Nelle ultime settimane è tornata a salire la tensione nel teatro israelo-palestinese, segnato da un’intensificazione delle attività militari israeliane in Cisgiordania e da un aumento degli attacchi terroristici contro Israele. Sullo sfondo permane lo stato di conflitto permanente tra Israele e Iran, con Teheran che mira ad aprire nell’arena palestinese un nuovo fronte. Per analizzare più da vicino le recenti evoluzioni Geopolitica.info ha intervistato il professor Kobi Michael, Senior Researcher dell’Institute for National Security Studies di Tel Aviv, già a capo del Palestinian desk presso il ministero per gli Affari Strategici israeliano.
Nelle ultime settimane abbiamo assistito a un aumento della tensione nell’arena israelo-palestinese, culminato con l’attacco terroristico di Neve Yaakov, Gerusalemme, del 27 gennaio scorso. Quali sono, secondo lei, le ragioni che spiegano questa nuova ondata di violenza?
Per spiegare ciò che è successo ieri o una settimana fa dobbiamo capire cosa è successo dieci mesi fa. Infatti dal mio punto di vista da dieci mesi ci troviamo nel pieno di una vera e propria campagna terroristica, che è stata lanciata nel marzo del 2022 e a cui Israele ha risposto con l’operazione Breaking the Wave, ancora in corso. Quella attualmente in corso quindi non può essere definita semplicemente una nuova ondata di terrorismo.
Cosa differenzia una campagna terroristica da una semplice ondata di terrorismo?
Non possiamo parlare di un’ondata terroristica in quanto non assistiamo ad attacchi sporadici e casuali. Al contrario, ci troviamo di fronte a una vera e propria campagna, perché bene organizzata, orchestrata e condotta. Dietro a questa campagna si cela una razionalità organizzante che la guida e facilità. Il generatore iniziale della campagna va ricercato nel ruolo giocato dal movimento per il Jihad islamico palestinese (JIP). L’epicentro è il distretto di Jenin, nel nord della Cisgiordania. In seguito anche altre organizzazioni palestinesi si sono unite.
Il JIP non è la più grande e influente organizzazione palestinese, essendo molto più piccolo di Hamas e di Fatah. Tuttavia, fin dalla sua fondazione, è una organizzazione veramente radicale, estremista e violenta. Il JIP ha costruito le sue capacità in due aree principali. La prima è la Striscia di Gaza, dove ha costruito un’infrastruttura terroristica significativa che, di volta in volta, sfida l’egemonia di Hamas, movimento che attualmente governa quel territorio. Il suo secondo centro di gravità è l’area di Jenin, in Cisgiordania. Storicamente il distretto di Jenin è una area “ribelle”, non solo nell’epoca successiva alla firma degli accordi di Oslo. Anche durante l’epoca dell’Impero ottomano, ad esempio, quindi prima della fondazione dello Stato di Israele. Jenin è tradizionalmente un distretto difficile, è considerata la Stalingrado palestinese.
Quindi gli attentati compiuti in territorio israeliano negli ultimi dieci mesi sono ascrivibili ad affiliati del Jihad islamico palestinese?
Solo in parte. La peculiarità della campagna in corso è la presenza dei così detti lupi solitari, cioè di singoli individui che non sono necessariamente affiliati a una delle organizzazioni terroristiche. Pur in assenza di connessioni dirette, tuttavia, questi lupi solitari vengono implicitamente supportati dalle diverse organizzazioni, a partire dal JIP. Ad esempio, le organizzazioni stesse mirano a delle affiliazioni post mortem, quindi successive al compimento dell’attacco e all’uccisione dell’attentatore. Questo spiega perché si assiste di frequente a vere e proprie lotte intestine tra diverse organizzazioni durante i funerali, su quale debba essere la bandiera posta sopra la bara.
Nel marzo 2020, la campagna terroristica all’interno del territorio israeliano è iniziata con due attentati compiuti da due cittadini arabo-israeliani che si sono dichiarati affiliati a ISIS. Ma scavando in profondità, grazie agli interrogatori effettuati dal Servizio di Sicurezza Generale (Shin Bet), sono state scoperte delle connessioni proprio con l’area di Jenin e con il Jihad islamico palestinese. Solo in un secondo momento il JIP ha lanciato una campagna di attacchi terroristici su vasta scala in Cisgiordania e all’interno del territorio israeliano, penetrando nelle falle del così detto security fence.
Cosa ha portato il JIP a essere la principale organizzazione terroristica a Jenin e ad acquisire tale quoziente di pericolosità per Israele?
Per rispondere a questa domanda dobbiamo ricorrere a due principali spiegazioni. La prima ha a che fare con il vacuum di potere creato dall’Autorità nazionale palestinese (ANP). È dal 2020 circa che l’ANP non controlla quel distretto, almeno dal punto di vista securitario. Anche quando l’ANP era maggiormente presente, non vuol dire che era in grado di esercitare un efficace ruolo di governo. Ad esempio, storicamente le forze di sicurezza dell’autorità palestinese non entrano nei campi rifugiati, i quali rappresentano i tradizionali covi di organizzazioni come il JIP. Da tempo Israele ha compreso molto bene, grazie a lavoro di intelligence, cosa stava accedendo a Jenin. Le forze israeliane hanno seguito da vicino il processo di rafforzamento del JIP nell’area, ma non sono intervenute volutamente, chiedendo all’ANP di operare in quelle zone.
Allargando la prospettiva, la seconda ragione è legata al ruolo dell’Iran. Il JIP va considerato come un puro proxy iraniano, nel senso tradizionale del termine. È vero che anche Hamas, in un certo senso, è definibile come un proxy di Teheran, ma con caratteristiche molto diverse. È importante cogliere la differenza tra JIP e Hamas. Il Jihad islamico palestinese è un’organizzazione terroristica pura, la cui ragion d’essere è solo una: uccidere il numero più elevato di ebrei possibile. Il JIP non persegue alcuna aspirazione politica; non intende governare su un territorio o su una popolazione. Non si vede come parte del gioco politico. Dall’altra parte Hamas non è solo un’organizzazione terroristica, ma anche un movimento politico, ideologico, religioso e sociale, con delle chiare aspirazioni politiche. L’obiettivo finale di Hamas è quello di guadagnare il controllo dell’intero del sistema palestinese, ovvero sostituirsi all’ANP. Perciò, pur essendo assistito dall’Iran, è meno dipendente da Teheran. Hamas deve fare altri calcoli, possiede altre responsabilità, perché governa su un territorio, Gaza, che è ormai un semi-Stato di due milioni di persone. Hamas guarda verso est, verso la Cisgiordania, pensandosi in futuro come il più credibile sostituto dell’ANP, ormai al collasso.
In questo scenario che ruolo gioca l’attore da lei appena citato, ovvero la Repubblica islamica dell’Iran?
Attualmente si può dire che l’Iran controlla quattro Stati: Libano, Siria, Iraq e Yemen. A fianco a ciò, Teheran ambisce a diventare sempre più influente nei Territori palestinesi così come all’interno dello Stato di Israele, attraverso il reclutamento di cittadini arabi di Israele, per creare un’infrastruttura terroristica endogena allo Stato ebraico. Questo disegno è parte di un calcolo strategico iraniano più ampio che si lega al conflitto in corso con Israele. Teheran ambisce ad affermare la propria egemonia in Medio Oriente. L’Iran infatti si percepisce come una potenza regionale che aspira a diventare un fattore influente dell’intero ordine internazionale, proprio attraverso l’accrescimento del suo status regionale. L’Iran non ambisce a un controllo diretto dei Paesi arabi, ma aspira ad acquisire una sempre maggiore influenza all’interno di questi Stati. L’idea dietro la strategia regionale iraniana è la seguente: qualsiasi cosa che possa avere una ricaduta su un qualsiasi interesse iraniano deve essere posta sotto il proprio controllo.
Per perseguire i propri obiettivi l’Iran sta costruendo nuove capacità e infrastrutture in quelli che io definisco i quattro fronti più uno. In generale stabiliscono e sostengono dei proxy locali, così da non dover inviare i propri militari in territori stranieri, ad eccezione di consiglieri ed esperti. Nel sud del Libano hanno Hezbollah, che opera anche in Siria e Yemen – è segnalata da tempo la presenza di consiglieri di Hezbollah in Yemen a sostegno degli Huthi. In Siria dispongono anche di altre milizie, composte da combattenti provenienti da varie zone dell’Eurasia, come l’Afghanistan. In Iraq hanno milizie sciite irachene e in Yemen gli Huthi. Quelli appena citati sono i quattro fronti classici della presenza iraniana nella regione. Il quinto fronte è l’arena palestinese, dove hanno legami con JIP e Hamas. Pur essendo entrambi movimenti sunniti, sono considerati validi alleati da Teheran. Ci sarebbe in realtà un ulteriore fronte dal punto di vista iraniano, rappresentato dal fronte domestico israeliano, dove l’Iran sta tendando di penetrare.
Dal punto di vista iraniano, qual è la ratio strategica dietro alla costruzione di questo network politico-militare nella regione?
L’idea alla base di questa strategia è quella di creare una rete deterrente, al fine di prevenire che Israele possa attaccare in futuro l’infrastruttura nucleare nel territorio iraniano. Gli iraniani sono determinati ad acquisire capacità nucleari militari non, in principio, per bombardare Israele ma per creare un leverage deterrente che possa facilitare il successo della loro strategia egemonica nella regione. L’establishment iraniano sa che quando uno Stato possiede armi nucleari nessuno si azzarderebbe ad attaccarlo. Un esempio attuale è quello della Corea del Nord, mentre dal passato ci sono stati esempi opposti di regimi che hanno rinunciato alle capacità nucleari, come Iraq e Libia, e sono successivamente caduti. Israele rimane il principale ostacolo al successo di questa strategia. Per questo l’Iran non vuole solo creare una deterrenza credibile nei confronti di Israele. L’obiettivo più ampio è quello di indebolire lo Stato ebraico, perché sanno che è una potenza regionale, sempre più potente grazie al processo di normalizzazione regionale innescato dalla firma degli accordi di Abramo.
Se il nucleare è la principale arma deterrente di cui si vuole dotare l’Iran, in che modo Teheran pensa di indebolire attivamente Israele?
L’Iran pensa di indebolire Israele in due modi. Primo, attaccando Israele nel suo ventre molle, ovvero la popolazione civile. Teheran sa che, in caso di conflitto su scala regionale, militarmente non sarebbe in grado di sconfiggere le forze armate israeliane. Tuttavia può ugualmente raggiungere risultati significativi usando mezzi come razzi e missili ad alta precisione che andrebbero a colpire aree densamente popolate da civili e infrastrutture civili. La famosa resilienza del fronte domestico israeliano si sta erodendo e l’Iran crede che la società israeliana sia sempre più debole, in quanto ormai trasformata in una società occidentale avanzata sempre meno incline a sopportare ingenti perdite di vite umane civili. Perciò l’Iran si sta preparando per operazioni di distruzione massicce contro il fronte domestico israeliano. Questa è l’idea dietro la costruzione di un’infrastruttura di razzi e missili a cui sta lavorando soprattutto in Siria e Libano, che Israele cerca di distruggere nell’ambito della così detta campagna tra le guerre (MABAM nell’acronimo ebraico). Oltre a ciò l’Iran sta lavorando al rafforzamento di capacità nel dominio cyber e nello spettro dei così detti UAVs (veicoli a pilotaggio remoto). Capacità e know-how che fornisce anche ai propri proxy.
Il secondo fronte su cui sta lavorando l’Iran è l’indebolimento di partner e alleati di Israele nella regione. Teheran sa che fintantoché Israele può contare su partner regionali, la sua posizione rimane solida. È per questo che gli iraniani cercano di indebolire e destabilizzare Paesi come Giordania, Egitto, Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita, ma non in maniera esplicita. Questa potrebbe essere vista come una visione infantile, o come una strategia prematura da parte iraniana, ma in realtà è una strategia molto solida su cui crede molto. Per questo dovremmo da parte nostra iniziare a capire il loro modo di pensare, la loro mentalità, la loro percezione storica. Gli iraniani non hanno una mentalità occidentale come noi. Pensano in termini storici, con una mentalità di matrice imperiale che li porta a ragionane nell’ordine temporale dei secoli e non delle singole generazioni.
L’Iran è attivo anche in Giordania?
Certamente, posso darle un esempio. Teheran sfrutta il controllo che ha acquisito del confine tra Giordania e Siria – la Siria è ormai da considerarsi un Narco-State – per alimentare l’industria della droga. Le diverse droghe provenienti dalla Siria vengono contrabbandate attraverso il confine giordano e da lì vengono distribuite in tutto il Medio Oriente, fino ad arrivare anche in Europa. Persino qui a Roma sono state trovate tracce di stupefacenti provenienti da questo network criminale. Inoltre le medesime piattaforme di contrabbando sono sfruttate per il traffico di armi e soldi, diretti soprattutto verso l’area di Jenin.
La Giordania sta cercando di contrastare queste attività?
Le autorità giordane comprendono bene quale possa essere il pericolo dietro queste attività ma non possono fare niente, perché non sono in grado di contrastarle. L’unico modo per combatterle sarebbe chiudere il confine con la Siria. Ma in questa fase Amman è dipendente da quel confine, in quanto la propria economia è debole. Quindi mantenere aperti i confini con la Siria, così come con l’Iraq, diventa un valore aggiunto. In questa fase l’Iran sarebbe in grado di far implodere l’economia giordana, agendo da Siria e Iraq.
Cosa può fare Israele per supportare uno Stato partner come la Giordania?
Israele sta cooperando con le autorità giordane attraverso la condivisione di intelligence e anche con l’organizzazione di operazioni militari speciali mirate, dove si cela anche un ruolo degli americani. Il confine è tuttavia molto labile. Israele riesce a contrastare solo in parte questo contrabbando, ma la percentuale di successo non può essere del 100%. E dobbiamo considerare che in questo scenario Israele controlla di fatto militarmente il confine con la Giordania, attraverso la presenza di forze israeliane nella Valle del Giordano. Quindi, immaginatevi cosa accadrebbe se Israele si ritirasse da quel territorio.
Fino ad ora abbiamo analizzato l’attività e le strategie degli attori antagonisti di Israele. Quali sono invece le politiche messe in campo da Israele per contrastare quella che lei ha definito una vera e propria campagna terroristica?
L’attuale politica israeliana di contrasto all’attività terroristica si basa sulla tattica del containment, la quale ricorre principalmente ad attività di intelligence e al dispiegamento di piccoli commandos altamente qualificati che si infiltrano per operazioni mirate nell’area di Jenin. Israele ha deciso dall’inizio di non contrastare la minaccia terrorista lanciando una vasta campagna militare di risposta, come accaduto l’ultima volta durante la seconda Intifada. L’obiettivo di Israele rimane quello di non alimentare l’escalation e di non indebolire ulteriormente l’ANP, con il rischio di un suo collasso. L’esistenza di un ANP forte e funzionante è nell’interesse di Israele. Sfortunatamente da tempo non è più tale. L’obiettivo di questa tattica è quello di arrestare o neutralizzare il maggior numero di terroristi. Sebbene Israele stia avendo successo sul piano tattico-operativo, tuttavia credo che non abbia avuto ancora successo nel creare un “impatto strategico” significativo. Il fatto che questa campagna stia continuando è per me indicativo di come ancora, ad un livello strategico, non sia stato raggiunto il successo dell’operazione israeliana. L’impatto strategico, ai miei occhi, è l’idea di stoppare una volta per tutte la campagna terroristica.
L’arrivo del nuovo governo Netanyahu ha cambiato la tattica messa a punto l’anno scorso dal governo Bennett-Lapid e, soprattutto, può essere tracciata una correlazione tra gli ultimi sviluppi nella politica israeliana e l’aumento dell’attività terroristica anti-israeliana?
Niente affatto. L’attuale governo sta continuando sulla stessa lunghezza d’onda del precedente. Dobbiamo considerare inoltre che questa operazione è stata decisa quando ancora non c’era Netanyahu. All’epoca Benny Gantz era il Ministro della Difesa israeliano che addirittura ha provato a invitare nella sua residenza privata il presidente dell’ANP, Abu Mazen, per poi incontrarlo anche a Ramallah. Altri ministri israeliani nel 2022 hanno incontrato Abu Mazen. I canali di dialogo in quella fase erano aperti. In quel periodo, per la prima volta da anni, Israele ha aumentato i permessi concessi a migliaia di lavoratori palestinesi provenienti da Gaza per lavorare in Israele. Nonostante ciò, le organizzazioni palestinesi hanno iniziato la campagna terroristica ancora in corso. Quindi dal mio punto di vista credo che non ci sia una correlazione tra la situazione politica interna israeliana e la decisione delle organizzazioni palestinesi di lanciare questa campagna.
Nelle ultime settimane però si registra un aumento della violenza rispetto ai mesi scorsi.
È vero che esiste una differenziazione. Nel marzo 2022 questa è iniziata come una pura campagna terroristica, senza una reale dimensione politico-ideologica dietro. Per quanto invece vedo ora, le cose sono cambiate. Dobbiamo comprendere che nel corso di questi mesi si è messo in moto un processo. Ora, è qualcosa di differente. Almeno agli occhi degli attentatori e degli attivisti quella in corso è già un’Intifada. Loro già sono nel mood cognitivo dell’Intifada. Israele, invece, non definisce la situazione attuale come un’Intifada, perché ai suoi occhi le masse popolari palestinesi non sono ancora coinvolte. È vero che una parte rilevante della popolazione palestinese supporta questo tipo di resistenza armata. Ma per il momento questo sentimento non si sta tramutando in un supporto politico e in una partecipazione attiva alla campagna. Nel paradigma cognitivo, nella coscienza degli attivisti palestinesi, già siamo in un’Intifada. La principale idea dietro il termine Intifada è quella di rigettare lo status quo, l’ordine esistente, combattere contro di esso. Per loro lo status quo da combattere non è solo Israele ma anche la stessa ANP che collabora con Israele.
Come risponde a questa situazione l’ANP?
Non credo che l’ANP abbia una strategia. Anzi, la sua posizione sta contribuendo costantemente all’escalation. L’ANP si trova ormai in una situazione in cui non è in grado di modificare il sentimento dell’opinione pubblica palestinese nei suoi confronti. Non gode di supporto politico e quindi non è più in grado di agire. Avrebbe dovuto anticipare ciò che sta accadendo ora, se solo non avesse ignorato la minaccia del terrorismo e la penetrazione iraniana che c’è dietro.
Va letta in questo senso anche l’interruzione del coordinamento di sicurezza con Israele annunciato da Abu Mazen?
Esattamente. Credo che questa sia però una mossa senza senso da parte dell’ANP perché, in primo luogo, questo tipo di cooperazione avvantaggia l’ANP stessa, che viene al contrario indebolita dalle azioni di attori antagonisti come Hamas. È vero che questo coordinamento aumenta la sicurezza israeliana. Ma è l’ANP la principale beneficiaria di questa cooperazione. Si tratta di canali di dialogo importanti che agiscono quando al livello politico non c’è negoziato. Tutta la comunicazione è fatta attraverso il canale di sicurezza. Quando il direttore dello Shin Bet incontra Abu Mazen, quest’ultimo sa che il messaggio portato dalla parte israeliana è il messaggio del primo ministro israeliano. Senza questo tipo di cooperazione Israele può comunque sopravvivere, mentre l’ANP rischia di implodere. Abbiamo visto cosa è successo a Gaza nel 2005, dopo il ritiro unilaterale israeliano e il successivo golpe di Hamas del giugno 2007.
Qual è la posizione degli Stati arabi di fronte a questa nuova fase di violenza?
C’è un campo formato da alcuni Stati arabi, a partire dai firmatari degli accordi di Abramo, che non segue più la resistenza palestinese, anzi l’ha abbandonata da tempo. Si tratta di Paesi che stanno supportando attivamente Israele, compresa l’Arabia Saudita, sebbene ancora non in maniera ufficiale. Non perché amano lo Stato di Israele, ma perché hanno compreso da tempo la nuova realtà regionale. Hanno capito che stanno perdendo il supporto americano, perché gli Stati Uniti stanno riducendo il proprio impegno nella regione. Sanno che Israele è l’unico alleato affidabile che hanno per combattere la minaccia iraniana. I sauditi e gli altri Paesi del Golfo sanno quanto sia seria la minaccia iraniana così come la sfida proveniente dalle ideologie appartenenti al campo dell’Islam politico. I leader arabi hanno compreso la fatica di sostenere sulle proprie spalle la causa palestinese. Per questo si limitano a un sostegno puramente verbale che tuttavia non si traduce in qualcosa di più concreto. Ormai il loro interesse per la questione palestinese sta svanendo.
In questo quadro che ruolo immagina per l’Unione Europea e per i singoli Stati europei?
Sfortunatamente l’Unione Europea (UE) non è un attore influente in Medio Oriente. Non che sia irrilevante, ma sempre meno influente. L’UE e i Paesi europei potrebbero essere più rilevanti nella regione se solo si convincessero a cambiare il proprio approccio. Primo, dovrebbero essere molto più rigidi verso l’Iran. Devono comprendere che l’Iran non rappresenta una minaccia alla stabilità della sola regione mediorientale, ma sta bussando anche alle porte dell’Europa. Si guardi a cosa sta facendo in Ucraina e non solo. Un cambio di politica sull’Iran verrebbe percepito come un’indicazione per Israele e altri Paesi della regione di come l’UE voglia ritagliarsi un ruolo di rilevanza nella regione. Secondo, l’UE dovrebbe investire in un processo di rieducazione dell’ANP. L’UE continua a donare ingenti quantità di denaro a un’entità disfunzionale e corrotta. È necessario che l’UE vincoli il suo supporto economico a un reale funzionamento della governance palestinese. Fornendo assistenza senza richiedere accountability non si fa altro che alimentare un circolo vizioso che non porterà a nulla di buono.