventrate che sembrano bocche cariate, tra le macerie sbriciolate, quando il combattimento è talmente ravvicinato che – come dicono i veterani – puoi vedere il bianco degli occhi del tuo nemico, il rozzo ma robusto Ppsh 41 (con l’inconfondibile caricatore a tamburo da 71 colpi) fu nettamente superiore alle pistole migliatrici tedesche in alluminio stampato. Inoltre il calibro dei cannoni d’assalto usati da tedeschi – prevalentemente il 75mm (a canna corta e lunga) – inadeguato negli scontri urbani. A questi problemi si trovò soluzione con l’introduzione – a partire dal tardo ‘43 e nel ‘44 – di diversi modelli di fucili d’assalto e di cannoni d’assalto come il Brummbar (150mm) o il mostruoso SturmTiger che – su scafo del Panzer VI – montava un obice da 380mm. A farne le spese fu Varsavia che, nell’insurrezione dell’agosto del 1944, venne letteralmente rasa al suolo.

La logica (come avevano appreso anche gli americani a Cassino dopo lo scellerato e inutile bombardamento dell’Abbazia) è evitare che le rovine possano diventare il miglior alleato del difensore e che quindi le città – per essere conquistate – o vanno affamate o polverizzate, letteralmente. Tra l’altro, in Polonia, apparve il primo robot da demolizione filoguidato ‘il Goliath’. Tornando alla polverizzazione: ricordiamo che i russi hanno sviluppato – proprio per i combattimenti urbani – un’arma devastante: il lanciarazzi “Buratino” (“Pinocchio”) – il Tor1-A – in grado di lanciare, in rapida successione, una salva di razzi con testata termobarica in grado di fondere tutto quello che si trova nel suo raggio d’azione. Quest’arma criminale è stata usata in Cecenia e Siria ed è stata fotografata anche in Ucraina.
Passiamo ora all’ultimo parallelismo storico che rischia di essere fuorviante. La Guerra in Ucraina è certamente molto simile alla ‘Guerra d’Inverno’ combattuta – da Russi e Finlandesi – tra il 30 novembre ‘39 e il 12 marzo ‘40. Ma proprio questo (efficace) paragone rischia di più creare – nelle nostre opinioni pubbliche – più di un problema di comprensione. L’Aviazione e l’Esercito finlandese inflissero – sul proprio terreno e in condizioni climatiche proibitive – delle terrificanti perdite all’Armata Rossa (in piena transizione d’arma e dottrinaria). Non a caso i Finlandesi sono considerati i migliori soldati della Seconda Guerra Mondiale. Ma alla fine, nonostante le pesanti perdite inflitte ai Sovietici (400 mila tra morti e feriti), dopo 14 settimane, Helsinki (pur sostenuta da tutto il mondo: dalla Gran Bretagna al III Reich) si arrese, cedendo 64750 km² di territorio e il 12% della popolazione. Proprio le sconfitte tattiche dell’Armata Rossa falsarono la percezione complessiva su di essa. E questo nonostante il fatto che – operazionalmente – data la cornice della lotta, i Finlandesi siano stati sconfitti nel momento stesso in cui venne sparato il primo colpo. Quindi possiamo affermare che la ‘Guerra d’Inverno’ (insieme all’errata valutazione sulla Guerra russo-polacca del 1919/21) ebbe un impatto determinante per Adolf Hitler e sulla sua valutazione sulla reale forza dell’Armata Rossa e quindi la sua decisione finale di invadere l’URSS.
Dopo la storia, proviamo ora a spiegare qualcosa di quello che sta accadendo sul Campo di Battaglia.
I russi – leggendo la disposizione delle unità e secondo una valutazione delle nostre agenzie di intelligence – hanno iniziato la Campagna con truppe di seconda scelta (in particolare a nord) – per la ‘finta’ su Kiev e nel Donbass, già in gran parte sotto il loro controllo – mentre a sud ne hanno mandate di migliori ma non certamente d’elite. Sacrificando i pedoni hanno lasciato che lo schieramento avversario si rivelasse (la vera incognita) mentre andava sotto stress. Ancora non sono arrivate le brigate aerotrasportate, i parà, gli spetsnaz. Assicurato il controllo dello spazio aereo, potranno affluire velocemente (parliamo di ore) lì dove dovranno far sentire tutto il loro peso specifico. Non sono entrati in azione neanche i famigerati reparti del Gru e del Ministero dell’Interno che giocarono un ruolo nella II Guerra di Cecenia. Saranno utili nella successiva fase di ‘pacificazione’ e forse Putin – in un momento così delicato sul fronte interno – preferisce avere i “suoi” pretoriani a portata di mano.

Altro aspetto da tener presente: ora che il caos dei rifugiati sta intasando le linee logistiche e di rifornimento ucraine (rendendole tra l’altro visibili), inizia la fase di congelamento con assedi ai centri maggiori (Odessa e Mariupol). Nel frattempo, gli attacchi a Occidente, nei pressi di Leopoli, oltre a essere un chiaro avvertimento per la NATO, definiscono una nuova fase delle operazioni: inizia il martellamento dei centri di comando decentrati attivi e dei nodi di rifornimento. Entrano in campo le formazioni di élite della componente balistica (specialità russa) per operazioni concentrate su singoli obiettivi di pregio e foreign fighters occidentali. Le truppe di seconda scelta vengono ruotate con truppe di prima, rimaste in riserva tattica, come da manuale.
Sempre i manuali ci ricordano che ogni Esercito ha 4 livelli su cui misure la qualità delle sue truppe: 1) Milizia (civili armati con scarsa o nessun specifico addestramento, tipo Volksturm, la cui affidabilità fondamentale dipende dalla motivazione), 2) ‘Green’ (primo ciclo di addestramento) 3) Levy (hanno partecipato a esercitazioni di una qualche entità o a un dispiegamento operativo, hanno sentito almeno il rumore di vere esplosioni); 3) Veterani (sono state sulla linea di combattimento); 4) Élite.
Non ci può essere progressione qualitativa se non tramite la violenta selezione della fornace della battaglia. Dopo circa venti giorni i russi hanno spinto dentro circa 100 mila uomini (le Forze armate russe ne contano più di un milione); le perdite stimate – di uomini e mezzi – sono circa del 3 percento (certo colpiscono il numero degli ufficiali caduti e alcune debacle dell’aviazione e dell’intelligence a livello tattico) con un rateo di 3a1 rispetto a quelle ucraine che proporzionalmente incidono molto di più. I maggiori successi degli ucraini sono stati compiuti attraverso attacchi (di fatto) suicidi dai bordi delle strade con controcarro spalleggiabili: ma proprio il lancio rivela la posizione di fuoco che viene soppressa dagli altri mezzi della colonna. Molto efficaci anche i droni TB-2 di fabbricazione turca che potendo operare da piste non preparate, dall’alto riescono a colpire i corazzati nella loro parte più vulnerabile. La domanda è: quanti mezzi e munizioni di questo tipo hanno ancora gli ucraini? E gli eventuali approvvigionamenti promessi riescono con costanza a raggiungere la linea dei combattimenti?
Mentre dalla nebbia di guerra sta emergendo, seppur in modo confuso, lo schema d’azione russo: la progressione inesorabile di un boa costrictor; non è ancora chiaro la valenza del messaggio che vogliamo dare ai nostri pubblici. Visto che non abbiamo dato la disponibilità a un ingaggio (e che le sanzioni non sembra daranno il loro effetto prima della fine dei combattimenti; tra l’altro, nonostante il crollo del rublo, a Mosca il pane e i carburanti – a differenza dell’Occidente – non hanno subito rincari) cosa dovrebbe portare al famoso collasso della Forza combattente russa costantemente evocato da Zelensky? Abbiamo dato la stima reale delle perdite che – seppur disastrose – per i nostri standard, sono perfettamente assorbibili da Mosca. Lo scorso marzo, scrivevo su Twitter: “E se Putin non avesse oscurato Zelenskiy volutamente? Se l’”Operazione speciale” si rivelasse un successo per i russi non sarebbe ancora più drammatico lo iato tra la resistenza Ucraina sul campo e l’impotenza occidentale?
Probabilmente i russi lasceranno ancora Zelensky “libero” portare avanti il suo storytelling in modo da usarlo come fattore demoralizzante e scollarlo dal consenso popolare: non c’è peggio di sentire un leader affermare che stai vincendo di fronte alla realtà della miseria della guerra. In pratica, ne fanno un prigioniero del suo stesso copione rovesciando la sua stessa narrativa. Questa sarebbe una manovra interessante stile battaglia di Canne per l’Information Warfare. Da qui l’alert arrivato dagli specialisti di questa modalità operativa – gli israeliani – che hanno consigliato a Zelensky un passo indietro. Intanto procedono la pulizia etnica e la russificazione: le zone messe sotto controllo (Donbass e corridoio Transnistria) saranno svuotate dagli ucraini e sostituite da abitanti di origine russa per rendere impossibile la loro restituzione. Sono qui pronto a prendermi accuse – false e pretestuose – di disfattismo; ma solo con le analisi controcorrente si può sperare di apportare un qualche valore aggiunto al dibattito e prepararsi a quella che per noi sarà – parafrasando Mao – una “Guerra di lunga durata” che esigerà tutte le nostri doti di tenacia e resistenza. Certamente non alimentate dal sensazionalismo e dalla sottovalutazione del nemico.
Dopo aver messo le briglie alla speculazione finanziaria che – come lo scorpione della favola di Esopo non riesce a fare meno di inseguire un guadagno di cortissimo termine anche al rischio di compromettere il quadro complessivo (ne ha parlato anche il presidente Mattarella), la vittoria arriverà – in senso paradossale e controdeduttivo – non con una esasperazione della verticale del potere nelle nostre società ma attraverso processi partecipativi e una profonda riforma in senso democratico delle nostre istituzioni; perché come ci ha spiegato Victor David Hanson solo questa consapevolezza diffusa può dare alle società aperte lo slancio necessario per affrontare le autocrazie e perché, “Gli Stati sono come le persone non mettono in discussione lo status quo, fino a quando qualche drammatico evento non travolge il precedente modo di pensare, pigro e convenzionale”.
Salvatore Santangelo,
Università di Roma Tor Vergata e Centro Studi Geopolitica.info