Nelle ambizioni di ogni agenzia spaziale il riconoscimento del rango di peso massimo passa da sempre per la realizzazione di una missione marziana, cartina al tornasole della validità del proprio know how e della maturità delle proprie competenze tecniche. Un’impresa riservata a pochi attori a livello globale date le evidenti criticità insite nell’inviare sonde verso un pianeta (e nei propositi più audaci atterrarci sopra con lander e rover) distante circa 57 milioni e 600 mila km al suo perigeo.
Ad oggi solo le agenzie di Unione Sovietica/Russia, Stati Uniti, Unione Europea, Giappone e India sono riuscite nella messa in opera di missioni marziane e di queste solo NASA e ISRO possono vantare missioni di completo successo, ESA e Programma Spaziale Sovietico si limitano a missioni di successo parziale mentre i propositi di JAXA e ROSCOSMOS si sono risolti in completi fallimenti. A queste si potrebbe aggiungere la CNSA cinese con la sua sonda Yinghuo-1 lanciata nel novembre 2011 che tuttavia non ha mai lasciato l’orbita terrestre e dopo aver trascorso due mesi in orbita di parcheggio si è disintegrata al rientro non voluto in atmosfera sopra l’oceano Pacifico; cocente fallimento dal quale l’Impero del Centro ha intenzione di riscattarsi con il lancio nelle prossime ore della nuova missione Tianwen-1. Delle circa 40 missioni inviate complessivamente da tutte le agenzie solo la metà è stata un successo completo o parziale.
Non sorprende allora che quando nel 2014 l’emiro di Dubai Mohammed bin Rashid al-Maktum, vicepresidente e primo ministro degli Emirati Arabi Uniti, annunciò che la piccola monarchia a cavallo dei due Golfi avrebbe inviato una missione orbitale alla volta di Marte la notizia fu accolta con un bonario scetticismo tra gli addetti ai lavori nel mondo. Dopotutto l’UAE Space Agency era stata creata soltanto quello stesso anno e il paese era privo di esperienza in ambito spaziale eccezion fatta per la partecipazione alla costruzione dei satelliti per telerilevamento DubaiSAT 1 e DubaiSAT 2 (per i quali gli EAU hanno contribuito materialmente rispettivamente per il 30% e il 50%). Cionondimeno la promessa fatta sei anni fa è stata mantenuta il 19 luglio alle ore 23:58 ora italiana con il lancio dal centro spaziale dell’isola giapponese di Tanegashima, con la sonda orbitale Hope gli Emirati Arabi Uniti si fregiano di essere la prima nazione araba a compiere una missione interplanetaria dopo essere già stata la prima ad inviare un astronauta arabo sulla ISS nel 2019. L’obiettivo della sonda Al-Amal, l’equivalente arabo del nome, sarà quello di raccogliere dati sull’atmosfera marziana e poterne così creare un modello olistico che nelle speranze dei ricercatori, sia emiratini che internazionali, sarà in grado di fornire utili elementi sia alla comprensione dell’evoluzione del pianeta rosso sia alla riuscita delle future missioni con equipaggio umano.
Quando l’India ha lanciato nel 2013 la propria sonda marziana ha dimostrato come anche un paese non appartenente all’Olimpo delle potenze spaziali potesse riuscire nell’impresa di inviare una missione verso Marte utilizzando solo le proprie risorse nazionali nella progettazione, nella costruzione e nella gestione del volo, anche a costi molto contenuti, purché si mettano in campo le giuste competenze tecniche e scientifiche (ad oggi quella della ISRO detiene il titolo di missione meno costosa verso il pianeta rosso con i suoi 73 milioni di dollari). Con questo progetto interamente proprio la leadership del gigante buono perseguiva il duplice scopo di mostrare i muscoli all’ingombrante vicino cinese e di ammiccare al montante sentimento nazionalista indiano in funzione elettorale; obiettivo quest’ultimo mancato dal governo di centrosinistra a maggioranza INC, sotto il quale il progetto ha preso vita, dal momento che è stato sconfitto nel maggio del 2014 dalla coalizione guidata dal Partito Popolare Indiano di Nerandra Modi che non ha tardato ad utilizzare per la propria retorica nazionalista il successo dell’ingresso in orbita marziana della sonda avvenuto nel maggio dello stesso anno.
Gli Emirati Arabi Uniti, in virtù delle proprie considerevoli risorse finanziare, avrebbero certamente potuto intraprendere la stessa strada del gigante asiatico e realizzare l’ambizioso sogno marziano con le sole forze nazionali così da massimizzare lo scopo celebrativo della missione, aspetto assolutamente non secondario ma anzi determinante nella scelta della meta marziana la cui biennale finestra di lancio consentirà ad HOPE di inserirsi nell’orbita del pianeta rosso proprio nell’anno in cui si festeggia il cinquantennio dell’indipendenza dal Regno Unito. Ma le ambizioni emiratine si protendono verso un orizzonte di più ampio respiro e di radicale trasformazione, ben al di là del peso geopolitico che può derivare dal vetusto status di petromonarchia. Gli EAU hanno dimostrato un crescente attivismo regionale riconfermandosi un alleato prezioso in funzione anti-iraniana per gli Stati Uniti, la cui amicizia interessata riveste un ruolo strategico chiave nella metamorfosi della federazione.
Il cambio di passo della politica emiratina si manifesta nel 2010 con l’annuncio da parte del primo ministro Mohammed bin Rashid al-Maktum del Documento Nazionale per gli Emirati Arabi nel 2021 o, per utilizzare una dicitura che meglio rappresenta lo spirito che lo ha generato, UAE Vision 2021. La visione in questione è tanto semplice quanto grandiosa ed è espressa in modo cristallino dal titolo del Documento stesso: “We want to be among the best countries in the world”. Se consideriamo veritiero il vecchio adagio per cui la conoscenza è potere ecco che si dispiega ai nostri occhi la strada che conduce alla cerchia dei grandi del mondo e gli sforzi emiratini per la conquista dello spazio si rivelano strumento di potenza e prestigio. La visione, in definitiva, è la transizione ad una knowledge economy che meglio si adatta alla maggiore taglia geopolitica che gli EAU perseguono con un costante attivismo politico e militare nell’area. Il bilancio federale del 2020 è specchio fedele dei piani della monarchia; i fondi previsti per i programmi d’istruzione pubblica ammontano a 6,7 miliardi di AED, pari al 9,5% del budget totale, mentre l’istruzione superiore e universitaria peseranno con 3,7 miliardi di AED ovvero il 5,3%, un totale del 14,8% del bilancio.
L’investimento degli Emirati nello spazio ammonta a 22 miliardi di AED ed oltre 1.500 dipendenti, con un’età media di trent’anni, lavorano per 50 diverse aziende nel settore spaziale nazionale, il 35% di questi sono donne. Sebbene ad oggi solo il 30% degli addetti all’industria spaziale nazionale sono emiratini la volontà di accrescere il bacino dal quale attingere figure professionali autoctone altamente qualificate ha spinto il Gabinetto degli Emirati Arabi Uniti ad approvare l’istituzione di un Fondo di Sostegno all’Istruzione; la collaborazione con le università americane (University of Colorado Boulder, l’Arizona State University e la Università di Berkley, in California) per la realizzazione della missione verso Marte rivela quindi l’intenzione, per altro affatto nascosta, di acquisire dal colosso spaziale statunitense tutto il bagaglio di conoscenze e competenze necessarie al futuro sviluppo indipendente di un più ambizioso programma spaziale nazionale. Le sfide che la piccola nazione araba dovrà superare prima di completare la sua trasformazione in una competitiva knowledge economy sono molte e non è ancora chiaro se il crollo del prezzo del petrolio post covid ridimensionerà le ambizioni emiratine o ne accelererà la metamorfosi. “Noi dovremmo sempre essere pratici, realistici e ottimisti” ha dichiarato Mohammed bin Rashid al-Maktum sintetizzando l’approccio emiratino nel perseguire la meta. E Quando c’è una meta, anche il deserto diventa strada.