La tempistica e le modalità dell’attentato a Taksim hanno permesso un immediato collegamento ai fatti d’Ucraina, che sono rilevanti nell’analisi delle relazioni fra la Turchia e i suoi alleati. Occorre chiedersi quale sarà l’output di un fatto di tale gravità nel contesto della formazione della nuova cortina di ferro che richiede a tutti i Paesi di prendere posizione.
Se già ieri era possibile stabilire una connessione, non certo causale ma di contesto, fra la bomba di Istanbul e la perdita del gasdotto sul Baltico e la posizione turca sulle esportazioni del grano ucraino – ovvero: sul desiderio di indipendenza e le capacità di azione in autonomia della Turchia nel Mar Nero e nelle relazioni con la Russia (Taksim: per Erdoğan, odore di terrorismo. E spunta una donna a pochi mesi dalle elezioni – Geopolitica.info), oggi possiamo inserire nell’equazione un nuovo attore: la Siria, nello specifico la provincia a maggioranza curda ed il villaggio di Ayn al-Arab. Il nome non è nuovo. Ayn al-Arab non è altro che Kobane, il luogo nel quale, a seguito di grandi e ripetuti sforzi statunitensi, nel 2015 erano convenute forze paramilitari dell’alleanza tra PKK e YPG al fine di combattere il c.d. Stato islamico. La cosa avvenne con enorme disagio del Governo turco, ma si fece. Kobane divenne – sempre agli occhi dei Turchi – una sorta di avamposto dell’irredentismo violento kurdo a meno di un chilometro dal confine. La Turchia ha sempre e ripetutamente visto l’azione degli Stati Uniti dietro questo consolidamento. La “relazione speciale” tra statunitensi e curdi era maturata nella parte irachena in quello che chiamiamo Syraq già con la caduta di Saddam Hussein e l’effettiva concretizzazione dell’autonomia di Erbil (prevista in realtà già dal 1970), così si cercava di estenderne l’azione.
L’appoggio statunitense ai Kurdi è per Ankara tanto grave quanto la questione di Fetullah Gülen in Pennsylvania. In un certo senso, si tratta di due facce della stessa medaglia.
Torniamo alla contemporaneità. Ieri Hürriyet scriveva come l’Ucraina fosse stato il primo Paese a porre le condoglianze alle Turchia. Bene, oggi il Ministro dell’Interno Soylu, persona di enorme peso e destinata a grandi destini nella visione della Turchia del post – 2023 ha dichiarato di “non accettare” (kabul etmiyoruz, si esprime al plurale – intendendo quindi quantomeno il Governo o il Paese, e specificando di non parlare a titolo personale) le condoglianze espresse dagli Stati Uniti. Difficile che queste affermazioni non comportino quantomeno la convocazione dell’Ambasciatore turco a Washington o una richiesta di chiarimenti da parte della Casa Bianca, e sarà su questi contenuti che potremo analizzare meglio lo stato dei fatti.
Ció che è chiaro per adesso è che:
- Washington vuole che ogni attore dell’area giochi a carte scoperte e si riallinei sotto un ombrello di pax americana. Questo era chiarissimo sin dal principio dell’era Biden (Has the rapprochement between the US and Iran already started? – Geopolitica.info). La Turchia infastidisce non solo nell’agire troppo in connessione con Mosca, ma anche – se non soprattutto – nel prendere iniziative sull’Ucraina che evitano la degenerazione del conflitto in eventi capaci di giustificare ogni risposta (si pensi alla bomba sporca della quale si accusano Kiev e Mosca),
- Alla Turchia è servito, con un’evidenza di prove schiaccianti, il colpevole: dopo poche ore, la donna accusata di aver depositato la bomba viene arrestata, proviene da Ayn al-Arab – Kobane, ammette di essere stata addestrata dai curdi. La sua intera rete viene scoperta in un nulla (per l’attentato alla discoteca Regina erano stati necessari giorni di indagini, il colpevole fu trovato rannicchiato in un sobborgo). Nessun tentativo immediato di fuga da una città che ha due confini a due ore di automobile, per quanto le Autorità di polizia asseriscono che, se non fossero state tanto veloci, la donna avrebbe cercato rifugio all’estero. Dove? In Grecia. Mancava solo che le trovassero la borsa piena di cartoline da Nicosia (Sud, ovviamente) o da Kastellorizo. Ma ad essere chiamata in causa non è la Grecia. Ed infatti, sia il Presidente Erdogan che il Ministro Soylu nemmeno hanno bisogno di attendere. Essi stessi, a caldo, asseriscono che è già tutto chiaro. Posizione di partito? No, viene condivisa anche dai maoisti.
- Il particolare periodo storico necessita del riallineamento di diversi attori: oltra la Turchia, l’Iran (che potrebbe essere oggetto di azioni a breve), l’Arabia Saudita (che asserisce che l’Iran intenda attaccare Erbil, cosa possibilissima) e – questo è importante – l’Armenia.
L’attentato di Istanbul è dunque tutto eccetto che locale, e le cellule dell’estremismo di matrice etnica vi compaiono probabilmente come meri esecutori. Si tratta, in definitiva, di un avvertimento e di una “ultima chiamata”, che – ricordiamo – avviene a pochi mesi dalle elezioni più importanti dalla nascita della Repubblica post 1980. E’ un momento di grande delicatezza, nella quale la Turchia avrebbe invece bisogno di successi nelle relazioni internazionali e di una pace armoniosa e celeste di stile quasi cinese. Si tratta di questioni identitarie e strategiche, e non di tattica. E, come sempre, occorre non dimenticare mai che nel Mar Nero, in Iraq e in Iran sono fortissimi gli interessi del Regno Unito.