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Tra cooperazione e competizione: le relazioni russo statunitensi dopo il summit NATO

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In questi primi mesi dal suo insediamento, l’Amministrazione Biden ha dato segnali apparentemente contraddittori rispetto ai propri obiettivi e alle strategie atte a perseguirli. Se le pressioni alla Cina sembravano essere in linea con quanto dichiarato in precedenza, il rinnovo del Tratto New START e le accuse a Vladimir Putin di essere un “killer” hanno portato molti osservatori a sottolineare l’incoerenza di alcune scelte dall’Amministrazione democratica, una percezione questa acuita dalle dichiarazioni sull’immigrazione di Kamala Harris e dalla richiesta di un più attivo sostegno degli alleati NATO alla difesa collettiva. L’apparente contraddittorietà e incoerenza della politica dell’Amministrazione Biden è però frutto di una stortura della prospettiva di chi osserva, che, concentrandosi sulla dimensione individuale della politica estera, trascura i fattori strutturali che la vincolano.

Chiunque navighi un po’ di letteratura di Relazioni internazionali, d’altronde, sa bene che di uomini capaci di agire da game-changer per il flusso storico se ne contano sulla punta delle dita e che a dettare tempi e contenuti delle scelte in politica estera intervengono solitamente fattori strutturali capaci di sfuggire al loro controllo. Allo stesso modo chi già conosce – o per curiosità intellettuale trova il coraggio di imbracciare – un manuale di storia delle relazioni internazionali sa che potenze egemoniche come gli Stati Uniti tendono a compiere scelte già sperimentate efficacemente nel passato, soprattutto quando occorre contrastare le sfide capaci di mettere in discussione la stabilità dell’ordine internazionale.

La scelta di spiegare l’interazione tra grandi potenze riconducendone gli esiti alle preferenze personali, alle idee o ai loro regimi politici, dunque, rischia di farci apparire le politiche attuate dalla Casa Bianca nei confronti del Cremlino in quest’ultimo semestre – segnato dal rinnovo del New START seguito dall’accusa a Putin di essere «un killer», dalla reiterata contrarietà al completamento del Nord Stream 2 seguita dalla rimozione delle sanzioni contro la società che lo sta realizzando – quanto meno rapsodiche, se non schizofreniche. E, naturalmente, non lo sono.

Al contrario, sarebbe opportuno interpretarle alla luce di quel retrenchment che ha rappresentato l’opzione strategica adottata dalle ultime tre amministrazioni americane per difendere lo status quo e, contemporaneamente, riportare in asse risorse e impegni dopo l’overstretching del ventennio precedente. Lungi dal profilarsi come eventi in contraddizione tra loro, quindi, anche la sequenza ravvicinata del Summit NATO a Bruxelles (14 giugno) e di quello Biden-Putin a Ginevra (16 giugno) vanno riletti in tale prospettiva.

Nel lungo Communiqué emanato dopo il Summit del 14 giugno (https://bit.ly/2Subkda), infatti, diversi passaggi dai toni molto duri sono dedicati alla Russia, che viene additata quale fonte di molteplici minacce per l’Alleanza Atlantica. Per questo, spiega il comunicato, con Mosca non sarà possibile ristabilire neanche un regime di relazioni ispirate al business as usual fin quando non tornerà a rispettare il diritto internazionale e gli obblighi che da esso derivano. Due giorni dopo, tuttavia, il presidente della potenza leader della NATO ha incontrato proprio che il principale rappresentante della fonte delle minacce denunciate due giorni prima. E, sebbene non siano mancati punti di frizione significativi – la destabilizzazione dell’Ucraina, la questione dei cyberattacchi e il caso Navalny – il risultato che le parti si erano verosimilmente prefisse si può dire raggiunto: dare stabilità e regolarità alle relazioni bilaterali, per evitare escalation improvvise e provare a rimuovere i vincoli strutturali al dialogo (per saperne di più si veda https://bit.ly/3dae0Ut). Obiettivo prioritario dell’Amministrazione Biden non è stato infatti quello di rilanciare strutturalmente il dialogo con la Russia, avviando un nuovo Reset sul modello obamiano, bensì regolarizzare il confronto con Mosca, istituire un canale di comunicazione che non fossero esclusivamente le dimostrazioni di forza.

Così come gli alti e i bassi degli ultimi sei mesi, come stanno insieme i due eventi? Secondo chi scrive, tre ragioni principali – di ordine strutturale e non domestico – possono essere utili a sgomberare il campo da equivoci.

Si ricordi, anzitutto, che la Russia è ancora considerata la principale fonte di insicurezza da numerosi Paesi membri della NATO, soprattutto da quelli dell’Europa nord-orientale ritenuti da Washington molto più leali di altri. Allo stesso modo, essa rappresenta un costante motivo di preoccupazione anche per la Casa Bianca, in particolare per le implicazioni della dottrina nucleare russa o per le minacce ibride derivanti dalla dottrina Gerasimov (per saperne di più si veda https://bit.ly/3zXqbxk). Alla luce di tutto ciò, quindi, è del tutto normale che nel Communiqué si dedichi ampio spazio alle tensioni con Mosca.

Gli Stati Uniti, tuttavia, non considerano più l’ex arcinemico della Guerra fredda come la principale fonte dell’instabilità dell’ordine internazionale, ruolo che ormai attribuiscono inequivocabilmente alla Repubblica Popolare Cinese (distinzione presente nella NSS dell’amministrazione Trump – https://bit.ly/3d5KSO3 – e ancora di più accentuata nella INSS dell’amministrazione Biden https://bit.ly/3jg608h). Di conseguenza, già nella fase preparatoria del Summit era ben nota la volontà americana di porre sul tavolo il tema della minaccia cinese. A questa è stato effettivamente dato risalto molto più di quanto non fosse stato fatto al vertice di Londra del 2019, quando la questione trovò per la prima volta albergo in un vertice NATO (si veda https://bit.ly/3xSW2NR). Ma di fronte alle resistenze di molti Paesi europei a discutere una questione che rischia di distogliere l’Alleanza dai fronti che considerano realmente strategici (l’Eastern Flank per gli Stati dell’Europa nord-orientale, il Southern Flank per gli Stati dell’Europa meridionale) o di inacidire i rapporti con un Paese che altri alleati considerano un importante partner economico (Germania, Francia, Italia, Paesi Bassi), gli Stati Uniti potrebbero aver accettato di attribuire alla minaccia russa ben più enfasi di quanto avrebbero inizialmente voluto proprio per far ingoiare agli alleati l’amaro calice della denuncia della minaccia cinese nel comunicato finale (addolcita dal passaggio in cui si esprime la volontà di mantenere con questa un dialogo costruttivo).

Infine, l’enfasi attribuita ai dossier di Ucraina, Georgia e Moldova, così come la dovizia di particolari con cui è stata esplicitata le insidie multiformi poste da Mosca, possono essere state considerate funzionali da Biden sia in vista del successivo vertice con Putin che, più in generale, dei rapporti russo-americani nel breve e medio periodo. Tale approccio potrebbe essere dettato da due ragioni alternative.

La prima è la volontà di procedere a un’escalation nei confronti della potenza target delle accuse. Tuttavia, le posizioni assunte sul New START e sul Nord Stream 2, così come il profilo basso tenuto sul dirottamento del volo Ryanair in Bielorussia e la tempistica del Summit di Ginevra non fanno propendere per questa interpretazione. Ancor più se questi eventi vengono letti nell’ambito della crescente competizione tra Washington e Pechino. Pertanto, la scelta di tenere alta la pressione con il Cremlino può essere servita alla Casa Bianca per il motivo esattamente opposto: far arrivare Biden più forte al primo bilaterale con Putin e consolidare una posizione di vantaggio in vista dell’avvio di un processo di give and take con l’ex potenza rivale della Guerra fredda.

Dal punto di vista russo però, le crescenti pressioni statunitensi potrebbero essere lette come una manifestazione chiara ed evidente della volontà di Washington di non cedere rispetto al ruolo di egemone del Sistema internazionale, aprendo in questo modo una fase di crescente competizione tra le grandi potenze. Nella recente Strategia di sicurezza nazionale russa, approvato lo scorso 2 luglio, si fa esplicitamente riferimento ad “azioni ostili di potenze rivali volte a destabilizzare e compromettere la stabilità della Russia”, denunciando le presunte influenze occidentali e statunitense nella politica interna di Mosca. Dall’analisi del documento, emerge il chiaro timore che la competizione internazionale possa tramutarsi in un processo di progressiva frammentazione della coesione interna del paese, per effetto delle politiche portate avanti dall’Occidente. Anche in questo documento, infatti, gli Stati Uniti e la NATO sono identificati come la principale minaccia alla sicurezza per la Federazione e, a differenza delle versioni precedenti della Strategia, non viene mai citata la possibilità di un’intesa con Washington, a conferma dell’inconciliabilità dei reciproci interessi.

In passato, d’altronde, al cospetto di altre minacce strategiche gli Stati Uniti hanno optato per la relativizzazione del nemico minore e la contestuale concentrazione delle risorse contro il nemico maggiore del momento. È successo durante la Seconda guerra mondiale, quando trovarono un accordo con l’Unione Sovietica per debellare l’impellente minaccia tedesca, e fecero altrettanto negli anni Settanta, quando scesero a patti con la Repubblica Popolare Cinese per contrastare la montante sfida sovietica nella Guerra fredda. È possibile, dunque, che di fronte alla duplice sfida lanciata nell’ultimo decennio da Mosca e Pechino nei confronti dell’ordine liberale, Washington cerchi di evitarne l’abbraccio potenzialmente mortale facendo concessioni alla prima per passare al contrattacco nei confronti della seconda.

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