Causa dopo causa, la campagna di Trump sta lentamente esaurendo opzioni per impedire l’insediamento di Biden. Effettive prove di brogli, seppur millantate, tardano ad arrivare. Sfortunatamente per il presidente, sembra che la volontà popolare americana non verrà sovvertita. Ma non perché non ci abbia provato.
Ironia del destino
Dodici giorni dopo l’11 settembre, ad una cerimonia in diretta nazionale per superare il lutto degli attacchi, Rudy Giuliani – all’epoca sindaco di New York – venne ribattezzato “America’s Mayor” da Oprah Winfrey, l’icona afroamericana della televisione statunitense degli ultimi 30 anni, per via del ruolo di eroico leader che aveva assunto all’indomani della tragedia. Dodici giorni erano passati anche da quando, in una storica chiamata ad una rete locale, Trump aveva menzionato nella sua reazione a caldo all’attentato, che da quel momento la sua Trump Tower fosse di nuovo l’edificio più alto di Manhattan. Quasi certamente nessuno in quei giorni avrebbe mai pensato che, meno di una ventina di anni più tardi, Trump si sarebbe trovato nel ruolo di presidente degli Stati Uniti alla ricerca di appigli per rimanere alla Casa Bianca; ancora di meno immaginare Rudy nelle vesti di suo sicofante, che intramezza presentare – e poco dopo ritirare – denunce su supposti brogli a tenere bizzarre conferenze stampa.
Una conferenza che rimarrà nella storia
Lo scorso 19 novembre l’ex eroe nazionale ha dichiarato in diretta mondiale, dalla sede di Washington del Partito Repubblicano, di aver nuove prove schiaccianti di frode elettorale senza in realtà mostrare nulla di concreto. Ha inoltre screditato il riconteggio dei voti in Georgia, ritenendolo incapace di scovare irregolarità di cui sembra sicuro, e ha citato una teoria cospirazionista che sostiene che i voti di alcuni stati siano stati contati in dei server in Germania da una compagnia venezuelana sotto ordine di Maduro. Dopo di lui, Sidney Powell, un altro avvocato della task force di Trump vicina agli ambienti cospirazionisti di QAnon, ha tirato in ballo George Soros come ulteriore responsabile dietro questo presunto piano internazionale per fermare la rielezione del magnate.
La conferenza stampa è stata caratterizzata da dichiarazioni e accuse forti dall’inizio alla fine e all’apice i toni si sono fatti così accesi che la tinta dei capelli di Giuliani gli è colata sul viso. Anche il pathos della Powell le è costato caro: prima le sue accuse di frode sono state messe in dubbio da Tucker Carlson, volto del talk show col suo nome, uno dei programmi più seguiti in America, che sempre si è schierato col presidente. Successivamente è stata ufficialmente allontanata dal team legale della campagna Trump, ma ha dichiarato che porterà avanti comunque i contenziosi per conto proprio.
Gli aspetti grotteschi di una tale conferenza stampa, però, non devono distrarre da cosa ha significato quella che Krebs, direttore dell’agenzia americana per la cybersicurezza da poco licenziato da Trump, ha definito “l’ora e 45 minuti più pericolosi nella storia della televisione americana”. Effettivamente il presidente sta probabilmente mettendo in primo piano aggressività e grande risonanza mediatica nelle proprie accuse, piuttosto che accuratezza delle azioni legali. Verosimilmente l’intento è quello di creare un’atmosfera di incertezza sul risultato elettorale e metterne in dubbio la legittimità, anziché cercare di invalidare alcuni specifici voti per Biden in quanto frutto di frode.
Rincorrere la Casa Bianca
Nel pratico, più di trenta cause intentate da quella che Trump ha chiamato “Elite task force” negli swing states sono state rigettate e non sembrano abbastanza solide da portarle fino alla Corte Suprema. Con la via legale alla deriva, i trumpisti hanno poi adottato altre tattiche parallele per cercare di impedire la vittoria di Biden. Una delle ultime strategie è impedire la certificazione del voto, un passaggio burocratico che ogni stato fa prima di ufficializzare i grandi elettori. L’obiettivo sarebbe impedire il raggiungimento dei 270 elettori per l’attuale candidato Dem, oppure far intervenire le legislature statali affinché appuntino di ufficio grandi elettori pro Trump, ignorando il voto popolare nello stato in quanto “falsato”. Probabilmente è per questo che il 21 novembre il presidente ha invitato repentinamente alla Casa Bianca i presidenti di Camera e Senato del Michigan, entrambi repubblicani.
Anche questa strada è sembrata sfumare quando, il 23 novembre, dopo più di tre ore di riunione in videoconferenza per sentire le testimonianze e le opinioni di chiunque avesse fatto richiesta, la commissione elettorale del Michigan ha certificato la selezione dei Grandi Elettori pro Biden sulla base dei risultati finali locali. In quella giornata è avvenuto lo stesso anche in Pennsylvania.
Tuttavia, due giorni Trump ha ottenuto la sua prima vittoria legale concreta, seppur di modesta entità: un giudice del “Keystone State” ha messo la certificazione in stand-by per permettergli di dare udienza il 27 ad una causa contro il voto postale intentata dal team del presidente. Non sono ancora chiare le implicazioni di questo blocco temporaneo e cosa potrebbe accadere se le questioni legali si protraessero oltre il 14 dicembre, data ufficiale dell’assemblea dei Grandi Elettori. Cionostante, al momento, Biden è sulla strada per ottenere la maggioranza dell’Electoral College, 270 voti, anche senza i 20 della Pennsylvania.
Ciononostante, venerdì la Corte d’appello con giurisdizione sulla Pennsylvania ha respinto la causa come infondata, sottolineando come in questa ci sia una mancanza di specifiche e prove. Poco dopo Giuliani ha annunciato di voler fare appello alla Corte Suprema.
È (quasi) finita?
Nello schema ad albero in cui potrebbero essere elencate le possibili strategie attuali di Trump, i rami in cui il magnate newyorkese riesce a sorpresa ad aggiudicarsi la rielezione diminuiscono esponenzialmente man mano che il tempo passa e risultati concreti per lui tardano ad arrivare. Probabilmente è questo che lo ha portato, qualche ora dopo la certificazione del Michigan, a concedere l’inizio delle procedure di transizione necessarie all’insediamento dell’amministrazione Biden, seppur in maniera riluttante e ribadendo, subito dopo, che il suo sforzo per dimostrare l’irregolarità delle elezioni non si sarebbe fermato.
Al resto del mondo non rimane che aspettare e vedere se, come è andata per la maggior parte finora, il resto della procedura necessaria per la votazione del collegio elettorale prosegua come previsto e le accuse di brogli di Trump diventino solo il mantra per sue possibili candidature future. Ora, le date a cui fare attenzione sono il 30 novembre, per la certificazione finale del voto in Arizona; il 1° dicembre, per quello in Wisconsin; l’8 e 14 dicembre, per la riunione e il voto dei Grandi Elettori e il 6 gennaio, giorno in cui il Congresso a camere riunite assisterà al conteggio dei suddetti voti. A tal proposito, va ricordato che il ruolo di contare (e in teoria di decidere cosa fare in caso di doppie liste in conflitto di Grandi Elettori) è affidato dalla Costituzione al vicepresidente in carica, Mike Pence.
Ruggero Marino Lazzaroni,
Geopolitica.info