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NotizieTrump e Obama “gemelli diversi”

Trump e Obama “gemelli diversi”

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In una recente pubblicazione dedicata alla visione politica di Donald Trump il prof. Germano Dottori ha intitolato “gemelli diversi” un capitolo del suo libro, significando che le politiche dell’attuale presidente americano e del suo predecessore Barack Obama abbiano più affinità di quanto la comune pubblicistica voglia ammettere.

Parliamo di affinità chiaramente in campi ben precisi, senza dimenticare le notevoli differenze tra i due leader, riscontrabili innanzitutto sul versante culturale e personale, anche alla luce di quanto affermato nelle analisi che, a partire dal 2016, hanno via via meglio inquadrato le strategie del presidente americano e la logica sottostante certe sue intemerate.

Continuità e differenze tra Obama e Trump alla luce del nuovo paradigma americano

All’indomani delle elezioni del 45° Presidente americano, le pubblicazioni dei più noti editori si sono concentrate sulla vita controversa di Donald Trump, spesso sottolineandone il passato a dir poco inquietante. Per fare un esempio, a parte una biografia sostanzialmente benevola come quella di Gennaro Sangiuliano, già nel 2016 in Italia abbiamo potuto leggere il “Donald Trump” di David Cay Johnston, celebre giornalista d’inchiesta che è andato a rivangare vicende discusse – dalla famigerata “Trump University alla “brigata polacca” del grande magazzino Bonwit Teller, passando per controverse “associazioni benefiche” – nonché amicizie imbarazzanti, comportamenti sconcertanti dell’imprenditore, forse nemmeno così ricco come sbandierato ai quattro venti, da lì a poco successore di Obama alla Casa Bianca.

Anche Andrew Spannaus, analista attivo sia in Italia che negli Stati Uniti, all’indomani delle elezioni ha pubblicato un libro molto critico e allarmistico in cui, senza troppo soffermarsi su aspetti biografici, veniva evidenziato il Trump “fuori dal sistema”, interprete di una “nuova faglia” tra apparati del mondo politico e il sentire della gente comune, tra establishment e outsider. Una “faglia” che nel caso di Trump è stata alimentata da un pensiero di ascendenza puritana: in primis la ferma volontà di dominio su ciò che di considera proprio, ovvero, lo “spazio americano”, e niente altro.

Pur rimanendo ferme le critiche e le preoccupazioni per i comportamenti fuori dalle righe del presidente americano, successivi contributi editoriali si sono concentrati sulle contraddizioni di un Trump che in realtà non agirebbe molto diversamente dal predecessore, almeno per quanto riguarda la politica estera. Sergio Romano, per capirci, ha ricordato l’esistenza delle “due Americhe”, sempre esistite, ma, allo stesso tempo, non ha potuto negare che il nuovo presidente, “a modo suo e con uno stile completamente diverso dal suo predecessore, sia destinato ad alimentare quella tendenza al disimpegno che è un altro aspetto di tutti i declini imperiali”. In altri termini lo stile di un nazionalista “ma con un concetto del ruolo degli Stati Uniti apparentemente contraddittorio: imperiale ma al tempo stesso animato anche da un forte pregiudizio verso i coinvolgimenti esterni”. Peraltro, un tratto spesso presente nella politica americana anche se molti se lo sono scordato dopo la svolta interventista di Bush Jr. a seguito dell’attentato dell’11 settembre. Con Trump si è infatti parlato di un “nazionalismo jacksoniano” proprio dei fautori di una agenda minima sul piano della politica internazionale e nel contempo militaristi e intransigenti sostenitori degli interessi americani.

Questa sorta di affinità politica tra Obama – Trump, non subito evidenziata da editorialisti e polemisti, forse a causa delle personalità così diverse tra i due leader, è stata ulteriormente rimarcata da Stefano Graziosi che nel suo “Apocalypse Trump”, libro con l’ambizione di sfatare comodi luoghi comuni, ha messo a confronto il democratico e il repubblicano (eretico). La politica estera di Obama avrebbe quindi rappresentato, pur tra limiti e contraddizioni, “forse il primo tentativo concreto di superare le logiche della Guerra Fredda”, tendendo la mano ad alcuni degli storici nemici americani. Insomma, il presidente democratico, accusato di essere troppo idealista si sarebbe rivelato in realtà un realista disilluso. Da questo punto di vista quindi Donald Trump, molto più di Hillary Clinton, almeno sul versante della strategia internazionale, si potrebbe considerare il vero “erede” di Obama.

Aspetto ancor più approfondito, come anticipato, da Germano Dottori, secondo il quale “in una prospettiva di medio-lungo termine le presidenze di Barack Obama e Donald Trump possono, e forse dovrebbero, essere lette come due momenti diversi dello stesso mutamento di paradigma”. In questo senso la politica di Obama rappresenterebbe una svolta strategica lungimirante e spregiudicata e non, come spesso fraintesa, un’azione di ambiguità e irresolutezza. In altri termini un’azione di “smart power” interconnessa al prolungamento della supremazia americana e che ha voluto dire ricerca della pace con l’Islam, mitigazione delle ambizioni europee e il contenimento congiunto di Cina e Russia.

Il punto centrale delle riflessioni degli analisti, una volta messe da parte le polemiche sulla personalità sui generis del presidente repubblicano, è stato quello di evidenziare la politica, propria sia di Obama che di Trump, improntata ad un realismo “leading from behind”, ovvero la volontà di occuparsi prima di tutto degli Stati Uniti, guardando agli affari esteri da una posizione più defilata. Secondo Dottori, che certamente non infierisce su Trump ma lo prende invece molto sul serio e si tiene lontano da rappresentazioni a suo dire caricaturali, “la presunta irresolutezza dell’uno e la pretesa erraticità dell’altro dovrebbero essere notevolmente ridimensionate”. Semmai Obama, per concretizzare questa svolta, avrebbe avuto l’accortezza di impiegare le tecniche indirette dello smart power, mentre Trump, coerente con la sua personalità, avrebbe enfatizzato il ricorso allo strumento delle sanzioni e della forza militare.

È anche vero, se andiamo a leggere la National Security Strategy del 2017, che balzano agli occhi le differenze valoriali tra l’attuale presidente e i suoi predecessori, compresi quelli repubblicani.

Altro discorso riguarda l’analisi complessiva della politica estera americana, almeno come si è sviluppata da vent’anni a questa parte a fronte della “Global War on Terror”. Ad esempio, se andiamo a valutare i rapporti con l’Europa, è stato più volte ricordato come già con Bush si contrapponeva la narrazione di “nuova” Europa vs “vecchia” Europa, a cui è poi è seguito un ulteriore indebolimento dell’Alleanza Atlantica con Obama; per poi giungere alla svolta radicale di Trump che per la prima volta ha messo “apertamente in dubbio la determinazione degli Stati Uniti a investire risorse economiche e capitale politico nel mantenimento e rinnovamento della Nato”.

Conclusioni

In sostanza questa sorta di provocazione espressa con i “gemelli Obama – Trump”, chiaramente al netto delle enormi differenze culturali e di stile esistenti tra i due, ha una sua ragion d’essere, sempre più confermata dagli analisti geopolitici, che l’attuale presidente repubblicano non rappresenta una sorta di incidente della storia. Piuttosto, alla sua maniera politicamente poco corretta e intemperante, Trump interpreta un percorso strategico che in realtà sarebbe iniziato in particolare dopo la caduta del Muro di Berlino e che avrebbe come obiettivo la conclusione delle “guerre infinite” combattute in aree del globo ritenute ormai periferiche.

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