Il terremoto del 6 febbraio scorso, con epicentro in Turchia a Şehitkamil, ha causato anche ingenti danni nelle regioni nord-occidentali e costiere della Siria, con più di seimila morti e decine di migliaia di feriti. L’evento tellurico, disastroso per una popolazione già ostaggio di un conflitto lungo oramai quasi 12 anni, si è rilevato per il leader del regime Bashar al-Assad un’opportunità diplomatica.
Articolo precedentemente pubblicato nella scorsa edizione della newsletter Mezzaluna, iscriviti qui!
Un’opportunità politica
I recenti sismi hanno colpito una Siria preda di una situazione umanitaria già di per sé gravissima. Centinaia di migliaia di civili sono stati uccisi negli ultimi 12 anni, in quasi 7 milioni hanno lasciato il Paese e altrettanti oggi sono classificati come Internally Displaced People, ovvero sfollati interni. Per il World Food Program più di 12 milioni vivono una situazione di insicurezza alimentare, particolarmente grave per 2.5 milioni di essi.
Passate le scosse la presidenza siriana ha cominciato a ricevere le prime condoglianze ufficiali. A stretto giro sono ovviamente giunte quelle degli alleati internazionali più tradizionali, quali l’Iran, la Russia, la Cina e la Nord Corea. Anche dal fronte regionale non sono però mancati messaggi di solidarietà: il leader emiratino Mohamed bin Zayed Al Nahyan, sempre più vicino alla Siria, ha chiamato Bashar al-Assad per porgergli le condoglianze di Abu Dhabi. Il Presidente siriano ha poi interloquito telefonicamente con la sua controparte dell’Egitto Abdel Fattah al-Sisi e il Re del Bahrain Hamad bin Isa Al Khalifa, sorprendendo gli analisti in quanto con entrambi i leader da diversi anni non vi erano più stati contatti ufficiali. Più fredda invece, almeno inizialmente, la reazione dell’Arabia Saudita, che si è limitata a un semplice e generale comunicato di condoglianze alla Siria e alla Turchia. Vicinanza è stata espressa inoltre da altri Paesi arabi come la Giordania, la quale recentemente ha intrapreso la restaurazione dei rapporti con Damasco, e altri Stati strategici nello scacchiere mediorientale per la corsa di Assad verso la riabilitazione, come ad esempio Oman e Algeria.
Questi cordogli non vanno confusi come mere cortesie diplomatiche; al contrario essi sono utili per comprendere a che punto è giunto il processo di re-engagement avviato negli ultimi anni dal regime siriano, il quale mira a rompere il proprio isolamento internazionale. Il processo ha avuto inizio in seguito alle diverse vittorie militari ottenute da Damasco tra la fine del 2016 e l’estate del 2018. L’esercito arabo siriano, infatti, dopo aver catturato l’intera Aleppo, ha guadagnato ampio terreno nei governatorati di Idlib, Aleppo, Hama e Deir ez-Zor, per poi successivamente riconquistare il sud del Paese, un tempo prevalentemente nelle mani del Southern Front. Conseguentemente alcuni Stati arabi, compreso come l’uscita di scena di Assad non fosse più un’opzione, hanno avviato una lenta normalizzazione con Damasco. Questo processo sta ora vivendo un periodo di accelerazione: al soccorso umanitario a Damasco sta infatti seguendo un clima di rinnovato engagement diplomatico.
Alla Conferenza di Monaco il Principe Faisal bin Farhan Al-Saud, ministro degli esteri saudita, ha aperto alla normalizzazione dei rapporti con il regime, dichiarando: «non solo nel GCC [Consiglio di cooperazione del Golfo] ma nel mondo arabo vi è un crescente consenso sul fatto che lo status quo attuale non stia funzionando». In un secondo intervento il Principe Faisal ha quindi espanso il suo precedente commento: «un engagement è necessario […] esso potrebbe portare al ritorno della Siria nella Lega Araba […] al momento però penso sia ancora prematuro parlarne». Due considerazioni particolarmente rilevanti se si considera che il Regno saudita, seguito dal Qatar, è sempre stato il principale Paese arabo ad opporsi alla normalizzazione dei rapporti con il regime di Assad. Ma l’apertura saudita è solo una dei tanti recenti risvolti diplomatici che hanno seguito il tragico terremoto del 6 febbraio.
Il 9 febbraio una delegazione ministeriale libanese si è recata a Damasco, dove ha incontrato Bashar al-Assad e diversi altri funzionari siriani. Degna di nota anche la prima visita nel Paese dal 2011 per un ministro degli esteri giordano, Ayman Safadi, avvenuta il 15 febbraio; la Giordania nel 2018 ha avviato una graduale normalizzazione dei rapporti con Damasco che sembrava però si stesse raffreddando a causa del continuo contrabbando di Captagon dalla Siria verso i territori giordani, principale fonte di guadagno per il regime siriano. Si sono poi recate nel Paese anche diverse missioni parlamentari, precisamente provenienti da Iraq, Libano, Egitto, UAE, Palestina, Libia (Aguila Saleh) e Giordania, le quali sono state ricevute congiuntamente da Assad il 26 febbraio.
Per ultima, non in ordine di tempo e non perché meno importante, va riportata la visita dello sceicco Abdullah bin Zayed Al Nahyan, ministro degli esteri emiratino. Proprio negli UAE il leader siriano ha compiuto, nel marzo del 2022, il suo primo viaggio in un Paese arabo dallo scoppio del conflitto, e alcuni rumour, dopo il recentissimo viaggio in Oman, lo danno presto nuovamente in visita da Mohammed bin Zayed Al Nahyan. Gli Emirati Arabi Uniti, che hanno riaperto la loro ambasciata in Siria nel 2018, sono i principali promotori della normalizzazione tra il mondo arabo e il regime di Bashar al-Assad. Processo che, fino ad oggi, è stato ostacolato però dalla reticenza saudita, che si è tradotta in un fermo parere negativo al ritorno di Damasco nella Lega Araba, sospesa dall’organizzazione dal 2011. Le dichiarazioni di Faisal bin Farhan Al-Saud sembrano quindi segnalare che, in parte come espressione della diplomazia del terremoto, l’Arabia Saudita potrebbe essere nei prossimi mesi pronta a rivedere il suo rapporto con Damasco.
Le sanzioni alla Siria: davvero bloccano gli aiuti umanitari?
Parallelamente all’arrivo in Siria di nutrite schiere di diplomatici sono atterrati nel Paese dozzine di aerei cargo, contenenti decine di migliaia di tonnellate di aiuti umanitari E anche sul fronte umanitario Damasco si è rapidamente mossa, con l’obiettivo di strumentalizzare la lenta risposta della comunità internazionale al terremoto. Le autorità siriane hanno infatti immediatamente preso di mira il meccanismo sanzionatorio occidentale, affermando che esso stesse rendendo molto più complicato, sia per il regime che per gli Stati esteri, soccorrere la popolazione del Paese. L’appello è stato rapidamente ripreso dagli alleati tradizionali di Assad, come anche da attivisti e gruppi politici ostili al meccanismo sanzionatorio.
Come è ben noto, la Siria di Assad è obiettivo di molteplici pacchetti sanzionatori, tra cui spiccano quello dell’Unione Europea e quello statunitense, quest’ultimo inasprito nel 2019 con l’entrata in vigore del Caesar Act. Sulla carta le attuali sanzioni imposte alla Siria non impediscono però l’invio nel Paese di aiuti umanitari. Banche e aziende private al tempo stesso, preoccupate dalla possibilità di venir indagate per violazione dei vari regimi sanzionatori, peccano spesso di eccessiva cautela, astenendosi dal prendere in considerazione operazioni economiche verso la Siria. Per questo il Dipartimento del Tesoro statunitense, a partire dal 9 febbraio e per un periodo di 180 giorni, ha ampliato le già esistenti esenzioni a tutela degli aiuti umanitari emettendo la Syria General License 23. Simile misura è stata adottata dal Consiglio Europeo, in merito alle proprie sanzioni verso la Siria di Assad, per i prossimi sei mesi. La problematica maggiore è però il regime stesso; nel corso degli anni una miriade di inchieste hanno evidenziato la profonda corruzione degli apparati damasceni e come essi siano colpevoli di weaponization of aid, ovvero di strumentalizzare gli aiuti umanitari a proprio favore. Frequentemente nel corso del conflitto Damasco ha impedito l’invio di aiuti umanitari ad aree ostili ad Assad, dirottato donazioni di cibo e carburanti verso l’esercito e manipolato il valore della lira locale per poter estorcere alle agenzie ONU decine di milioni di dollari. Per questo, ONG e privati sono restii a operare nei territori governativi, soprattutto se al di fuori del controverso framework ONU, già accusato di intrattenere rapporti con compagnie controllate da sostenitori del regime.
Nonostante però quanto finora discusso, aiuti internazionali sono giunti agli aeroporti di Damasco, Aleppo e Beirut (in Libano, per i voli europei) da una moltitudine di Paesi, quali l’Algeria, l’Austria, l’Egitto, gli Emirati Arabi Uniti, la Francia, la Germania (direttamente a Damasco), l’India, l’Italia, l’Oman, il Pakistan, la Polonia e altri ancora. Di particolare importanza l’arrivo di voli dall’Arabia Saudita, Paese che dallo scoppio del conflitto ha intrattenuto solo rari e freddissimi rapporti con il regime di Damasco. Al tempo stesso diversi Paesi occidentali, ad esempio gli Stati Uniti e la Francia, si sono rifiutati ad oggi di fornire direttamente (che sia verso le piste siriane o libanesi) aiuti umanitari alla Siria governativa.
Discorso diverso per le regioni non controllate da Bashar al-Assad. La comunità internazionale è oggetto di forti critiche per la lentezza con cui ha soccorso la campagna nord-occidentale di Aleppo e la regione di Idlib, entrambe controllate da gruppi armati ostili al regime siriano, ovvero il Syrian National Army e Hay’at Tahrir al-Sham, quest’ultimo da alcuni Stati designato come un’organizzazione terroristica. David Beasley, vertice del World Food Program, ha accusato Tahrir al-Sham di ostruire l’ingresso in Idlib di aiuti umanitari cross-line, ovvero dalle regioni controllate da Assad, e di politicizzare la questione. Una lettura sicuramente superficiale e parziale, se si considera come gli aiuti al nord-ovest che giungono da Damasco siano storicamente una ininfluente frazione dell’ammontare totale, prevalentemente veicolato attraverso la Turchia. Inoltre, come già detto in precedenza, il regime è solito saccheggiare i convogli prima che entrino nelle aree ribelli. Aldilà quindi delle lamentele di Damasco verso la comunità internazionale e i meccanismi sanzionatori, il regime sta ricevendo nettamente più aiuti rispetto alle popolazioni residenti nelle aree controllate da forze ribelli.
Conclusioni
La normalizzazione tra i Paesi arabi e il regime siriano, un processo già in essere da diversi anni, sembra quindi accelerare come conseguenza del terremoto. Tra i molteplici engagement diplomatici delle scorse settimane spiccano nuovamente quelli tra Damasco ed Abu Dhabi, il cui rapporto è in continua evoluzione e consolidazione. E sembrerebbe che, stando a uno scoop della Reuters, gli UAE stiano cominciando a raccogliere i primi frutti: Assad avrebbe infatti autorizzato l’apertura (temporanea) di tre valichi tra la Turchia e i territori ribelli, per l’ingresso di aiuti umanitari, dopo essere stato persuaso in tal senso da Abdullah bin Zayed Al Nahyan.
Abu Dhabi potrebbe quindi star avendo successo nel ritagliarsi la propria sfera d’influenza a Damasco, per anni considerata esclusivamente dipendente da Mosca e Teheran.
Discorso diverso per l’Arabia Saudita. È vero che le dichiarazioni del Principe Faisal bin Farhan Al-Saud suonano rilevanti e degne di nota, ma al tempo stesso non fanno che dipingere la semplice realtà dei fatti. È infatti opinione comune, non solo nelle capitali arabe ma anche in molte occidentali, che lo status quo attuale nei rapporti tra Damasco e la comunità internazionale non funzioni, e che prima o poi sia necessario rivedere l’approccio verso il regime.
Questo non è detto che si traduca in una rapida apertura saudita nei confronti di Assad, anzi, come ben dimostra un altro dossier, ovvero quello dei rapporti tra Gerusalemme e Riad, quest’ultima preferisce spesso operare con cautela.
Non va dimenticato, al riguardo, il ruolo dell’Arabia Saudita come principale partner arabo di Washington nella regione. Gli Stati Uniti rimangono fermamente contrari a qualsiasi normalizzazione dei rapporti tra la Siria e i propri Paesi alleati e l’hanno segnalato anche di recente. La Camera dei Rappresentati ha infatti approvato lo scorso 28 febbraio, a larghissima maggioranza, una risoluzione in cui, condannando i tentativi di Damasco di strumentalizzare il terremoto, chiedeva al Presidente Biden di applicare completamente il Caesar Act.
Pochi giorni prima Jim Risch, membro della Commissione per le relazioni estere del Senato degli Stati Uniti, aveva lanciato un chiaro avvertimento chiarendo come la normalizzazione con Assad «[…] aprirà le porte alle sanzioni americane. Il tragico terremoto non cancella i crimini di Assad contro il popolo siriano. Non deve esserci spazio per la riabilitazione del regime, né per il suo ritorno nella Lega Araba». Risch aveva già in precedenza condannato il timido riavvicinamento tra Damasco e Ankara. Su quest’ultimo fronte né il terremoto, che ha gravemente colpito anche la Turchia, né l’opposizione statunitense sembrano aver fermato il processo. Al contrario infatti il Ministro del Esteri russo Sergei Lavrov, dopo aver incontrato la sua controparte turca Mevlüt Çavuşoğlu al G20 in India, ha confermato come Mosca stia ancora lavorando alla normalizzazione dei rapporti tra Damasco e Ankara. Il suo vice, Mikhail Bogdanov, ha quindi annunciato come un quadrilaterale degli esteri tra Lavrov, Çavuşoğlu, Mekdal (Siria) e Amir-Abdollahian (Iran), sia in corso di organizzazione, e proprio in tal senso presto si incontreranno i rispettivi vice-ministri. L’opposizione turca intanto, nelle vesti di Kemal Kilicdaroglu, ha inviato a Bashar al-Assad una lettera di condoglianze; un gesto rilevante in vista dell’imminente voto turco, che secondo Erdogan continua a essere previsto per il prossimo 14 maggio.
Tornando al ruolo statunitense, proprio le sanzioni americane rimangono lo scoglio principale a qualsiasi normalizzazione con Assad. Infatti, perché di vera e propria normalizzazione si possa parlare, è necessario che visite e incontri diplomatici si traducano in qualcosa di concreto, ovvero in una ripresa degli scambi commerciali tra la Siria e i suoi nuovi partner, e investimenti di quest’ultimi nella ricostruzione nel Paese. Le sanzioni sono però proprio state stilate per impedire ad Assad di avviare la ricostruzione della “propria” Siria prima di un’effettiva risoluzione politica del conflitto secondo la Risoluzione 2254 del Consiglio di Sicurezza ONU.
Ad oggi il processo politico di risoluzione del conflitto siriano, proprio a causa dell’ostruzionismo damasceno, è de-facto morto. Perché i Paesi Occidentali rimuovano le sanzioni alla Siria serve che esso riprenda vita, cosa ad oggi improbabile, o che coloro interessati a intessere nuovi rapporti con il regime di Assad riescano a sviluppare un nuovo framework politico, che accontenti sia gli attori sul campo che le varie potenze estere coinvolte nel Paese, in primis gli Stati Uniti.