Il prossimo 14 maggio la Turchia chiamerà alle urne i propri cittadini per una delle elezioni più importanti dalla nascita della Repubblica. Lo scorso 30 gennaio, il così chiamato “tavolo dei sei” ha pubblicato un protocollo d’intesa sulle politiche comuni. A poco più di tre mesi dalla data delle elezioni, i sei partiti d’opposizione hanno quindi espresso una dichiarazione di intenti unendosi – nonostante le forti differenze – nel segno della discontinuità con il governo dell’AKP. Al programma è poi stato dato un volto i primi giorni di marzo: Kemal Kılıçdaroğlu, leader del partito popolare repubblicano, sarà il candidato presidente che sfiderà il ventennale potere di Erdogan.
Il protocollo è suddiviso per materia in nove capitoli con l’obiettivo di affrontare la “più grande crisi amministrativa e economica nella storia della Repubblica”. A grandi linee, il testo tratta di riforme costituzionali e istituzionali poste a difesa della divisione dei poteri e dello Stato di diritto, come ad esempio la fine del sistema presidenziale, l’indipendenza della magistratura, e la riforma della Pubblica Amministrazione. Introduce inoltre una riforma del sistema scolastico inclusiva e non discriminatoria, tratta di politiche sociali, innovazione tecnologica, e porta all’attenzione dell’elettorato due argomenti che, secondo il parere di molti analisti, possono davvero determinare il risultato delle elezioni più imprevedibili degli ultimi venti anni.
Il primo riguarda l’assoluta necessità di risanare l’economia statale e contrastare la crisi sociale che sta colpendo il paese. Infatti, la scelta del governo di ridurre i tassi di interesse, provocando un aumento dell’inflazione, è apparsa alla popolazione poco comprensibile e ha creato non pochi malumori all’interno dell’elettorato.
In secondo luogo, il testo contiene un paragrafo – contenuto nel capitolo “politiche settoriali” – dedicato alla “urbanizzazione e gestione dei disastri” nel quale si fa riferimento allo svilimento negli ultimi anni dell’AFAD (Presidenza per la gestione dei disastri e le emergenze), alla pratica dei condoni edilizi, nonché alla politica di urbanizzazione del governo attuale “basata sul perseguimento di vantaggi personali”. Il terremoto che ha colpito il sudest del paese la notte del 5 febbraio – circa una settimana dopo la pubblicazione del testo – è stato definito dallo stesso presidente come il più grande disastro registrato dal 1939, provocando la morte di 48mila persone. Gli effetti catastrofici dell’evento che rimarrà impresso nella storia del popolo turco sono stati però percepiti da gran parte della popolazione come il risultato di una cattiva amministrazione, così come indicato dal programma dell’opposizione: il Presidente è stato infatti accusato sia sul tema della prevenzione, sia sul soccorso “insufficiente e non tempestivo”. La sensibilità dell’argomento è stata subito percepita da Erdogan, il quale si è difeso affermando che “non è possibile essere pronti a una catastrofe del genere”, e due giorni dopo ha deciso di bloccare l’accesso a Twitter al paese per 12 ore al fine di “combattere la disinformazione”.
Infine, un intero capitolo è dedicato alla politica estera della Turchia, la cui multidimensionalità è stata rivendicata dalla grande alleanza di opposizione per le caratteristiche geografiche e storiche del paese. L’interesse sta nel comprendere la visione internazionale di una così eterogenea alleanza, e quanto questa si discosti dal modello proposto dall’AKP.
“Completare il processo di accesso all’Unione europea” è uno degli obiettivi presentati dal coordinatore del Partito della Felicità di Ahmet Davutoglu, appartenente al tavolo dei sei. Tale obiettivo, che nei primi anni di governo dell’AKP giocava un ruolo preponderante anche nell’agenda politica di Erdogan, richiede un importante impegno di rinnovazione e democratizzazione degli equilibri istituzionali, vituperati dal progetto di accentramento del Presidente in carica. I sei partiti di opposizione sembrano essersi mossi in tal senso, con il capitolo dedicato alla lotta alla corruzione, la riforma della giustizia e il ritorno al sistema parlamentare pre-2017 riducendo i poteri del Presidente e promuovendo il dibattito istituzionale. Le riforme necessarie non sono però di facile attuazione e spesso incontrano ostacoli di tipo politico.
Ad esempio, il rapporto tra politica ed esercito è citato solo incidentalmente dal documento programmatico nonostante la sua importanza negli equilibri democratici a partire dalla nascita della Repubblica. Infatti, l’unica menzione riservata all’argomento riguarda l’intenzione di riaprire le accademie e le scuole chiuse nella ventata repressiva governativa successiva al golpe del 2016. E’ comprensibile che, in materia, le posizioni dei partiti di coalizione siano divergenti se si pensa che storicamente l’esercito è stato parte essenziale della struttura kemalista del CHP, basata su privilegi militari e garanzie istituzionali volte a “controllare” l’andamento democratico e a “reprimere” i partiti conservatori-religiosi ora seduti allo stesso tavolo di Kemal Kılıçdaroğlu.
La sfida di un eventuale nuovo governo – soprattutto in virtù del processo di allineamento europeo – dovrebbe essere invece quella di normalizzare i rapporti tra civili e militari, presupposto essenziale per il risanamento delle istituzioni. In sintesi, Bruxelles non può aspettarsi un cambio di rotta repentino capace di conformare Ankara ai criteri di Copenaghen nel breve termine, sia per la portata di tale progetto, sia per le differenze dei partiti in coalizione. Dall’altro lato, la proposta politica dell’AKP non sembra abbandonarsi ad accettare le sempre maggiori divergenze con l’Unione, ma al contrario ribadisce l’obiettivo di adesione. Tale obiettivo non è però incondizionato, il testo specifica che nell’impegnarsi a portare a termine il processo di adesione, il governo eviterà che vengano trattati “problemi artificiali”, rivendicando in questo modo la narrativa antioccidentale che spesso ha guidato la politica internazionale del paese. Ad ogni modo, la distanza tra Erdogan e Bruxelles è sempre maggiore, e non ci sono margini che questa possa decidersi a tornare come i primi anni del 2000, quando l’entrata della Turchia del Partito della Giustizia e dello Sviluppo sembrava a un passo.
Il programma di opposizione non mette esplicitamente in discussione il posizionamento internazionale della Turchia, e non contiene previsioni particolari in merito ruolo del paese all’interno della NATO e sui rapporti con la Federazione russa. Non entrando nel dettaglio e non citando la guerra in Ucraina, il testo afferma la necessità di mantenere i rapporti con la Russia su di un “piano di uguaglianza”, facendo sfumare l’adesione alle sanzioni occidentali paventata da qualche giornale, e aggiunge di voler continuare a dare il proprio apporto alla NATO “sulla base dei propri interessi nazionali”.
L’AKP invece mostra una maggiore apertura politica e commerciale verso Mosca e Pechino (quest’ultima non citata dal protocollo di intesa). Ribadisce infatti la necessità di una cooperazione “non competitiva” con la Federazione russa nel Caucaso e nell’Asia Centrale, e quella di stringere ulteriormente i rapporti con la Cina. La necessità di emanciparsi dall’Occidente ha portato la Turchia, nel secondo decennio del governo dell’AKP, a intensificare i rapporti con un maggior numero di interlocutori. Si pensi che il commercio tra Cina e Turchia è passato dall’1.64 miliardi nel 2002 a 22 miliardi nel 2020. Oggi Cina e Russia rappresentano due dei maggiori partner economici di Ankara, la quale si è liberata della dipendenza in termini di sicurezza dall’America diminuendo fino al 56% le importazioni di armi dagli Stati Uniti. Dall’altro lato, il testo della coalizione guidata da Kılıçdaroğlu suggerisce la volontà di porre termine a questo approccio proponendo la riammissione della Turchia al progetto americano sui caccia F-35, dal quale era stata espulsa a causa delle relazioni in tema di sicurezza con la Russia, già al tempo aspramente criticate dallo stesso Kılıçdaroğlu. Un eventuale nuovo governo potrebbe quindi limitare questo processo portando il paese a ritrovare nell’Occidente un partner privilegiato con le riserve che storicamente e geograficamente gli si addicono.
Infine, la questione curda e la guerra in Siria non vengono direttamente richiamate da nessuno dei due testi. Mentre il testo dell’AKP non tocca l’argomento, l’opposizione si limita ad affermare che la lotta al terrorismo rimane una priorità, e che è di fondamentale importanza collaborare per raggiungere l’obiettivo principale della pace in Medio-Oriente “rimanendo imparziali”. Il protocollo fa inoltre sua l’importantissima – da un punto di vista elettorale – causa dell’immigrazione. Salta all’occhio la volontà di smettere di essere uno “stato cuscinetto” per l’Europa, potenziando i centri detentivi per l’accoglienza dei migranti e i propri confini con sistemi di sorveglianza più efficienti e, lì dove necessario, erigere muri e altri sistemi di sicurezza. Infine, vi è indicato il controllo e la lotta alla “ghettizzazione” degli immigrati, nonché il rimpatrio sicuro dei siriani che godono di regimi di protezione temporanea. Ultimamente, il candidato presidente ha rivendicato la sua posizione affermando che un paese che non sa proteggere i propri confini non è un paese sovrano, e che chiuderà tutti i confini illegali nell’arco della prima settimana dal suo insediamento. Guardando oltre la propaganda, ci sono molti dubbi sull’effettiva linea che un eventuale nuovo governo vorrà adottare sul tema e sulla discontinuità con quella adottata dall’AKP. Infatti, l’obiettivo di parlare alla pancia dell’elettorato lascia non poche perplessità in merito a una politica migratoria umana ed efficace al confine siriano e non solo.