Risale a qualche giorno fa il summit virtuale tra i presidenti di Stati Uniti e Cina dopo le tensioni sempre più crescenti tra i due paesi, in particolare per la questione di Taiwan. Sebbene Biden e Xi Jinping abbiano voluto mettere l’accento su aspetti come la cooperazione e la volontà di non farsi la guerra reciproca, l’intenzione a collaborare sembra una mera parvenza di distensione, dietro ai sorrisi e alla cortesia si celano infatti fratture non affatto risolte.
Il summit virtuale
Il 15 novembre, il presidente cinese Xi Jinping e il presidente statunitense Joe Biden hanno tenuto il loro primo incontro bilaterale dopo l’elezione di quest’ultimo alla Casa Bianca, attraverso un summit virtuale durato circa tre ore. Particolare in questo contesto è stato l’utilizzo da parte del leader cinese dell’espressione “vecchio amico” (老朋友) nei confronti di Biden, che appare più come una provocazione che come un gesto d’affetto. La conoscenza fra i due risale infatti al 2011, quando entrambi erano i vicepresidenti, ma parlare di amicizia fra i due sembra eccessivo, come più volte ha sottolineato Biden, soprattutto alla luce delle numerose tensioni che tutt’ora permangono fra i due paesi. Tre sono state le principali questioni su cui si sono focalizzati i due leader: la competizione economica, la questione di Taiwan e i diritti umani. E se Xi Jinping ha invitato Biden a riportare le relazioni economiche e politiche tra i due paesi su un binario razionale e pragmatico basato sul rispetto reciproco, la pacifica convivenza e la cooperazione vantaggiosa per entrambe le parti, Biden ha espresso preoccupazioni per la situazione dei diritti umani a Hong Kong, nello Xinjiang e in Tibet, sottolineando la necessità di proteggere i lavoratori e le imprese americane da pratiche commerciali “inique ed ingiuste”. Più spinosa si è confermata essere la questione di Taiwan, nei confronti della quale Biden ha espresso la volontà e la necessità di opporsi fortemente ad ogni tentativo di modificarne lo status quo, minandone la pace e la sicurezza. Non è mancata poi la risposta puntuale del presidente cinese che ha evidenziato come gli Stati Uniti siano interessati a controllare la Cina attraverso Taiwan, obiettivo che porterebbe il suo paese a adottare misure decisive.
Dinnanzi a questo clima di buoni propositi, fortemente astratti, rimangono le spaccature fra Washington e Pechino che si fanno sempre più concrete. Nonostante le parole di cortesia e i sorrisi di intesa scambiati, le questioni che più interessano i leader e che sono strategiche per i due paesi, non sono state affatto oggetto di un accordo sostanziale. Da un lato, la Cina continuerà pertanto a portare avanti il proprio progetto di creare “una sola Cina” e questo anche – e soprattutto – a discapito dell’indipendenza di Taiwan. Dall’altro, gli Stati Uniti si batteranno per mantenere l’Indo-Pacifico “libero e aperto” anche con l’ausilio di un forte sistema di alleanze militari che ricomprende, per la loro posizione strategica, l’Australia e il Giappone.
Le fratture non risanate
A conferma della scarsa valenza sul piano sostanziale del summit tra i due leader, l’amministrazione Biden ha proceduto ad invitare Taiwan alla prima conferenza sulla democrazia prevista il 9-10 dicembre a Washington. La presenza di Taiwan, strategica, al fine di confermare e suggellare la vicinanza diplomatica e militare tra i due paesi, ha chiaramente irritato la Cina che in occasione del summit online con Biden aveva già avvertito gli USA di non “giocare col fuoco”. La conferenza sulla democrazia, che si svolgerà online, più che una discussione concreta sulla realizzazione degli standard democratici, sembrerebbe volta a confermare le alleanze dei satelliti europei e asiatici dell’America per coordinare il contenimento della Cina. Non a caso tra i 110 invitati, che comprendono rappresentanti governativi e società civile, grande assente sarà la Cina, gigante che gli USA cercano di arginare dallo scacchiere globale, utilizzando la medesima strategia riserbata alla Russia. A confermare la scelta di preferire un criterio strategico, piuttosto che ideologico sono gli inviti alla Polonia, al Brasile e al Pakistan, quest’ultimo fondamentale per la sua posizione, che permetterebbe a Washington di proteggere il confine occidentale e avere un corridoio verso l’Oceano Indiano. Grandi assenti invece la Turchia, l’Ungheria e la Tunisia. La prima, alla luce della rivalità latente con gli Stati Uniti; le ultime due a causa della vicinanza alla Cina, che ha portato la Turchia a spingersi verso la possibilità di una futura collaborazione militare con il Gigante Giallo, oltre che in ambito medico e umanitario.
Non sorprende pertanto che – alla luce delle alleanze create dagli USA, incluso il recente patto AUKUS concluso con Australia e Regno Unito – la Cina abbia annunciato numerosi progetti economici per le nazioni del Sud-Est asiatico, ricomprese all’interno dell’Asean. Con questi paesi Pechino si è impegnata ad importare nei prossimi cinque anni prodotti agricoli per un totale di 150 miliardi di dollari. Ha anche assicurato assistenza allo sviluppo per una crescita post-pandemica e collaborazione nel campo della scienza, della tecnologia e dell’innovazione, attraverso lo scambio accademico per giovani scienziati e la fornitura di un migliaio di dispositivi tecnologici cinesi. Alla luce di ciò non sembra affatto terminata la competizione commerciale tra Stati Uniti e Cina, così come il sistema di alleanze cinese sembra una chiara risposta alla tattica di contenimento promossa da Biden. Sistema di alleanze che tuttavia sembra rimanere strategico solo dal punto di vista economico, dato che i paesi dell’Asean temono l’ascesa militare della Cina nell’Indo-Pacifico e pertanto preferiscono ripiegare sul sistema di alleanze statunitense.
Un nuovo fronte
Nel frattempo, sembra essersi aperto un nuovo fronte di tensioni che sta portando ad uno scontro aperto tra Stati Uniti e Cina, uno scontro geopolitico in ambito spaziale. Secondo quanto riportato dal Financial Times, ad agosto scorso la Repubblica Popolare Cinese avrebbe realizzato il collaudo di un missile ipersonico in grado di montare a bordo testate nucleari. Quest’ultimo avrebbe solcato l’orbita bassa attorno alla Terra prima di mancare di circa 40 chilometri il bersaglio, cadendo infine nel Mar Cinese Meridionale. Il quotidiano britannico ha poi aggiunto che né gli Stati Uniti né la Russia avrebbero dimostrato la capacità di gestire un vettore sganciato da un veicolo che viaggia alla velocità di 5 volte la velocità del suono, che preoccupa, data la difficoltà di intercettarlo. Questo risultato tecnologico porrebbe pertanto in allarme gli esperti statunitensi, non ancora in grado di stabilire come la Cina abbia potuto raggiungere un simile risultato, considerato tecnologicamente irrealizzabile. Il missile cinese sembra pertanto inasprire ulteriormente le relazioni già tese tra le due potenze, garantendo alla Cina un importante vantaggio nella lotta nel Mar Cinese Meridionale. Non è da escludere tuttavia che la notizia non sia stata fatta trapelare ad hoc per giustificare un possibile intervento statunitense nell’Indo-Pacifico e non è un caso che gli Stati Uniti abbiano avviato la prima missione volta a deviare un asteroide a grande distanza dalla Terra, che permetterebbe di sviluppare quelle tecnologie capaci di neutralizzare un satellite artificiale in orbita geospaziale. A differenza quindi di quanto rappresentato dal summit virtuale tra Biden e Xi Jinping, la partita di Taiwan non è affatto chiusa, i sorrisi dei leader celano infatti chiari obiettivi confliggenti.