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Sviluppo economico e lotta al cambiamento climatico: i carbon credit e il caso del Kenya

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Lo scorso 8 novembre, durante la COP27, alcuni leader africani, affiancati da imprenditori ed esperti nel mondo del carbon trading hanno annunciato la creazione della Africa Carbon Market Initiative (ACMI). L’obiettivo è quello di ampliare l’attuale mercato africano dei carbon credits (CC) al fine di renderlo una risorsa per la creazione di posti di lavoro, lo sviluppo sostenibile delle comunità locali e la lotta al cambiamento climatico. Il progetto è stato accolto positivamente da Mahmoud Mohieldin – UN Climate Change High Level Champions e dalla UN Economic Commission for Africa. Nonostante il mercato volontario dei CC non sia ancora sfruttato appieno, alcuni Paesi, tra cui il Kenya, attingono da anni a questa nuova risorsa economica, mostrandone possibilità e criticità.

Articolo precedentemente pubblicato nell’ultimo numero di Prisma Africano, la newsletter del Centro Studi Geopolitica.info dedicata all’Africa Subsahariana. Iscriviti qui!

Il mercato dei carbon credit

L’interesse verso il carbon trading è emerso relativamente di recente. Si fa menzione per la prima volta di impiegarli a livello internazionale nel Protocollo di Kyoto del 1997 e da allora i mercati di scambio emissioni (Emission Trading Systems – ETSs) sono cresciuti costantemente anche grazie agli Accordi di Parigi.

Un CC corrisponde a una tonnellata di Co2 che un individuo, una comunità o un’azienda trattiene dall’atmosfera grazie ad azioni sostenibili come l’utilizzo di energie rinnovabili o il rimboschimento. Si genera così un credito che viene poi venduto ad aziende – solitamente nel Global North oppure in Cina o India – che di fatto pagano per compensare le loro emissioni.

Ad oggi esistono due tipi di mercati di CC:

  • Un mercato regolato a livello statale o regionale in cui solitamente i CC vengono generati dalle aziende per sottostare a parametri ambientali imposti dai governi locali per la riduzione delle emissioni. Queste sono chiamate cap-and-trade regulations.
  • La seconda opzione, quella più diffusa, coinvolge la compravendita all’interno di un mercato volontario di CC prodotti da progetti locali finanziati da investitori privati, governi nazionali e ONG. 

Tuttavia, la creazione di un CC non è immediata: possono passare anni prima che a un progetto venga riconosciuta la paternità di un CC e che ne venga consentita la vendita secondo un iter che prevede la stipula di un progetto che dovrà poi essere revisionato, validato e certificato da un’agenzia indipendente secondo determinati standard; il credito verrà dunque generato solo sulla base di risultati concreti per poi essere venduto dal proprietario ad agenzie di trading e broker oppure direttamente all’azienda o all’ente interessato. Una volta venduto, il CC viene dismesso e va in retirement.

Nel 2021 il 26% dei CC sono stati dismessi in Africa e sono stati generati da 5 Paesi (Kenya, RDC, Zimbabwe, Uganda e Sud Africa) per un totale di quasi 6 milioni di tonnellate di Co2.

Il caso del Kenya

Il Kenya rientra tra i maggiori esportatori di CC all’interno del mercato volontario Africano, concentrandosi soprattutto sulla riduzione dell’impatto ambientale del settore agricolo tramite l’implementazione di colture più resilienti e che richiedessero un minor impiego di fertilizzanti, accompagnato da metodi per la preservazione dell’hummus organico del suolo. Fondamentali sono state anche le opere di rimboschimento delle savane e la rigenerazione di interi ecosistemi di cui hanno beneficiato non solo le comunità locali, ma anche la flora e la fauna circostanti.

Due progetti rappresentativi sono il Mikoko Pamoja, una iniziativa volta alla conservazione delle foreste di mangrovie e alla generazione dei primi CC blue del continente, e il Kasigau Wildlife Corridor: iniziato come progetto per il rimboschimento della savana e la creazione di un “corridoio verde” per il passaggio degli elefanti è diventato un esempio di come la salvaguardia degli habitat possa coniugarsi con lo sviluppo sostenibile delle comunità locali, creando posti di lavoro e reinvestendo i profitti in servizi come scuole e acqua pulita.

Quella dei CC potrebbe presto diventare uno degli export primari del Paese che, di questo passo, genererebbe fino a $600 milioni annui nel 2030 grazie al mercato volontario, tuttavia anche il Kenya, in linea con gli altri Paesi del continente, dovrà prima risolvere alcune problematiche come la mancanza di diversificazione nei progetti, la totale dipendenza dalle agenzie straniere per la valutazione delle iniziative, la mancanza di regolamentazioni regionali oppure il rischio di speculazione da parte dei broker di CC. Queste e altre criticità rientrano nell’agenda 2050 dell’ACMI di cui farà parte anche il Kenya.

Un altro aspetto da considerare quando si analizza l’impatto di questi progetti riguarda le comunità coinvolte. Oltre ai contesti virtuosi come quelli descritti sopra in cui il ritorno economico per la comunità corrisponde a quasi il 100% del valore di vendita del CC, esistono anche casi in cui non viene rispettata la local ownership e le popolazioni non sono debitamente informate sulla natura del progetto e soprattutto sui possibili guadagni, restando così esposte alla speculazione e venendo costretti a vendere secondo prezzi non in linea con gli andamenti di mercato. Un’altra criticità è data dalla lentezza dei pagamenti. Alcuni studiosi ritengono che questa narrativa del “win-win” non serva altro che a mascherare lo sfruttamento del Global North verso un Global South impossibilitato a industrializzarsi per non inquinare, ma allo stesso tempo costretto a cogliere opportunità economiche legate alla compensazione delle emissioni dei Paesi più sviluppati e deprivi, così, i Paesi in via di sviluppo dei propri carbon rights.

Infine, un’ultima considerazione riguarda il trattamento riservato alle popolazioni indigene. È dimostrato, infatti, che la lotta al cambiamento climatico e il rispetto dei diritti umani non vadano necessariamente di pari passo. Il caso delle popolazioni Samburu, Borana e Rendille del Kenya settentrionale le vede costrette ad abbandonare i metodi tradizionali di pastorizia e coltivazione in favore di meccanismi più moderni e volti all’esportazione, senza però ottenere nessun tipo di compensazione o beneficio economico dalle attività di mitigazione ambientale.

Conclusioni

Sono ancora numerosi gli ostacoli che il Paese deve superare per raggiungere un pieno sviluppo del mercato dei CC. Ad esempio il varo di una vera e propria strategia nazionale per aumentare e diversificare la creazione di CC potrebbe attirare maggiori finanziamenti esteri, ma allo stesso tempo si dovrebbe tutelare appieno le comunità facendo sì che siano loro a beneficiare di queste politiche e che si rispettino i metodi di sussistenza delle tribù locali senza sradicarne le tradizioni in nome del profitto. Un altro punto chiave riguarda la cooperazione coi partner africani: verosimilmente il mercato dei CC è destinato ad espandersi coinvolgendo sempre più Paesi e in tale contesto il Kenya, assieme ai maggiori esportatori di CC del continente, potrebbe spingere per l’istituzione di regole comuni o la creazione di broker africani in seno all’Unione Africana o alle altre organizzazioni regionali rendendo più agile la creazione di CC e le transazioni nel mercato volontario.

L’ultimo rischio è quello di un possibile sfruttamento da parte del Global North nei confronti del Global South costringendolo non solo a diventare una miniera di CC per compensare le emissioni delle aziende dei Paesi industrializzati ma anche a subirne gli effetti negativi sull’ambiente.

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