Il ritiro delle forze armate americane e NATO dall’Afghanistan sta alimentando le voci relative a una presunta vocazione isolazionista degli Stati Uniti. Questa avrebbe preso il via con l’amministrazione Trump e sarebbe stata inaspettatamente confermata dall’amministrazione Biden.
Come ricordato dal prof. Mario Del Pero in una recente intervista a Geopolitica.info, tuttavia, l’isolazionismo non solo non costituisce la postura assunta oggi da Washington, ma non si sarebbe mai realmente verificata neanche in passato almeno nei termini in cui ci viene generalmente raccontata. Gli Stati Uniti, infatti, oscillerebbero sempre tra un impegno profondo in tutte le aree del mondo (deep engagement) e un limitazionismo che impone di circoscrivere l’impegno americano alle questioni e ai quadranti vitali per l’interesse nazionale (retrenchment). E, ci piaccia o meno, nell’ultimo decennio la Casa Bianca si è spostata su questo secondo approccio indifferentemente da chi ne fosse l’inquilino.
Le cause alla base di tale scelta sono da rintracciare, nella parte più politicamente onesta del discorso di Joe Biden sull’Afghanistan, quella in cui spiegava che sono altre le minacce che incombono ora sugli Stati Uniti e che restare in Afghanistan rischierebbe di essere un favore alla Cina e alla Russia (nella parte meno sincera, invece, ha sostenuto che il ritiro è giustificato dal fatto che lo scopo della missione – debellare al-Qaeda dal Paese – è stato già raggiunto). Quella di limitare gli impegni, come spiegato da Robert Gilpin nel suo classico War and Change in World Politics, è una delle opzioni strategiche a cui una potenza egemonica può attingere in presenza di una sfida esistenziale. E le altre due, che probabilmente non troverebbero migliore accoglienza tra la maggior parte degli opinionisti, sono quella di sfidare direttamente in guerra o in un confronto assoluto le potenze revisioniste e quella di allargare ancor di più gli impegni per attestarsi su di un perimetro più facilmente difendibile. Se le controindicazioni di queste ultime due opzioni sono l’imprevedibilità della competizione per la prima e la sovra-estensione imperiale per la seconda, il rischio insito nella scelta compiuta da Washington è sicuramente quello di apparire debole ai propri avversari, incentivandone così l’aggressività.
Solo nel medio-lungo termine, pertanto, sapremo se quella che sicuramente oggi si profila come una tragedia umanitaria sarà stata anche un errore strategico. O, al contrario, se si rivelerà una mossa funzionale al riconsolidamento del primato americano. I conti del ritiro, infatti, potrebbero tornare in attivo già con il prossimo presidente degli Stati Uniti, che si troverebbe a raccogliere i frutti di una scelta difficile, che probabilmente solo Biden – per le ragioni precedentemente spiegate qui – poteva compiere.
Come notato da Stephen Walt su Foreign Policy, il ritiro dall’Afghanistan produrrà un enorme risparmio di vite umane e risorse economiche. Non si dimentichi, infatti, che in venti anni gli Stati Uniti hanno lasciato sul campo oltre 2.500 soldati e 3.800 contractors, nonché circa 1 trilione di dollari. Le forze bloccate fino a oggi nel Paese, invece, potranno essere riutilizzate proprio nella competizione con la Cina e, in seconda battuta, con la Russia. Alcuni commentatori sostengono che questa drammatica scelta potrebbe causare agli Stati Uniti un contraccolpo in termini di credibilità, inducendo alleati e partner a riallinearsi con le potenze rivali o a insistere nella ricerca di forme di autonomia strategica. L’effetto positivo e probabilmente atteso, invece, è quello di incentivarli a dotarsi di forze armate più capaci e all’altezza delle minacce emergenti. Si arriverebbe così a una soluzione almeno parziale di quel problema dell’infantilizzazione degli alleati di cui negli Stati Uniti si discute ormai da trent’anni e che tanti contrasti ha generato anche in sede NATO. Si ricordi, infine, che la credibilità americana non può essere misurata dall’impegno in Afghanistan, che almeno dalla morte di Osama bin-Laden (2011) non costituiva più una priorità strategica per la super-potenza. Nei documenti strategici dell’ultimo decennio, invece, Washington si dice disponibile ad affrontare ogni evenienza con tutti i mezzi a sua disposizione nell’area da cui fa dipendere le sorti dell’ordine internazionale, ovvero l’Indo-Pacifico. È su quanto faranno in questo quadrante strategico, quindi, che vanno misurate le promesse americane.
Molto frequente, infine, è stata l’associazione – fatta anche a ragion veduta – delle immagini che arrivano da Kabul con quelle di Saigon del 1975. In pochi, tuttavia, hanno ricordato come proprio la scelta di chiudere definitivamente il più impopolare capitolo della politica estera americana fu alla base della vittoria di Washington nella Guerra fredda nel decennio successivo.