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Tra innovazione e pandemia: quali sfide per l’empowerment femminile in Italia?

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In Italia, così come nel mondo, essere donna durante questo lungo equinozio di crisi pandemica ha significato veder rallentare le proprie aspettative di emancipazione e di uguaglianza. Le dinamiche di gender segregation nell’educazione STEM, di marginalizzazione femminile nell’economia digitale, congiuntamente a quelle di recessione da Covid-19, hanno inasprito criticità preesistenti e posto nuove sfide alla valorizzazione delle opportunità di genere, evidenziando così la maturità dei tempi per intervenire con misure strutturali coraggiose. Una missione a lungo termine di cui anche l’Italia si sta rendendo portavoce attraverso il piano Next Generation EU e la sua prima presidenza G20.

Le donne e le materie STEM: un problema di gender segregation

Gli sforzi comunitari volti alla promozione delle pari opportunità tra uomini e donne in termini di diritto all’istruzione hanno prodotto risultati notevoli. Grazie alle pratiche virtuose dei vari sistemi educativi nazionali europei, il divario di genere nell’educazione di primo e secondo grado si è andato progressivamente rimarginando; tanto che ad oggi la percentuale delle donne laureate in Europa di età compresa tra i 30 e i 34 anni supera quella maschile del 10%.

Tuttavia, l’European Institute for Gender Equality evidenzia la persistenza della cosiddetta gender segregation, ovvero la pressione culturale esercitata sulle giovani affinché si conformino ai tradizionali percorsi di studio e alle aspettative di occupazione socialmente convenute. In Italia, secondo i dati ISTAT sui “livelli di istruzione e ritorni occupazionali”, solo una ragazza su otto si immagina di realizzarsi nei settori disciplinari STEM, mentre coloro che alla fine decidono di intraprendere i corsi di laurea attinenti costituiscono uno scarso 16,2%.

Le ricerche degli ultimi anni hanno dimostrato che la distinzione cognitiva tra i rendimenti scolastici e i risultati scientifici ottenuti dagli studenti e dalle studentesse non è plausibile. Eppure, quest’ultime soffrono ancora la mancanza di modelli di riferimento nell’immaginario accademico, dove la quota di dottorande STEM si aggira intorno al 41% per poi ridursi al 19% nel caso delle professoresse ordinarie ed infine al 7% nei rettori donna. Una statistica che impatta notevolmente sull’autostima delle giovani ricercatrici e che avvalora il fenomeno del “leaky pipeline”, ossia “la progressiva uscita delle donne dal percorso delle carriere accademiche una volta concluso il periodo di formazione universitaria”.

La partecipazione femminile nell’economia digitale

A questo fenomeno si può ricondurre la scarsa presenza femminile nel bacino di forza lavoro altamente specializzato a cui attinge l’attuale economia digitale, la robotica e l’automazione. Tutti changemakers del futuro industrioso che stanno plasmando irreversibilmente il paradigma produttivo dell’ “industria 4.0”, nonché l’avvenire in cui risulta essere assente l’imprenditoria femminile.

Secondo il recente studio WiD (Women in the digital age) della Commissione Europea, il gender mainstreaming nelle politiche del mercato unico digitale dell’UE è ancora insoddisfacente e le discrepanze nelle politiche nazionali e legislative tra i diversi Stati membri rimangono sostanziali. In Europa, la quota di uomini che lavorano nell’economia digitale è tre volte maggiore a quello delle donne e la forbice partecipativa si allarga ancora di più in paesi come Bulgaria, Romania, Grecia e Italia. Nello specifico, il quadro di valutazione WiD evidenzia che appena il 18% dei specialisti ICT sono donne e che la perdita economica causata dalla loro inattività si aggira intorno ai 16,2 miliardi di euro.

Conseguentemente, questi trend si traducono in un gender gap nelle start-up e negli investimenti in capitale di rischio, relativo ai quali la marginalità dei ruoli manageriali femminili si acuizza ulteriormente. D’altronde, se si osserva la composizione dei founding board in UE, si scopre che nella maggioranza dei casi si ha un’ esclusiva presenza maschile, nel 25% c’è almeno una donna e in un esiguo 8% una superiorità numerica femminile. Una situazione di “sotto-rappresentanza di genere” nociva per il successo delle giovani società europee, in quanto l’eterogeneità dei team aumenta sia le probabilità di attirare maggiori investimenti che il potenziale innovativo dei prodotti.

La She-cession nella pandemia Covid-19

A queste dinamiche poco rassicuranti, si aggiunge quello che il neologismo inglese definisce She-cession, vale a dire il calo sproporzionato dell’occupazione femminile conseguente alla diffusione mondiale del Coronavirus.

In Italia, per capire la portata del fenomeno, è sufficiente guardare ai dati provvisori ISTAT, che nel periodo dicembre 2019-2020 hanno registrato 444.000 lavoratori in meno, di cui 312.000 risultano essere donne. Un’asimmetria che può essere compresa citando tre fattori:

  • la composizione settoriale della forza lavoro: circa l’85% delle lavoratrici è impiegata nel macro comparto dei servizi/esercizi a contatto con il pubblico, che con le misure di contrasto e contenimento del virus hanno visto bruciare mezzo milione di posti di lavoro;
  • la precarietà lavorativa femminile: Il 30% delle donne in UE è attualmente coinvolto in impieghi part-time e nell’economia informale. Attività generalmente caratterizzate da minori diritti sul lavoro e di protezione sociale che di conseguenza privano le lavoratrici dell’assistenza sanitaria, del congedo per malattia o dell’indennità di disoccupazione;
  • il lavoro di cura: le donne in questo periodo hanno sostenuto un carico d’impegno maggiore nella cura degli anziani e dei bambini, trovandosi spesso costrette a combinare lo smartworking con il ruolo assistenziale all’interno delle famiglie, rischiando di compromettere le proprie prestazioni lavorative.

Valorizzazione delle opportunità di genere: il ruolo dell’Italia

Di fronte a questo scenario, i moniti internazionali per cambiare la situazione non sono mancati e l’Italia, in occasione della sua prima presidenza G20, si è impegnata ad ospitare il “Women’s Forum G20 Italy”, uno degli otto engagement group impegnati nella formulazione di raccomandazioni e proposte da sottoporre al tavolo dei venti leader mondiali. Il Women20 sostiene le istanze della parità di genere in una “She-covery for all”. Un piano guida che ponga al centro della ripresa post-pandemica il ruolo delle donne attraverso una serie di programmi incentrati sull’ educazione STEM, sulla finanza etica, sulla diplomazia e sull’ “accesso al capitale, all’intelligenza artificiale, Tech4Good e ai programmi di riconversione e riqualificazione”.

Inoltre, l’Italia ha intenzione di investire entro il 2026 almeno 7 miliardi di euro mobilitandosi nell’ ampia cornice della Next Generation EU, dove la parità di genere viene chiamata in causa come valore vincolante negli investimenti destinati ai vari paesi.

In linea con le raccomandazioni europee, nel “Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza” (PNRR), si trova un corposo pacchetto di misure volte sia ad alleggerire i carichi di cura che ad intervenire a favore dell’imprenditoria femminile nelle seguenti missioni: i) Digitalizzazione, innovazione, competitività e cultura; ii) Istruzione e Ricerca; iii) Inclusione e Coesione; e iv) Salute. Un insieme di interventi che verranno implementati in concomitanza con lo sviluppo di una “Strategia nazionale per la parità di genere 2021-2026”, il cui scopo dovrebbe essere quello di “accompagnare le imprese nella riduzione dei divari in tutte le aree più critiche per la crescita professionale delle donne, e rafforzare la trasparenza salariale”.

Ciononostante, il corollario di interventi presenti nel paragrafo “Politiche per le donne” del PNRR manca in alcuni punti dell’impulso dirompente necessario per scardinare la condizione di disuguaglianza consolidata. Nella missione 1, ad esempio, si parla di introduzione di nuovi meccanismi di reclutamento per la PA, di opportunità di carriera verticale e di promozione alle posizioni dirigenziali, enfatizzando l’importanza delle misure dedicate allo smart-working per consentire alle donne di “conciliare” la vita privata con il lavoro. Mentre le ricadute occupazionali desiderate attraverso il potenziamento dell’offerta turistica e culturale sono specifiche ai settori a forte presenza femminile, senza richiamare mai all’attenzione il mancato impiego delle ingegnere, scienziate, ricercatrici o economiste di cui il paese si potrebbe avvalere.

Piuttosto, il piano sembra prendere atto di un’evidenza culturale: il ruolo di cura è ancora ad appannaggio delle donne. Ma non crea le condizioni per rompere questo schema e meglio distribuire i carichi assistenziali all’interno della famiglia, dedicando invece una buona parte di queste politiche al piano asilo nido, ai servizi educativi per l’infanzia e ai servizi di prossimità e di supporto all’assistenza domiciliare. Un bug che rischia di inficiare sulla reale volontà di fare leva sulle energie femminili in un’ottica di pari opportunità per la ripresa e l’innovazione italiana.

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