Nel pieno dell’emergenza coronavirus fa scalpore la scelta, ancora una volta, di escludere Taiwan da ogni possibilità di partecipare anche in veste di osservatore ai lavori dell’Organizzazione mondiale della sanità. A fronte della mobilitazione dell’intera comunità internazionale, compresa Taiwan con i suoi 23 milioni di abitanti, l’Oms si ostina a seguire il diktat della Cina che non accetta alcuna forma di partecipazione da parte della sua “provincia ribelle” (in realtà uno Stato pienamente sovrano) all’interno delle agenzie del sistema Onu.
Incredibilmente nei giorni scorsi, in una situazione di allarme globale, il delegato cinese presso l’Oms aveva trovato il tempo di affermare che “il governo cinese è molto sincero nel proteggere la salute e il benessere dei compatrioti di Taiwan” e che “Taiwan fa parte della Cina”. Una vicenda clamorosa – e anche molto dolorosa ricordando come nel 2013 Taiwan, anche allora esclusa dalle decisioni dell’Oms, registrò 73 decessi, tra diretti e indiretti, legati alla Sars – che cozza con lo stesso statuto dell’Organizzazione mondiale della sanità il cui fine esplicito, recita l’articolo 1 del suo statuto, è ”portare tutti i popoli al più alto grado possibile di sanità”.
Il paradosso di un Paese che è stato il primo in Asia a implementare un programma di assicurazione sanitaria nazionale con un tasso di copertura del 99,9% della popolazione, eppure escluso dall’Oms, è già di per sé clamoroso. Ormai dal 2017 Taiwan non viene più invitata, per il diktat politico di Pechino, a prendere parte all’Assemblea mondiale della sanità, l’organo in cui vengono decisi gli indirizzi politici dell’Oms. Un inasprimento da parte cinese dopo che – tra il 2009 e il 2016 – Taiwan vi aveva potuto pendere parte in veste di osservatore.
Che questo ostracismo continui tuttora ha dell’incredibile, tanto più alla luce dei dati errati pubblicati dalla stessa Oms sul numero di casi di coronavirus registrati a Taiwan. Lunedì 7 febbraio l’Oms era stata costretta a correggere il proprio rapporto sulla situazione del coronavirus dopo aver erroneamente affermato che c’erano tredici casi a Taiwan. Le autorità sanitarie dell’isola avevano subito corretto il numero registrato fino a qual momento, pari a undici casi. Tanto che nei giorni scorsi il ministro degli Esteri di Taiwan, Joseph Wu, ha criticato l’Organizzazione mondiale della sanità per essersi riferita all’isola come parte della Cina. “@WHO, cosa c’è che non va in te? Per prima cosa ci hai chiamato ‘Taiwan, Cina’, poi sei passata a ‘Taipei’. Hai segnalato in modo errato i casi confermati e ora ci chiami ‘Taipei e dintorni’. Guarda! Taiwan è #Taiwan e non fa parte della #PRC”, ha scritto Wu in un tweet. Come organo delle Nazioni Unite, l’OMS tratta l’isola auto governata come parte della Repubblica Popolare cinese.
E’ positivo quantomeno che negli ultimi giorni ci siano state prese di posizioni significative da parte di esponenti di alcuni tra i più importanti Paesi del mondo. A fronte di posizioni inaccettabili da parte della Cina, Andrew Bremberg, ambasciatore degli Stati Uniti presso l’Onu a Ginevra, ha dichiarato al consiglio di amministrazione dell’Oms che l’Agenzia dovrebbe trattare direttamente con le autorità di Taiwan. “È un imperativo tecnico che l’Oms presenti dati sulla salute pubblica su Taiwan come area interessata e interagisca direttamente con le autorità di salute pubblica di Taiwan sulle azioni da compiere”, ha aggiunto. Anche il Giappone, il cui primo ministro Shinzo Abe in persona aveva in precedenza auspicato un coinvolgimento diretto di Taiwan sulla gestione dell’emergenza coronavirus, si è esposto. Il rappresentante diplomatico a Ginevra, Ken Okaniwa, ha dichiarato: “Non dovremmo creare un vuoto geografico portando a una situazione nella quale una regione specifica non possa aderire all’Oms nemmeno come osservatore”.