L’estero vicino turco è in ebollizione. La guerra in Ucraina a Nord, le pressioni di Baku su Erevan a est, l’irrisolta questione marittima con la Grecia ad ovest, l’instabilità libica legata alla Zona Economia Esclusiva a sudovest e l’angosciante questione siriana al confine meridionale: la traiettoria che tali dinamiche prenderanno, potrebbe incidere notevolmente sulle prossime elezioni parlamentari e presidenziali turche del 18 giugno. Tuttavia, ad interessare l’analisi è la contingenza geopolitica turca, attanagliata in un contesto destabilizzato, in cui negli ultimi anni Ankara non ha esitato ad impiegare la forza.
Il dossier siriano sta interessando particolarmente gli apparati turchi. Stabilizzata parzialmente l’arena libica, Ankara necessita di guadagnare margini di manovra in Siria, alla luce degli sviluppi avversi in cui sono incappati i competitor: Russia e Iran. Dal punto di vista elettorale, il dossier siriano si traduce in un elemento scottante per la campagna elettorale, attraverso la quale la compagine governativa vorrebbe guadagnare consensi stabilizzando il fronte sud. Ma mentre i media si interessano dei meri riscontri elettorali, interpretando i fatti con letture leaderistiche, annotando un Erdogan pronto a maneggiare il dossier siriano per meri fini elettorali, la geopolitica si interessa delle dinamiche spaziali e fattuali; dunque sarebbero quest’ultime a incidere sulle future scelte di Ankara.
Vale la pena ricordare brevemente la fragile struttura dello Stato siriano. Dalla crisi delle Primavere Arabe del 2011 la Siria è stata caratterizzata da una profonda instabilità, nella quale attori regionali e globali hanno tentato di interferire nelle dinamiche interne per volgerle a loro favore, ma come spesso accade, difficilmente la competizione geopolitica si traduce in un gioco a somma zero. Nell’attuale stasi siriana gli attori coinvolti sono rimasti pertanto attanagliati in un conflitto ormai decennale e difficilmente dipanabile. A tenere in piedi il governo di Bashar al-Assad vi sono Iran e Russia. Mosca è interessata al regime siriano per recuperare la ramificazione di potere che si era costruita in epoca sovietica, per volgere di nuovo lo sguardo sul Mediterraneo Orientale insediandosi nella base di Tartus. Non solo, Mosca è intervenuta per restringere la portata del fondamentalismo islamico, vista la sua componente demografica musulmana, e per notificare agli statunitensi che era terminato il periodo delle azioni unilaterali volti al regime change. Con l’ascesa della Federazione Russa nello scacchiere euro-mediterraneo, dunque, Washington avrebbe dovuto gestire gli affari internazionali in una prospettiva multipolare.
Dall’altra parte il regime iraniano era interessato a colmare il vuoto creatosi una volta che lo Stato Islamico avesse cessato di controllare i territori tra la Siria e l’Iraq. La presenza in Siria ha garantito a Tehran una sostanziale profondità strategica da giocare nella partita contro Israele. La ramificazione iraniana, che abbraccia la comunità sciita della “mezzaluna fertile” permette inoltre alla Repubblica Islamica un certo equilibrio di potere con gli altri attori regionali. Dunque, mantenere in piedi il regime siriano, facendo leva sulla minoranza alawita al potere, permetterebbe all’Iran di influenzare la traiettoria regionale nonostante l’isolamento economico – e gli effetti avversi che ne derivano – imposto dall’occidente.
Ankara si è inserita in questo coacervo di interessi dal 2016, con ben quattro distinte operazioni militari: Euphrates Shield Operation, Olive Branch Operation, Peace Spring Operation, Spring Shield Operation. A queste si aggiunge l’operazione aerea portata avanti dopo l’attentato ad Istanbul del 23 Novembre 2022, causato, secondo il governo turco, dal PKK. Dal 2016 Ankara è interessata alla messa in sicurezza dei propri confini meridionali minacciati dallo Stato Islamico e dall’ascesa della YPG, braccio destro del PKK in Siria, considerata dalla Repubblica di Turchia un’organizzazione terroristica. Gli interventi erano volti ad evitare che il vuoto lasciato dallo Stato Islamico fosse colmato dalle forze dell’YPG; il controllo della Siria settentrionale avrebbe inoltre messo al riparo i ribelli del regime di Assad, sostenuti dai turchi sin dalle fasi iniziali delle Primavere Arabe.
Ad oggi l’avversa postura russa nel conflitto ucraino e la complessa congiuntura dell’Iran – costretto a volgere lo sguardo negli affari domestici per via delle rivolte causate dall’uccisione di Mahsa Amini – avrebbe aperto ad Ankara ampi margini di manovra in Siria. Se in un primo momento sembrava schiudersi la possibilità di un intervento militare terrestre, oltre all’intervento aereo di novembre, ora Ankara sembra meno disposta a perseguire tale opzione; probabilmente a causa delle problematiche economiche che registrano un’inflazione al 64%, sebbene in discesa rispetto ai parametri precedenti, e per i plurimi teatri bellici in cui i turchi sono coinvolti, impossibile gestirli assieme in modo efficiente. Non gli resta, pertanto, che tentare di intavolare un negoziato con Assad facendo leva sull’attuale fragilità del regime, viste le condizioni in cui versano Tehran e Mosca. Con il negoziato Erdogan proverà infine a rimediare il dossier dei migranti siriani ospitati sul territorio turco, che iniziano a gravare sulle strutture statali.Il 28 Dicembre a Mosca ha avuto luogo l’incontro tra il Ministro della Difesa turco e l’omologo siriano, in cui si è parlato della questione dei rifugiati siriani e delle “organizzazioni terroristiche” curde presenti nel nord della Siria: una minaccia per l’integrità territoriale dello stato, dunque un elemento su cui Damasco ed Ankara convergono. L’incontro farebbe da apripista ad un trilaterale tra Erdogan, Putin e Assad, volto alla riabilitazione di quest’ultimo, ma che pone sul tavolo non poche problematiche. In primo luogo la modalità di cooperazione tra i tre attori, considerando le divergenze passate tra Ankara e Damasco; in secondo luogo la presenza militare di Washington, non coinvolta nel negoziato e non intenzionata, come ha sostenuto il portavoce del Dipartimento di Stato Ned Price, a riabilitare il Presidente Assad. Infine, la Turchia ha dovuto far fronte alle proteste dei ribelli del regime siriano che temono di perdere la protezione fornitagli; a questi Ankara ha rassicurato che l’incontro non cagionerà loro dei danni. A tal proposito, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha approvato il 9 Gennaio all’unanimità la consegna di aiuti umanitari, che accederanno dal confine turco, a circa quattro milioni di persone nella Siria nordoccidentale. Per raggiungere l’unanimità è stato necessario il consenso della Russia che, sostenendo Assad, ha più volte dichiarato che tale risoluzione violerebbe l’integrità territoriale della Siria, fornendo sostegno ai ribelli asserragliati a nordovest. Data l’iniziale ritrosia, Ankara potrebbe aver giocato un ruolo nell’influenzare il cambio di rotta di Mosca. Tale dinamica chiarirebbe i rapporti di forza tra i soggetti in questione e l’intenzione turca di non voler rinunciare all’asset che possiede nella Siria nordoccidentale, strumento di pressione nei confronti di Assad. La Turchia sembra intenzionata a sfruttare a proprio favore il momento cairologico, prendendo il sopravvento sui competitor regionali in difficoltà. Infine, ad interessare particolarmente è l’esclusione dell’Iran dal trilaterale, questione cruciale per Ankara che contende con Tehran una qualche forma di egemonia regionale e i vuoti di potere generatesi dal 2011. Dunque, piuttosto che le elezioni, sembra essere la contingenza geopolitica a muovere la Repubblica di Turchia.