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L’Unione Africana necessita di un panafricanismo più radicale per superare le sfide del continente?

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L’Unione Africana (UA) versa oggi in uno stato di profonda fragilità che, nonostante l’entusiasmo iniziale, ha da sempre accompagnato la storia di questa organizzazione. I tentativi di mediazione nella crisi etiope sono solo l’ultimo esempio di una crisi con cui l’Unione Africana ha faticato a relazionarsi. La mancanza degli strumenti idonei a superare le complesse problematiche del continente sottolinea la necessità di un ripensamento audace dell’organizzazione.

Il caso Etiopia.

L’Etiopia, attore simbolico per il regionalismo africano e fondamentale per i fragili equilibri interni all’UA, si ritrova immersa in uno stato di profonda tensione da quando, nel novembre 2020, sono riprese le ostilità nella regione del Tigrai

Recentemente, l’UA ha inviato come mediatore l’ex-presidente nigeriano Olusegun Obasanjo il quale si è detto fiducioso per quanto riguarda la possibilità di trovare un compromesso per un cessate il fuoco e per una pace duratura, senza però specificare come tale compromesso possa essere trovato. Inoltre, Obasanjo ha sottolineato come “la finestra di opportunità è molto piccola e il tempo è breve”. Ad affiancare gli sforzi dell’UA, vi è il coinvolgimento di altri capi di Stato, come il presidente kenyota Uhuru Kenyatta, giunto pochi giorni fa a Addis Abeba. Kenyatta ha intavolato trattative private con il premier etiope Abiy Ahmed Ali nel tentativo di ottenere qualche ulteriore passo in avanti, facendo emergere come la sfera intergovernativa risulti ancora particolarmente significativa in aggiunta o, a volte, in sostituzione degli sforzi delle istituzioni panafricane. Il governo etiope ha recentemente posto delle condizioni per il cessate il fuoco, lasciando socchiusa quella “finestra di opportunità” a cui faceva riferimento Obasanjo. Tuttavia, i negoziati veri e propri tra le parti in conflitto non sono ancora iniziati e gli sforzi diplomatici dell’UA sono stati oggetto di critiche a causa di un atteggiamento ambiguo dell’organizzazione nei confronti del governo etiope, registrando anche tensioni con quest’ultimo da quando l’attenzione internazionale si è focalizzata sulla tragedia umanitaria nel Tigrai. Questa debole posizione dell’UA viene associata anche alla posizione simbolicamente importante che riveste Addis Abeba nelle istituzioni panafricane sin dalla nascita dell’Organizzazione per l’unità africana, avvenuta proprio nella capitale etiope nel 1963.

La fragilità dell’UA.

Sebbene l’Unione Africana abbia conseguito degli indiscutibili successi nell’arco della sua ancora breve esistenza, è impossibile non sottolinearne le fragilità dovute in primis alla mancanza degli strumenti idonei per contrastare la maggior parte delle complesse crisi del continente (si veda come l’UA abbia cercato di ammonire i militari dopo il golpe in Sudan, senza però ottenere cambi di rotta). Quando nel 2002 si dette vita all’UA, l’innovazione principale era incentrata su una svolta “sovranazionale” che doveva rompere con il passato puramente intergovernativo dell’Organizzazione per l’unità africana. In realtà, però, il passaggio dall’intergovernativismo al sovranazionalismo non si è realizzato pienamente.

Il pensiero panafricanista di Kwame Nkrumah.

Nel 1963, Kwame Nkrumah, primo presidente del Ghana indipendente, nonché strenuo difensore dell’ideologia panafricanista più radicale, si fece promotore della necessità di costituire gli United States of Africa. Secondo Nkrumah, la pesante eredità coloniale, che tutt’oggi incatena la maggior parte dei paesi africani, poteva essere superata solo raggiungendo l’unità politica, precondizione per quella economica. Dal superamento dei confini artificiali tracciati dagli europei sino a una decolonizzazione delle menti (come l’ha descritta lo scrittore kenyota Ngugi Wa Thiong’o) sono solo alcuni degli obiettivi che, secondo Nkrumah, un’unione politica avrebbe potuto raggiungere. Gli Stati Uniti d’Africa avrebbero incarnato un organismo sovranazionale, a cui sarebbero state devolute le competenze in materia di affari economici e commerciali e di politica estera e di difesa. L’Africa unita si sarebbe potuta così rapportare su un piano di parità con le ex potenze coloniali, in modo da scongiurare ogni possibile forma di neocolonialismo, lavorando per il bene comune del continente e delle sue popolazioni. Purtroppo, le tesi del leader ghanese vennero presto accantonate dalla maggior parte dei suoi colleghi quando, nel 1963, la difesa di una tanto sognata e ancora troppo recente sovranità territoriale portò alla costituzione dell’Organizzazione dell’unità africana (OUA), la quale istituzionalizzava una cooperazione intergovernativa tra i Capi di Stato e di governo. 

Il panafricanismo post-guerra fredda e la nascita dell’UA.

I limiti dell’OUA spinsero l’Africa del post-guerra fredda a pensare a un suo superamento. Grazie alla spinta diplomatica dell’allora leader libico Mu’ammar Gheddafi e alla convergenza degli interessi tra due potenze continentali, ovvero la Nigeria di Obasanjo e il Sud Africa di Thabo Mbeki, si arrivò alla nascita, nel 2002, dell’Unione Africana. Il rinnovamento dell’OUA fu accolto dalla politica africana e dai media internazionali con molte speranze. Sebbene l’idea di fondo, animata dalla prospettiva di un Rinascimento africano, fosse quella di garantire alla nuova organizzazione un’identità più sovranazionale, la mancanza di leadership tra i suoi membri, nonché l’estrema eterogeneità degli stessi, in aggiunta a una forte resistenza di molti paesi nel concedere prerogative in funzione di un più marcato accento sovranazionale, portò l’organizzazione alla fase ibrida in cui versa anche oggi. È per far fronte alle nuove ed estremamente complesse sfide che si ergono dinnanzi al continente che l’UA, traendo spunto dalle idee panafricaniste più radicali, necessiterebbe di un deciso passo avanti nel campo dell’integrazione politica ed economica, così da potersi presentare maggiormente unita ed efficiente dinnanzi alle crisi che la incatenano e che, altrimenti, lasceranno dietro di loro un continente diviso, dipendente dall’esterno e ridotto allo stremo dalla pesante eredità coloniale.

L’eredità e la contemporaneità del pensiero di Kwame Nkrumah.

Nonostante resti da superare l’ostacolo degli egoismi nazionali, il contributo di Nkrumah all’Africa contemporanea giace proprio nel superamento dell’immaginario politico fondato sullo Stato-nazione di derivazione europea, suggerendo l’elaborazione di una soluzione sicuramente audace, ma originale e lungimirante. Se è vero che la costituzione degli Stati Uniti d’Africa risulta attualmente utopistica, nonostante l’UA abbia inserito nell’Agenda 2063 la prospettiva di raggiungere risultati ambiziosi in tal senso, come l’attuazione di un’area di libero scambio o di una cittadinanza comune, tuttavia il regionalismo sovranazionale sembra essere il sistema più idoneo per affrontare le complesse crisi del continente, poiché consente agli Stati di superare i confini politici, economici, etnici e religiosi. L’elaborazione di un progetto di integrazione che tragga spunto dalle tesi di Nkrumah e che vada a trascendere e superare gli esempi più importanti in tal senso, come l’Unione Europea, spingendosi oltre soprattutto dal punto di vista dell’integrazione politica, del superamento dei confini nazionali e della sicurezza, potrebbe portare all’elaborazione di un’originale soluzione africana alle problematiche africane. Resta dunque da vedere se i leader africani riusciranno a implementare un panafricanismo più radicale, necessario per alimentare un tale progetto riformista, tenendo conto degli assunti di Nkrumah e della sua lungimiranza nell’individuare le criticità dell’imposizione in Africa di paradigmi di derivazione europea, optando per un processo verso una maggiore integrazione mirata a rispondere alle esigenze di un continente dilaniato da conflitti politici, etnici e religiosi. La re-interpretazione dell’UA sulla base di un tale riformismo secondo una prospettiva radicalmente panafricanista potrebbe contribuire a illuminare il cammino verso il superamento dei limiti dell’organizzazione stessa e della pesante eredità coloniale.

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