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Summit of the Americas: luci (poche) e ombre (molte) del vertice di Los Angeles

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Si è tenuto a Los Angeles dal 6 al 10 giugno l’atteso incontro tra i presidenti dell’emisfero occidentale. Washington ha visto nel vertice un’opportunità per rilanciare il dialogo con la regione, ma le polemiche legate all’assenza di vari leader latinoamericani hanno oscurato i temi al centro del dibattito

Sono passati ventotto anni dal primo vertice delle Americhe, un incontro allora fortemente voluto dall’amministrazione Clinton per suggellare una fase di particolare armonia e convergenza nei rapporti interamericani. Si era negli anni post-guerra fredda, al termine della stagione dei regimi militari latinoamericani, nell’epoca del Washington Consensus. Da quel primo vertice del 1994 a Miami, nacque il progetto dell’Area di libero scambio delle Americhe (Free Trade Area of the Americas) e furono alimentate grandi aspettative su un nuovo e diverso capitolo delle relazioni tra Stati Uniti e America Latina. Aspettative che sono state però in gran parte disattese: nel corso degli ultimi due decenni, le strade di Washington e del resto della regione si sono allontanate sempre di più, e proprio i successivi summit emisferici – sempre più irrilevanti e conflittuali – ne sono stati chiara testimonianza. In particolare, l’ottavo vertice (tenutosi nel 2018 a Lima) ha rappresentato il momento più basso di questa già declinante traiettoria storica: l’assenza di Donald Trump – primo presidente USA a non prender parte all’evento – sembrava essere la pietra tombale su questo foro.

Lo “spirito di Miami” (l’espressione utilizzata per ricordare il clima particolarmente collaborativo del primo vertice) è già da tempo una pagina chiusa dei rapporti interamericani, superata dagli sviluppi politici interni ai paesi della regione, dal disinteresse delle classi dirigenti statunitensi per questo quadrante strategico, così come dalle più vaste trasformazioni avvenute sul piano internazionale. Quando nel gennaio di quest’anno Washington ha confermato che il vertice si sarebbe tenuto nuovamente in territorio statunitense, dunque, le perplessità – dovute ai recenti trascorsi – hanno di gran lunga sovrastato i buoni propositi dell’amministrazione Biden. 

In particolare, con l’approssimarsi del summit, a farla da padrone è stata la discussione sugli inviti e le partecipazioni dei diversi presidenti latinoamericani. Si tratta di un tema controverso, che già in passato era stato sollevato con riferimento al caso di Cuba che, con l’eccezione del 2015, non ha mai preso parte ai summit emisferici. Oltre Cuba, però, la Casa Bianca ha deciso di escludere anche Venezuela e Nicaragua. Sebbene non siano stati rilasciati commenti ufficiali, dietro la decisione statunitense ci sarebbe stata la volontà di fare del principio democratico il criterio imprescindibile per la partecipazione al vertice e di escludere quindi i regimi autoritari della regione. D’altra parte, nel discorso di apertura dell’incontro, Biden ha posto l’accento proprio sulla democrazia e sull’identificazione delle Americhe come comunità di stati democratici riuniti dalla Inter-American Democratic Charter

La posizione di Washington ha suscitato aspre reazioni. La più plateale è stata senza dubbio quella del presidente Lopez Obrador, che non ha preso parte al vertice, sottolineando che la partecipazione al summit dovrebbe essere aperta a tutti gli stati americani e non soggetta alla valutazione arbitraria degli Stati Uniti. Diversi osservatori hanno inoltre rimarcato il grado di flessibilità con cui Washington sembra applicare il criterio democratico nella conduzione dei rapporti internazionali, rigido con i paesi latinoamericani e apparentemente molto più flessibile nell’interazione con i partner strategici extra-regionali (il probabile viaggio di Biden in Arabia Saudita, in particolare, è stato ripetutamente menzionato come prova dell’ambiguità statunitense). Infine, e al di là delle motivazioni addotte da una parte e dall’altra, il tema delle assenze all’incontro di Los Angeles è stato ricollegato al più ampio dibattito sul declino dell’influenza statunitense e sull’ascesa cinese nella regione.

Chi c’era?

Oltre alle assenze già annunciate di Venezuela, Cuba, Nicaragua e Messico, ci sono state altre importanti defezioni. Tra queste, quella del presidente boliviano Luis Arce, anche lui in protesta contro le esclusioni decise da Washington. Altra assenza significativa è stata quella della neoeletta presidente Xiomara Castro. Nonostante il viaggio della vicepresidente Harris in Honduras, infatti, Castro si è unita al coro di proteste per il mancato invito di Venezuela, Cuba e Nicaragua, e ha deciso di non prender parte direttamente al summit (a cui ha partecipato solo il ministro degli esteri). Infine, né il presidente guatemalteco Alejandro Giammattei né quello salvadoregno Nayib Bukele, nonostante le pressioni della Casa Bianca, hanno partecipato al vertice.

Si è trattato di un duro colpo per l’amministrazione Biden, che intendeva fare del summit un’occasione di dialogo sul tema dell’immigrazione, questione di estrema rilevanza per le dinamiche politiche interne statunitensi. Kamala Harris ha infatti lanciato il programma Central American Service Corps (CASC), per un valore di circa 50 milioni di dollari, volto a creare opportunità di formazione e lavoro per i giovani cittadini del Triangolo Norte, ed annunciato un nuovo pacchetto di investimenti privati da quasi due miliardi destinato ai paesi centroamericani, parte della Call to Action lanciata nel maggio 2021 per contrastare alla radice il fenomeno dell’immigrazione illegale. Senza la partecipazione dei presidenti del cosiddetto Triangolo Norte (appunto Guatemala, Honduras, El Salvador) e del Messico, la discussione è stata però molto meno significativa e il valore delle iniziative annunciate inevitabilmente ridotto.

Per quel che riguarda l’area sudamericana, oltre alle assenze di Bolivia e Venezuela, si è fatta notare anche quella del presidente uruguayano Lacalle Pou, che ha dovuto disdire a causa della positività al covid-19. Non sono mancati invece i leader di Argentina e Brasile, nonostante le incertezze degli ultimi mesi. Il presidente argentino aveva espresso dubbi sulla partecipazione viste le esclusioni decise dagli USA, ma ha infine confermato la sua presenza dopo aver ricevuto rassicurazioni dalla Casa Bianca su un ulteriore incontro bilaterale da tenersi a Washington nel mese di luglio. A riprova della sua posizione critica, però, Fernández nel suo intervento ha affermato che “essere la nazione ospitante del summit non dovrebbe garantire il diritto di decidere l’ammissione degli altri paesi”. Riguardo al presidente brasiliano Jair Bolsonaro, la Casa Bianca si è trovata in una situazione paradossale. Da un lato, Bolsonaro nei mesi passati non aveva nascosto il suo supporto per Trump, aveva bollato l’elezione di Biden come illegittima e ripetutamente minacciato di non accettare il risultato delle prossime elezioni brasiliane in caso di sconfitta (mettendo in dubbio la trasparenza delle istituzioni elettorali nazionali). Posizioni ricevute con comprensibile disappunto a Washington. Dall’altro lato, la mancata partecipazione brasiliana – che pure era stata ventilata da Bolsonaro – avrebbe ulteriormente ridotto l’importanza del summit; vista l’assenza messicana, senza il Brasile il vertice non avrebbe potuto infatti contare sui due più grandi paesi della regione dopo gli Stati Uniti. L’incontro tanto temuto da entrambe le parti alla fine c’è stato, ma non senza imbarazzi reciproci (soprattutto sul tema della protezione dell’Amazzonia, che Biden ha definito di “responsabilità internazionale” mentre Bolsonaro ha affermato che i brasiliani si sentono “minacciati nella loro sovranità su quella regione del Paese”). 

Altre presenze significative sono state quelle del presidente cileno Gabriel Boric, che ha ricevuto grandi attenzioni da parte della stampa statunitense, e del presidente colombiano Ivan Duque, in prima fila e al fianco di Biden durante la cerimonia inaugurale, messaggio simbolico dell’importanza del rapporto bilaterale tra i due Paesi (soprattutto in vista del ballottaggio in Colombia del prossimo 19 giugno).

Risultati e questioni irrisolte

Oltre a quelle già menzionate e rivolte alla regione centroamericana, le iniziative annunciate nel corso del vertice sono state diverse. Ad esempio, gli USA hanno lanciato l’Action Plan on Health and Resilience in the Americas, un piano dedicato alla prevenzione delle future pandemie e al rafforzamento dei sistemi sanitari nazionali. Kamala Harris ha anche annunciato l’inizio della U.S.-Caribbean Partnership to Address the Climate Crisis 2030 (PACC 2030), che intende creare una cornice legislativa per la cooperazione tra Washington e i paesi caraibici sul tema del cambiamento climatico e della sicurezza energetica. Inoltre, la Casa Bianca è riuscita nel suo intento di far sottoscrivere ai partecipanti al vertice – in particolare ai rappresentanti dei Pesi centroamericani – una nuova dichiarazione sul tema dell’immigrazione. Rinominata Los Angeles Declaration on Migration and Protection, la dichiarazione consiste nel rinnovato impegno a gestire su base multilaterale i flussi migratori della regione, attraverso l’aumento dei finanziamenti ai paesi di origine, la definizione di nuovi meccanismi per la protezione temporanea e i permessi lavorativi, l’efficientamento delle procedure per le richieste d’asilo. 

Infine, nel discorso inaugurale del summit, Biden ha annunciato l’Americas Partnership for Economic Prosperity, che in parte richiama l’Indo-Pacific Economic Framework, lanciato un mese fa a Tokyo. Si tratta di un’iniziativa basata su cinque pilastri: rafforzamento delle istituzioni economiche regionali (la Inter-American Development Bank, in particolare) e mobilitazione di capitali privati diretti alla regione; miglioramento, diversificazione e bilanciamento delle catene produttive nella regione; miglioramento delle condizioni di vita tramite investimenti nel settore – tra gli altri – della salute, dell’istruzione, dell’anticorruzione; creazione di posti di lavoro nel settore delle energie pulite, avanzamento della decarbonizzazione, protezione della biodiversità; promozione di pratiche commerciale sostenibili, trasparenti, inclusive.

Sulla carta, il progetto statunitense risulta essere particolarmente ambizioso e, potenzialmente, di grande interesse per buona parte della regione. Tuttavia, pochi dettagli sono stati forniti sul tipo di impegno che gli Stati Uniti sono disposti a profondere nell’iniziativa; al vertice, infatti, non si è accennato né alle cifre da investire né ai meccanismi necessari all’implementazione del progetto. Dunque, quanto il nuovo schema proposto da Washington abbia da offrire ai vicini latinoamericani non è ancora chiaro; l’obiettivo statunitense è quello di verificare l’interesse e raccogliere le adesioni dei Paesi latinoamericani nel corso dei prossimi mesi, per poi fissare un primo incontro ufficiale – da tenersi probabilmente nel prossimo autunno. 

Le reazioni iniziali sono state apparentemente positive. Basti pensare che il Messico, nonostante le polemiche sollevate da Lopez Obrador, è stato tra i primi ad annunciare la sua adesione – a testimoniare che, al di là della retorica, Città del Messico non può rinunciare alla relazione con Washington. Lo scetticismo però è ancora alto, soprattutto considerando che, per raggiungere l’obiettivo (non dichiarato) di limitare l’avanzata di Pechino nella regione, l’impegno finanziario da parte di Washington dovrà necessariamente essere massiccio, visto che per molti Paesi latinoamericani il partner asiatico è divenuto oramai imprescindibile.

Complessivamente, dunque, il vertice ha deluso le aspettative e confermato la recente e poco felice tradizione degli incontri interamericani tenutisi negli ultimi due decenni. In questa occasione, Washington ha effettivamente tentato di tornare al tavolo del dialogo dopo la parentesi Trump, ma si è improvvisamente accorta che gran parte della regione non era più lì ad attenderla. Il summit è prova ulteriore di quanto l’emisfero sia diviso e della difficoltà di definire un’agenda comune, nonostante le sfide collettive (flussi migratori, narcotraffico, emergenza climatica, ma anche l’arretramento delle istituzioni democratiche) non manchino. Tali difficoltà possono essere certamente ricollegate al declino dell’influenza statunitense, alla difficoltà di reperire le risorse finanziarie necessarie per rilanciare la propria presenza nell’area, alla traballante leadership politica di Washington. Soprattutto, può essere imputato agli USA lo scarso interesse mostrato per l’area nel corso degli anni e la mancanza di una politica di engagement coerente e adatta alle diverse realtà dei Paesi latinoamericani, che hanno rimproverato costantemente a Washington questo deficit di attenzione e sensibilità. Allo stesso tempo, però, mai come oggi la regione latinoamericana (con rare eccezioni) sembra essere frammentata, priva di leader in grado di riunire e rappresentare le istanze dell’intera area, internamente scossa dalle crescenti difficoltà economiche e da preoccupanti spinte autoritarie. 

Per tutte queste ragioni, il rilancio del dialogo tra le varie anime dell’emisfero occidentale negli anni a venire sarà impresa tutt’altro che semplice. 

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