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Turchia, il risveglio del mito imperiale e della profondità strategica

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Con il crollo del mondo bipolare la Turchia ha assunto un nuovo volto: da Paese di frontiera, posto in condizioni di perifericità nel sistema delle potenze occidentali, a paese che si erge come modello nello scacchiere mediorientale, rilanciando il suo ruolo strategico e identitario inserendosi nel contesto del tradizionale allineamento euro-atlantico. A muovere il pendolo della securizzazione/de-securizzazione è il ‘’dilemma della doppia combinazione’’ con il fine di difendere l’integrità nazionale turca dalle minacce provenienti dal vicinato: il particolarismo etnico. La sindrome di accerchiamento che attanaglia la Turchia è il paradigma interpretativo per leggere la ‘’teoria delle 2 guerre e ½ ‘’ e la politica di assimilazione perpetrata nei confronti del popolo di etnia curda, fautore del progetto della nazione democratica e di un nuovo sistema politico fondato sull’autogoverno e sull’autodifesa, il confederalismo democratico.

Il neo-ottomanesimo, la dottrina della ‘’profondità strategica’’ e la spirale di insicurezza

L’ascesa del Partito della Giustizia e dello Sviluppo (AKP) nei primi anni Duemila ha posto le radici del ‘’modello turco’’, ossia uno stato ‘’democratico secolare con libero mercato’’, dunque filo-occidentale, capace di porsi come mediatore tra il mondo atlantico e quello orientale, proponendosi come paese guida nella transizione democratica nello spazio regionale e nei paesi turcofani. 

Promotore di questa rilettura identitaria della Turchia dei primi anni del XXI° secolo è Ahmet Davutoğlu, ministro degli esteri turco nel 2009, nonché primo ministro dal 2014 al 2016 e da sempre vicino al presidente Recep Tayyip Erdoğan, artefice della dottrina della ‘’profondità strategica’’ turca, incentrata sul complesso quadro del neo-ottomanesimo e sul passaggio della Turchia da ‘’nazione periferica’’ a ‘’nazione centrale’’ impegnata in una diplomazia proattiva e diversificata all’interno dello scacchiere regionale mediorientale. Proprio per la sua visione di una Turchia ‘’power broker’’ inserita all’interno delle relazioni strategiche internazionali, è stato definito da Foreign Policy come: “il cervello che sta dietro al risveglio globale della Turchia“.

Al recupero dell’eredità ottomano-islamica, il governo turco affianca i tre corollari essenziali della dottrina, sintetizzati nelle seguenti formule politiche dell’azzeramento dei problemi con i vicini, dell’interdipendenza economica a fondamento delle relazioni bilaterali e del principio di regional ownership, ossia l’attribuzione agli attori locali della responsabilità per la stabilizzazione e la sicurezza regionali. A fondamento della ‘’profondità strategica’’  vi sono i concetti di sicurezza e securizzazione, quest’ultima intesa come tendenza a interpretare la propria politica estera come strumento per difendere l’integrità nazionale dalle minacce che circondano il Paese e che alimentano la ‘’sindrome di accerchiamento’’, rinominata anche ‘’sindrome di Sèvres’’, dal trattato del 1920 che sancì lo smembramento dell’Impero ottomano e il riconoscimento della multietnicità nei territori che ancora ne facevano parte all’indomani della Prima Guerra Mondiale. A sua volta, il concetto di sicurezza assume due connotazioni essenziali di: sicurezza fisica che, secondo la scuola di pensiero realista, è legata principalmente alla sopravvivenza dello Stato all’interno di un sistema internazionale dove vige l’anarchia e quindi, in assenza di un’autorità superiore regolatrice, ciascun attore compie la scelta razionale volta alla massimizzazione del proprio potere consentendogli di garantire al meglio la propria sicurezza e dunque la propria esistenza; e di sicurezza ontologica, legata invece alla percezione che uno Stato ha di sé stesso e di come vorrebbe essere percepito dagli altri attori della comunità internazionale. Per la Turchia questa declinazione ha un significato sia spaziale che temporale relazionato alle condizioni di perifericità e di subalternità rispetto alle potenze euro-atlantiche da cui deriva la sua insicurezza ontologica.

 La “2 ½ War Strategy” turca e il progetto curdo della “democrazia senza Stato” 

Tuttavia, la politica di ‘’zero problemi con i vicini’’ e il ruolo di ‘’power broker’’ assunto dalla Turchia, se da un lato normalizzano i rapporti con i Paesi confinanti mitigandone le conflittualità mediante accordi bilaterali di libero scambio e iniziative diplomatiche, dall’altro non eliminano le minacce agli interessi nazionali  turchi provenienti dalla Grecia, dalla Siria e dal PKK, ossia il Partito dei Lavoratori del Kurdistan, promotore dell’idea di uno stato curdo indipendente e considerato tutt’ora un’organizzazione terroristica dalla Turchia, dagli Stati Uniti e dall’Unione Europea. In questa prospettiva strategica, si inserisce quella che il diplomatico Şükrü Elekdağ ha definito ‘’ 2 ½ War Strategy’’, ossia la teoria delle ‘’ 2 guerre e ½ ‘’, secondo la quale: ‘’[…] there are valid reasons for Turkey’s regarding other neighbours with scepticism and as a source of threat. Two countries among these neighbours, namely Greece and Syria, who have claims on Turkey’s vital interests, constitute an immediate threat for Turkey. […] Greece and Syria are the arch supporters of the PKK. There exists a tacit alliance between the two countries against Turkey. […] All these add up to the necessity of Turkey effecting its defence planning on ‘two-and-half campaigns’. ‘’

La ‘’War on Terror ‘’ turca nei confronti del PKK ha origine a partire dalla fondazione del partito nel 1978 ad opera del leader Abdullah  Öcalan ( sequestrato nel 1999 e tutt’ora detenuto nell’isola-carcere di Imrali),  il quale proponeva non tanto la nascita di uno Stato-nazione curdo, quanto un  sistema di auto-organizzazione democratica della società in Kurdistan di tipo confederale, che prende la denominazione di ‘’confederalismo democratico’’, ossia un modello di coordinamento per una nazione democratica, all’interno della quale minoranze etniche, religiose e culturali possono organizzarsi autonomamente, senza cercare nuovi confini politici da delimitare.

 Il nuovo approccio strategico, filosofico e politico del movimento di liberazione curdo mira a democratizzare le stesse istituzioni democratiche mediante l’intervento diretto dell’autorità sovrana, cioè del popolo, coinvolto direttamente nei processi decisionali della società. L’idea di ‘’democrazia dal basso’’  si fonda sul principio dell’autogoverno federale, articolato sulla base di consigli aperti, comunali, parlamenti locali e congressi allargati che operano attraverso una piattaforma in cui i processi decisionali sono lasciati alle comunità.  Il confederalismo democratico è considerato il paradigma di contrasto dei popoli oppressi e un’alternativa al modello capitalistico dello Stato-nazione, presentandosi come unico approccio in grado di tener conto delle diversità etniche e culturali che caratterizzano le società contemporanee.

Il Rojava, regione autonoma de facto nel nord-est della Siria, è il laboratorio sperimentale di questa avanguardia della ‘’democrazia senza Stato’’, fondata su tre pilastri teorici: il principio della democrazia radicale, dell’uguaglianza di genere e dell’ecologia sociale. L’esperienza di autogoverno da parte delle milizie curde dell’Unità di Protezione Popolare (YPG), è stata fin da subito osteggiata dalle milizie lealiste di Bashar Al-Assad e da parte delle forze militari turche di Recep Tayyip Erdoğan, il quale ha avviato una serie di operazioni militari offensive nei confronti della Federazione Democratica del Rojava, quali ‘’l’Operazione ramoscello d’ulivo’’(2018), che ha portato alla caduta del cantone di Afrin e l’operazione ‘’Sorgente di pace’’ (2019), volta a costruire una zona-cuscinetto larga 30 km tra Turchia e Siria. 

A sancire la presenza turca nel nord-est della Siria costringendo le forze di difesa curde (YPG) a ritirarsi dalla cosiddetta ‘’safe zona’’ turca, è stato l’accordo di Sochi (2019) stipulato tra il presidente turco Erdoğan e il presidente russo Putin, il quale ha approfittato del disimpegno statunitense nell’area per porsi come garante degli accordi con Damasco assumendo un ruolo decisivo nella regione.

La postura turca all’indomani della parabola bipolare può essere sintetizzata nell’espressione ‘’la Turchia, specchio dell’Europa in Medio Oriente’’, quale chiave interpretativa per comprendere la rilettura identitaria che ribalta la sindrome di subalternità e afferma la specificità turca all’interno delle relazioni con le istituzioni euro-atlantiche. Dal canto suo, la dottrina della ‘’profondità strategica’’ fa prevalere le dinamiche regionali su quelle sistemiche e determina un processo di de-securizzazione della politica estera, mantenendo tuttavia immutate sia la percezione dei rischi provenienti dal vicinato che le offensive portate avanti dal governo di Ankara nei confronti della popolazione curda. 

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