Gli ultimi mesi in Tunisia sono stati caratterizzati da disordine, proteste e malcontento popolare. La tabella di marcia annunciata l’anno scorso dal presidente Kaïs Saïed – incentrata su due tappe fondamentali: referendum costituzionale ed elezioni legislative – si è man mano concretizzata. Il capo di Stato è riuscito dal 25 luglio 2021, in meno di due anni, a concentrare sempre più potere nelle proprie mani e, al contempo, a eliminare dalla vita politica i partiti politici e gli oppositori presenti nel paese. Tuttavia, alcune decisioni hanno esacerbato la popolazione e hanno portato i principali sindacati a scendere in piazza e a manifestare contro l’attuale stato delle cose. A ciò si aggiunge il dossier migratorio: sul fronte interno è partita la lotta contro gli irregolari subsahariani, politica che rientra nella cooperazione con i paesi della sponda Nord del Mediterraneo volta a fermare i flussi verso il Vecchio continente e che vede la Tunisia diventata ormai – grazie ai fondi italiani ed europei – parte della “Fortezza Europa” che si è venuta a creare con l’inizio dell’esternalizzazione delle frontiere e la lotta all’immigrazione clandestina.
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Manifestazioni per le strade contro il presidente
Domenica 5 marzo centinaia di sostenitori dell’opposizione – riuniti nel Fronte di salvezza nazionale, che vede al suo interno il partito Ennahda, il movimento Stop the Coup e altri partiti politici – hanno sfidato il divieto di protesta imposto dalla presidenza e sono scesi per le strade della capitale per chiedere il rilascio dei principali oppositori arrestati nelle ultime settimane. Il giorno prima, anche il più grande sindacato presente nell’ex colonia francese, l’Unione generale tunisina del lavoro (Ugtt), aveva organizzato una giornata di manifestazioni per protestare contro la deriva autoritaria in cui sta sprofondando il paese. Già nelle scorso settimane l’Ugtt aveva organizzato manifestazioni in diverse città: in una di queste aveva partecipato anche Esther Lynch, segretaria generale della Confederazione europea dei sindacati (CES), costretta a lasciare il paese perché considerata “persona non grata” dal capo di Stato, proprio a causa della sua adesione alla manifestazione di Sfax.
Le proteste di queste settimane sono arrivate dopo una serie di azioni in cui Saïed ha dato dimostrazione del sempre maggiore autoritarismo con cui vuole governare: sono stati arrestati decine di oppositori politici, fra cui politici di alto livello, giudici, giornalisti e funzionari di sindacati. L’ex professore di diritto costituzionale ha definito i detenuti come “terroristi” e li ha accusati di voler sovvertire l’ordine dello Stato e di cospirare per manipolare i prezzi del cibo e alimentare la tensione sociale. Le accuse, che mirano anche a scaricare le colpe del governo nella pesante crisi economica, non presentano alcuna prova ma in caso di condanna potrebbero portare a pene detentive molto dure, e in alcuni casi anche alla pena di morte.
La crisi economica e l’incerto futuro
Nel frattempo, l’economia del paese è sempre più in crisi, con i beni di prima necessità che scompaiono dagli scaffali, e con il governo che non è ancora stato in grado di trovare una via d’uscita da tale situazione. La mancanza di miglioramento dell’economia, e di conseguenza del benessere della popolazione, ha portato molti tunisini alla conclusione che l’establishment politico non è in grado di attuare politiche che risolvano le profonde crepe economiche del paese. Una sfiducia che, tra le altre cose, era stata la ragione principale dietro l’abbraccio, nel 2019, del popolo a Kaïs Saïed, considerato anti-establishment e potenziale salvatore del paese in piena pandemia di Covid-19.
Tuttavia, il presidente non ha intrapreso alcuna azione significativa per risolvere la terribile situazione economica e sociale. Il suo governo non è riuscito a trovare un’alternativa al prestito dal Fondo Monetario Internazionale (FMI) per mantenere a galla il paese. Dopo aver raggiunto un accordo preliminare con l’istituzione finanziaria per garantire un prestito di 1,9 miliardi di dollari e finanziare il bilancio 2023 lo scorso anno, il governo di Kaïs Saïed si sta ora preparando ad attuare nuove critiche misure di austerità che il FMI ha presentato come prerequisito per concludere l’accordo.
Nel breve periodo il decisore politico del paese maghrebino resterà Saïed, anche grazie alla nuova Costituzione che lo pone come unico arbitro del paese. Tuttavia, le proteste delle ultime settimane, il forte astensionismo alle recenti elezioni e la continua crisi economica rappresentano un fallimento del progetto avviato dalla sua salita al potere. Detto ciò, appare difficile per il momento immaginare che Saïed possa modificare il suo programma di marcia, nonostante l’incertezza che regna su tutti i fronti. A rendere la situazione ancora più complicata è arrivata la notizia della sospensione “temporanea” da parte della Banca Mondiale di alcuni programmi nel paese maghrebino, dopo le dichiarazioni e le violenze contro i migranti subsahariani scaturite dalle decisioni presidenziali.
Guerra ai migranti “irregolari” subsahariani
La lotta ai migranti subsahariani avviata dal capo di Stato mira, evidentemente, a distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica dalla grave crisi socio-economica in cui versa il paese. Durante un Consiglio di sicurezza nazionale, il presidente ha sottolineato la necessità di adottare “misure di emergenza per porre rapidamente fine al fenomeno dell’arrivo di un gran numero di migranti irregolari dall’area sub-sahariana”, aggiungendo che è in corso, dall’inizio del XXI secolo, un chiaro disegno complottistico che mira a una “sostituzione demografica per rendere la Tunisia un paese unicamente africano, che perda i suoi legami con il mondo arabo e islamico”. Alcune organizzazioni della società civile avevano già avvertito della campagna di istigazione contro gli immigrati avviata dalla presidenza, sottolineando come l’iniziativa fosse organizzata e potesse avere risvolti pericolosi. Infatti, le parole del presidente hanno avuto subito riscontri nella vita di molti immigrati: aggressioni in diverse città a persone di origine subsahariana, diversi arrestati perché senza documenti e famiglie costrette a rimanere chiusi in casa o a dover lasciare la propria residenza in seguito a sfratti.
Nel 2018, la Tunisia è stato il primo paese della regione MENA ad emanare una legge che penalizza la discriminazione razziale e consente alle vittime di razzismo di chiedere un risarcimento per abusi verbali o atti fisici di razzismo. Sembrano tempi lontani.
Tuttavia, il fenomeno razzista era già presente nel paese prima delle dichiarazioni di Saïed. A mo’ di esempio si possono citare i diversi incidenti contro la comunità subsahariana che sono stati segnalati durante la pandemia. Secondo un sondaggio commissionato dalla Bbc nel 2022, infatti, l’80% dei tunisini ritiene che la discriminazione razziale sia un problema nel proprio paese – la cifra più alta nella regione MENA. Con il pretesto di “difendere la sovranità tunisina”, negli ultimi mesi, il poco noto Partito Nazionalista tunisino – che tuttavia trova ampi spazi di manovra nell’attuale contesto – sta conducendo una campagna basata sulla richiesta di espulsione dei migranti irregolari provenienti dai paesi subsahariani.
Tunisia parte della “Fortezza Europa”
La stretta sui migranti irregolari, avviata da Kaïs Saïed, arriva poche settimane dopo la visita dei ministri degli Esteri e dell’Interno italiani, Tajani e Piantedosi, in Tunisia. Il dialogo bilaterale è stato infatti incentrato – oggi come nel recente passato – su una logica politico-securitaria che vede la questione dell’immigrazione come un problema di sicurezza che necessita di interventi alle radici. I finanziamenti che Tunisi riceve da Roma e da Bruxelles per tentare di arginare i flussi migratori e, al contempo, agevolare i rimpatri rientrano in quella politica avviata all’indomani dello scoppio delle cosiddette “Primavere arabe” quando i paesi europei – e la stessa Unione – hanno iniziato una serie di interventi per rafforzare i propri confini, riproducendoli sotto nuove forme e delocalizzandoli. Tuttavia, la scelta di adottare questo tipo di atteggiamento, volto a vedere il fenomeno della migrazione in primis in termini di sicurezza, fa emergere i numerosi limiti che questa politica di controllo e contenimento del fenomeno si porta dietro in tema di rispetto dei diritti umani e delle libertà degli individui coinvolti.