Dopo alcuni mesi di tensioni politiche, ora la BiH si appresta ad affrontare la crisi più profonda dalla fine della guerra. A 26 anni dall’Accordo di Dayton che sancì la fine dei conflitti armati, ad oggi la Bosnia e Erzegovina rappresenta ancora un contesto post-conflittuale in cui vigono profonda segregazione etnica e dialettiche nazionaliste.
Sebbene il conflitto in Bosnia e Erzegovina si sia concluso ben 26 anni fa, agli occhi della popolazione e dell’élite politica, molte cose non sono mai cambiate. Secondo quanto prescritto dall’Accordo di Dayton siglato nel ’95, lo Stato, le strutture istituzionali e la sua popolazione stessa sono fortemente soggette ad una polarizzazione di natura identitaria. Così, oltre a possedere una figura presidenziale tripartita rappresentante le tre comunità maggioritarie (croato-cattolica, bosgnacco-musulmana e serbo-ortodossa), le ripercussioni di tali partizioni si riversano direttamente anche nella sua società e nella vita quotidiana: dalla divisione etnica delle scuole alla segregazione urbana; dal clientelismo alla formazione di partiti etnici. In un contesto così fragile, è cruciale il ruolo della comunità internazionale: la presenza di un Alto Rappresentante per la pace, della missione EUFOR “Althea” e dei singoli accordi bilaterali, nell’equilibrio di potere bosniaco intervengono vari poli pronti a riassettare potenziali situazioni di rischio. Questa dovrebbe essere l’idea generale ma non sempre il ruolo di attori esterni risulta esserne realmente un fattore game-changer.
I fatti
Il periodo di crisi più torbido è iniziato lo scorso luglio quando, dopo anni di pressioni da parte di alcuni partiti nazionali e dalla comunità internazionale per la creazione di una legge contro il negazionismo storico del genocidio e della glorificazione dei criminali di guerra, l’Alto Rappresentante Valentin Inzko ha fatto uso di una clausola del trattato di pace al fine di prescrivere direttamente una legge ed inserirla nel codice penale bosniaco. In risposta, i rappresentanti politici serbi hanno immediatamente boicottato tutte le attività nelle istituzioni comuni nazionali. A inizio ottobre il membro serbo della presidenza Milorad Dodik ha annunciato di voler ritirare al più presto la Republika Srpska dalle tre istituzioni centrali principali: le forze armate, l’apparato giudiziario e l’amministrazione centrale per le tasse. Nei giorni scorsi Dodik ha rincarato la dose aggiungendo che la magistratura, l’intelligence e la sicurezza statali dovranno terminare le proprie operazioni sul territorio della Republika Srpska poiché da novembre subentreranno le nuove istituzioni serbe. L’ultimo episodio di scontro risale a mercoledì 20 ottobre, giorno in cui l’assemblea parlamentare della Republika Srpska ha approvato una legge per la creazione della prima agenzia indipendente dallo Stato centrale, ovvero quella del farmaco e dei dispositivi medici.
Gli altri attori esterni
Dopo anni di campagne elettorali fondate su dialettiche nazionaliste e allusioni secessioniste, le azioni politiche avanzate da Dodik nelle scorse settimane potrebbero rappresentare i primi passi concreti per l’avvio di una secessione. La creazione dell’Agenzia del farmaco è il primo banco di prova sia per la tenuta delle ambizioni politiche di Dodik quanto anche per le reazioni della comunità internazionale. A seconda della risposta esterna verso tali azioni, la Republika Srpska riconoscerà di avere più o meno margine di manovra per raggiungere i propri obiettivi politici. In questo contesto di scontro nazionale, vi sono due attori che rimangono silenziosamente a supportare le ambizioni di Dodik: la Serbia e la Russia. Come alleati storici, ripongono notevoli interessi nella sua causa. L’affiliazione culturale e religiosa però non sono gli unici aspetti di interesse.
Per la Serbia, la secessione di un territorio bosniaco in cui la maggior parte dei cittadini si identifica con la nazionalità serba significherebbe favorire lo storico disegno di riunificazione in un’unica entità nazionale etnicamente omogenea. Inoltre, l’evento risulterebbe particolarmente strategico per l’acquisizione di asset quali risorse agricole, forestali e energetiche. La Russia invece trarrebbe il vantaggio di sviluppare una maggior area di influenza in un contesto prettamente europeo. Inoltre, si trova a suo agio: l’episodio infatti non dista molto da ciò che era accaduto in Crimea. La Serbia, oltre ad essere Paese candidato per l’entrata nell’Unione, risiede in un’area geostrategica particolarmente cruciale per l’Europa stessa: una perfetta posizione intermedia tra l’est, l’occidente e i suoi mari.
Le (non) reazioni della comunità internazionale
Per la prima volta dopo la guerra, il Paese si trova ad affrontare nuovamente i fantasmi del passato. Questa volta però la forte presenza internazionale sul territorio dovrebbe poter garantire un equilibrio di potere non indifferente. Nonostante ciò, per il momento le autorità e i media non hanno garantito sufficiente copertura alla questione. L’unica azione risale a mercoledì scorso: in un comunicato congiunto, gli Stati Uniti e l’Unione Europea hanno espresso preoccupazione per le crescenti retoriche divisive all’interno del Paese. Ne hanno sottolineato l’importanza nel panorama europeo ed hanno spinto ad affinare ulteriormente le politiche per favorire il processo di integrazione all’Unione. A livello locale, qualche mossa è stata portata avanti dalla missione EUFOR. Qualche giorno dopo, infatti, ha deciso di monitorare sia via terra che in elicottero le esercitazioni di polizia svoltesi in Republika Srpska in maniera non annunciata. Le autorità serbe hanno espresso contrarietà nei confronti dell’azione denunciando l’evento come invasivo e inopportuno per la buona riuscita dell’esercitazione. Dall’altra parte i rappresentanti di EUFOR hanno sottolineato la natura stessa della missione: monitorare le attività militari e di polizia per poter fornire un ambiente sicuro e protetto ai cittadini del Paese.
Le lezioni del passato
I conflitti nell’Ex Jugoslavia hanno plasmato un numero considerevole di aspetti sia politici che sociali non solo nella regione bensì a livello internazionale. Memori degli episodi di violenza etnica, è sempre stato estremamente difficoltoso ricreare un senso di fiducia reciproca nella popolazione. Così, la segregazione, in tutta le sue forme, è diventata parola d’ordine della società: intolleranza nei confronti delle memorie collettive, creazioni di partiti politici di base etnica, quartieri separati e istruzione segregata sono solo alcuni degli aspetti che coinvolgono la quotidianità dei bosniaci. La comunità internazionale però ha imparato molto. Il primo nodo è sicuramente l’uso della forza per motivi umanitari: quando in passato si è manifestato un approccio di bassa ingerenza, si è visto che le conseguenze sulla popolazione sono state disastrose. Ad oggi quindi la prospettiva è cambiata: in Bosnia e Erzegovina operano un grande numero di ambasciate, organizzazioni internazionali multilaterali e non-profit oltre a missioni di sicurezza (precedentemente NATO per poi far subentrare le forze europee). Da questo punto di vista, quindi, sono state adottate tutte le misure possibili al fine di contrastare nuove tensioni. Dal lato serbo qualcosa però non è mutato: primo fra tutti l’idea di poter gestire più fronti contemporaneamente. Questa strategia non ha avuto successo all’epoca né può essere proficua questa volta, a maggior ragione ospitando nell’area un numero così sostanzioso di attori esterni. Non più tardi di qualche settimana fa, la Serbia ha vissuto un momento di escalation con il vicino Kosovo: alcune truppe sono state dispiegate al confine contestualmente a dei disordini sociali tra comunità serba e albanese kosovare. Anche in questo caso quindi gestire due situazioni di tensione risulterebbe particolarmente dispendioso oltre che poco credibile agli occhi della comunità internazionale. In particolare, le relazioni con l’Unione Europea e con i suoi Paesi membri potrebbero degenerare notevolmente portando ad un blocco del processo di integrazione oltre che la perdita di preziosi alleati europei. Infine, anche il contesto pandemico gioca il suo ruolo: le risorse economiche sono diminuite e portare avanti situazioni conflittuali di questi tempi risulterebbe molto dispendioso.