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Svolta autoritaria e ambiguità internazionali: la Turchia dopo il golpe militare

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Il fallito golpe militare in Turchia ha dato il via ad una crisi epocale alle porte dell’Europa, connotata da una forte instabilità politica e scenari preoccupanti, soprattutto alla luce della repressione di Erdogan nei confronti di golpisti o presunti tali, delle forze più vicine all’ex alleato Fethullah Gülen, degli esponenti della società civile e non solo. Su questi eventi, inscritti nel più ampio contesto mediorientale, abbiamo intervistato il professor Antonello Folco Biagini, ordinario di Storia dell’Europa Orientale presso La Sapienza di Roma e autore del volume “Storia della Turchia contemporanea”, edito dalla Bompiani.

 

Professore, visto che in Italia è stato per giorni un argomento di dibattito, come si schiera sulla questione del golpe o del finto golpe?
Sono contrario agli schieramenti, perché quando si ragiona su temi di grande importanza politica e strategica il punto non sono le opinioni: bisogna capire quello che avviene e che cosa può essere successo. Che il golpe ci sia stato è fuor di dubbio. Ed è ragionevole pensare che sia nato proprio dal fatto che qualcuno era venuto a conoscenza delle liste di proscrizione che l’apparato di Erdogan aveva già preparato. È stato l’ultimo tentativo dell’Esercito di non essere colpito dalle epurazioni che erano state già previste. Certo, non parliamo tanto dei soldati, quanto piuttosto dei gruppi dirigenti. Anche perché la reazione dei militari “di truppa” è stata flebile, quasi inesistente, soprattutto se la confrontiamo con la piazza mobilitata da Erdogan in così breve tempo. Anche quest’ultimo punto, tra l’altro, fa pensare che qualcosa, nell’aria, ci fosse già e che ci sia stata una preparazione anche nella reazione. Quindi, in realtà, il golpe è stato l’evento scatenante di dinamiche che vanno avanti almeno dal 2013, da quando cioè Erdogan ha cambiato linea politica, sia per quanto riguarda la politica interna che quella estera.

 

Parlando dell’evoluzione della politica di Erdogan, come si è arrivati a questo “accerchiamento”, e alla conseguente “sindrome di accerchiamento”, dei militari?
La Turchia ha fatto grandi passi in avanti, compiuti anche precedentemente, ma compiuti soprattutto nel decennio che va dal 2002 al 2012. Sono state compiute molte riforme per soddisfare i requisiti per l’adesione all’Unione Europea, e quindi anche molte cose che potremmo definire positive. Soprattutto riforme economiche, come le privatizzazioni dell’apparato industriale, che nei decenni passati era quasi del tutto in mano allo Stato. Ma si potrebbero citare altre azioni politiche importanti, come l’implementazione del sistema sanitario, la realizzazione di grandi opere pubbliche, forme di redistribuzione della ricchezza. La classe dirigente turca stava effettivamente compiendo una serie di riforme, in termini formali, e quindi anche sostanziali, studiate molto bene e razionali. Tutte azioni politiche che hanno garantito ad Erdogan un forte sostegno popolare. Poi, dal 2013, con il cambiamento del contesto internazionale, quella politica “neo-ottomana” che già si prefigurava negli anni precedenti ha avuto indubbiamente maggiore spazio. Questo perché Erdogan e il suo gruppo dirigente hanno capito che potevano avere un ruolo decisivo nel successivo ristabilirsi degli equilibri politici del Grande Medio Oriente. Un ruolo che, anche se non è una novità della politica turca, Erdogan ha cercato di costruire portando avanti più politiche contemporaneamente. Ad esempio, ha cercato di sistemare il conflitto con i curdi con la scusa di fare la guerra al Daesh, ma allo stesso tempo sono anni che si hanno notizie di complicità tra il governo turco e lo stesso Stato Islamico.
Una politica ambigua che inoltre è stata portata avanti in un contesto internazionale altrettanto ambiguo. Un contesto nel quale gli Stati Uniti e i paesi dell’Unione Europe hanno chiuso un occhio, ma forse anche due, di fronte a quello che stava accadendo da anni in Turchia: i primi perché questo paese è il fulcro del sistema NATO in quella regione; i secondi perché, con l’accordo sull’immigrazione dalle zone di guerra con Erdogan e la promessa di tre miliardi di euro, hanno tentato di risolvere un problema che non sono riusciti a risolvere da soli. Senza contare poi le responsabilità dell’Occidente nell’aver contribuito complicare il quadro mediorientale, con scelte discutibili, se non proprio sbagliate, come la guerra del 2003 in Iraq. Un quadro che chiaramente ha influito sulla situazione turca. Per cui, questo insieme di elementi ha probabilmente convinto Erdogan e il suo gruppo dirigente che potessero aspirare a un ruolo più importante sullo scacchiere internazionale, e che si potesse mettere sempre più in un angolo il vecchio establishment, e quindi parte dell’Esercito, che ha reagito con il fallito golpe.

 

Per quanto frutto di lunghe dinamiche politiche, oggi comunque assistiamo a un salto di qualità…
È indubbio che dopo il golpe la situazione si è fatta molto più grave, soprattutto da quando è stata sospesa la Convenzione europea sui diritti umani. Basta seguire le cronache di questi giorni per vedere come ci siano arresti e forme di repressione che, per quanto il Ministro della Giustizia e il Ministro degli Interni turchi affermino il contrario, trovo difficile che si possano definire compatibili con lo Stato di diritto. Ma si tratta di un salto di qualità che riguarda processi di lungo corso anche sul piano interno. Sono anni che Erdogan tenta di portare a compimento una riforma costituzionale che trasformi a tutti gli effetti, e non più solo di fatto, la Turchia in una Repubblica Presidenziale. Ed è immaginabile che questo tentativo di golpe, secondo il suo punto di vista, faciliterà il raggiungimento di questo obiettivo. Non per niente in questi giorni ha colpito in maniera particolarmente dura la magistratura, che ha sempre cercato di far rispettare i dettami della Costituzione ancora in vigore, cioè quella di Kemal Atatürk, che prevede un sistema di tipo parlamentare. E non è un caso il tentativo di attribuire la paternità del golpe a Fethullah Gülen: perché, per quanto quest’ultimo sia stato tra gli ideatori insieme ad Erdogan di un partito di ispirazione religiosa – cioè l’Akp, il partito guidato dallo stesso Erdogan -, Gülen ha sempre pensato che questo partito dovesse agire all’interno di del sistema istituzionale previsto dalla Costituzione di Atatürk. Quindi si tratta di una svolta che potrebbe essere epocale. C’è il serio rischio che si passi da un modello di Repubblica parlamentare laica a un Repubblica presidenziale dai forti connotati religiosi. Il tutto in un paese nel quale, come già accennato, è stata sospesa ufficialmente la Convenzione europea sui diritti dell’uomo, senza particolari reazioni da parte di vari organismi internazionali. Da quel che sappiamo, tutto tace. E la cosa è piuttosto preoccupante.

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