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TematicheMedio Oriente e Nord AfricaTunisia, analisi di un massacro

Tunisia, analisi di un massacro

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Seconda destinazione dei turisti italiani diretti all’estero – dopo gli Stati Uniti – nell’immaginario comune la Tunisia è stata raramente associata al rischio terroristico. Le sue spiagge, le sue bellezze artistiche ed archeologiche, la prossimità all’Europa, il clima di apertura che vi si respira l’hanno eletta, per anni, a meta privilegiata di vacanze esotiche sì, ma non troppo. Vacanze nel mondo arabo-musulmano, senza i pericoli e le ansie che queste di norma portano con loro.

Non a caso, il calo del numero dei visitatori seguito ai subbugli del 2011 è stato tamponato già a partire dal 2013 (dai 7-8 milioni pre-rivolte ai 6 di due anni fa). Status quo ante, o quasi. Nel frattempo, le cronache internazionali citavano il Paese a volte per le vicissitudini della sua neonata democrazia, a volte per episodi di violenza individuale che, per quanto eclatanti negli obiettivi –spesso personaggi pubblici –, non avevano niente a che spartire con gli eventi in corso in Libia, Egitto, Siria ed Iraq.

Sottotraccia, però, , le avvisaglie del pericolo che incombe sulla nostra dirimpettaia meridionale già si manifestavano. Secondo alcune fonti – France 24, ad esempio – il numero dei tunisini aggregatisi alle formazioni combattenti jihadiste – qaediste prima, del Califfato poi – oscilla tra i 3 e 5 mila. Un record: nessun’altra nazione ha contribuito in maniera così determinante a quell’esercito non convenzionale che minaccia l’intero mondo arabo. Ancor più allarmante, per il governo di Tunisi, è la stima relativa a coloro che, dato il proprio contributo alla causa in terra straniera, hanno optato per il ritorno in patria: l’intelligence locale, coadiuvata dalle controparti europee, ammette che oltre 500 militanti siano rientrati sul suolo natio. Pronti, va da sé, a mettere in pratica gli insegnamenti ricevuti e l’esperienza maturata. Suggellando i loro atti col timbro, famigerato, dell’ISIS, che ha rivendicato l’attentato in un video del quale è ancora incerta l’attendibilità. Altre piste portano, infatti, ad Ansar al Sharia o alla meno nota Okba bin Nafi, affiliata ad Al Qaeda. Stando alle più recenti informazioni trapelate da ambienti dell’esecutivo tunisino, almeno due dei componenti del commando sarebbero stati addestrati nella vicina Libia, ormai santuario dell’estremismo. Una fitta caligine avvolge ancora le biografie dei due soggetti identificati, uno dei quali già noto alle autorità. Dell’altro si sa solo che, durante la sua immotivata assenza durata tre mesi, aveva contattato i familiari con una scheda telefonica irakena. Dettaglio, questo, che lascia presumere una sua precedente affiliazione all’ISIS. Ancor meno chiaro è il numero ed il ruolo dei complici, prima 3, poi  9.

Da alcuni particolari il massacro sembra potersi ascrivere alla tipologia ormai tristemente famosa di gesti compiuti senza una pianificazione realmente strutturata, mirando ad impressionare l’opinione pubblica mondiale, tramite i media. Il fallito assalto al Parlamento, le armi poco sofisticate, il travestimento rudimentale avallano l’ipotesi di un colpo “fatto in casa” da ragazzi tanto giovani quanto esaltati. Per i quali, forse, l’estremismo islamico non è che una variante omicida del ribellismo giovanile. Come per gli attentatori di Charlie Hebdo.

La grossolanità di alcuni errori commessi dai terroristi non deve però indurre ad abbassare il livello di guardia: al contrario, i fatti di Tunisi, alla pari di altri del recente passato, dimostrano come il nuovo terrorismo “liquido”, per parafrasare Bauman, arrechi una minaccia grave a molte comunità nazionali, nei Paesi arabi come in Europa. Minaccia ancor più aggressiva in quanto imprevedibile. Liquida, appunto. Se è vero che, come notava Foreign Policy all’indomani degli attentati di Parigi, il potenziale offensivo di questo nuovo approccio è basso – ad oggi in Italia è estremamente più probabile morire in un incidente d’auto che per mano di un terrorista – è altrettanto vero che la minaccia “fantasma” abbassa il livello di sicurezza percepita, gettando un’ombra sinistra sui gruppi etnici e religiosi minoritari. C’è un filo rosso che lega i recenti avvenimenti di sangue: 1) un sentimento di rivalsa e di mancanza di identità che si impadronisce di giovani musulmani, a prescindere dal passaporto che portano in tasca; 2) l’affiliazione a gruppi estremisti, mediante il contatto fisico o virtuale con figure carismatiche e attraenti; 3) la disponibilità di una somma di denaro, per quanto contenuta, destinata a procurare gli strumenti necessari, armi in primis; 4) l’esistenza di zone franche dove ricevere addestramento.

Se questo è il minimo comune denominatore del fenomeno, purtroppo gli elementi alla sua base sono tanto diffusi quanto difficilmente controllabili.  Tranne il quarto: riportare stabilità nei santuari del terrorismo è, forse, più facile che offrire ai giovani modelli alternativi, bloccare la propaganda estremista via web e i canali di finanziamento illecito. Ed è la risposta “solida” alla più liquida delle minacce.

Se la minaccia è liquida, non si è sicuri da nessuna parte. Neanche in un museo di Tunisi. Ma se la risposta è solida, neanche i terroristi possono sentirsi al sicuro, privati dei loro oggi impenetrabili fortini. Surge irakeno docet.

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