Alla fine del 2020 gli Stati Uniti hanno definitivamente rimosso il Sudan dalla propria lista nera, misura che dovrebbe mettere in moto la ripresa del Paese africano ma che ha imposto anche diverse condizionalità, prima tra tutte la normalizzazione delle relazioni con Israele. L’instabilità del governo transitorio e (soprattutto) la grave crisi economica sono i principali propulsori dell’impegno del Sudan per reinserirsi appieno nella società internazionale.
A dicembre si è celebrato il secondo anniversario dell’inizio della rivoluzione che ha unito il popolo sudanese e ha messo fine al regime autoritario trentennale di Omar al-Bashir. Nell’estate 2019, un’alleanza tra il Consiglio Militare di Transizione e le Forze dell’alleanza per la Libertà e il Cambiamento (una colazione politica molto eterogenea) ha inaugurato un periodo di transizione di 39 mesi. Attualmente il Consiglio Sovrano, il risultato istituzionale dell’intesa, agisce come Capo di Stato con l’obiettivo di attuare la transizione democratica secondo i principi di giustizia, pace e libertà invocati dalla rivoluzione. La situazione politica e, soprattutto, socioeconomica nel Paese tuttavia resta ancora oggi fragile, come testimoniato dalle proteste che regolarmente sollecitano il processo di riforme e lamentato situazioni di grave disagio. Khartoum spera dunque che il riavvicinamento agli Stati Uniti, per nulla scontato nonostante le preparazioni vadano avanti da diversi anni, porti fondi e stabilità.
Instabilità politica, economica e umanitaria
La rimozione di Al-Bashir ha segnato la fine della dittatura, ma non ha sanato i problemi politici del Paese, introducendo anzi alcuni nuovi elementi di instabilità. Da un lato, il governo attuale sottolinea come il periodo di transizione sia volto all’instaurazione di una democrazia parlamentare. Permane tuttavia la preoccupazione che le riforme siano una facciata sotto la quale il potere viene ritenuto dall’apparato di sicurezza. Strutture militari e paramilitari dominano infatti il governo di transizione, e due delle figure attualmente più influenti, il Presidente del Consiglio Militare di Transizione al-Bourhan ed il vicepresidente del Consiglio di Sovranità Transitorio e leader delle Forze di Supporto Rapido (RSF) noto come ‘Hemedti’, sono accusate di abusi di diritti umani (e la legittimazione derivante dalla loro alleanza con forze politiche civili è solamente parziale). Le proteste quest’anno hanno quindi continuato a denunciare il mancato smantellamento del ‘deep state’ sudanese. Non si tratta tuttavia di uno scontro tra forze nettamente divise tra il fronte democratico civile e quello militare e/o islamista, a causa dell’ingerenza di attori esterni e della convergenza di interessi tra i diversi gruppi – o delle divergenze al loro interno. Per esempio, le Forze dell’alleanza per la Libertà e il Cambiamento sono un fronte estremamente ampio e variegato: questa caratteristica si è dimostrata utile durante la rivoluzione al fine di ottenere un supporto più ampio possibile, ma ora rischia di mettere a repentaglio la coerenza e l’unità del fronte.
L’attuale situazione politica si somma alle numerose crisi che negli anni hanno destabilizzato il Sudan perpetuando le gravi difficoltà economiche in cui versa il Paese. Tra gli avvenimenti che hanno avuto effetti drammatici si ricordano oltre due decenni di sanzioni economiche da parte degli USA, la guerra in Darfur, il conflitto e la secessione del Sud Sudan (che ha fatto perdere al Paese tre quarti delle proprie riserve petrolifere), la crisi climatica (la cui ultima espressione acuta sono state le alluvioni alla fine dell’estate 2020), la pandemia di Covid-19 e il recente arrivo di oltre 50000 rifugiati dalla regione del Tigray. Attualmente, oltre 9 milioni di persone in Sudan necessitano di assistenza umanitaria, ma degli 1.6 miliardi di dollari americani necessari per far fronte all’emergenza solo 755.5 milioni sono stati stanziati finora. Più di 7 milioni di persone si trovano in uno stato di insicurezza alimentare, dovuta anche all’aumento esponenziale dei prezzi dei cereali più consumati. Una delle maggiori cause di ciò è un’inflazione elevatissima, e oltre al cibo anche carburante e farmaci sono diventati di difficile reperimento. Inoltre, si nota come l’insicurezza (intesa sia come gravi difficoltà economiche che come presenza di scontri violenti sul territorio) non sia più circoscritta alle ‘periferie’ del Paese. Dopo la caduta di Al-Bashir, conflitti e povertà si sono infatti aggravati anche nell’area di Khartoum e delle altre città principali nel nord, che rappresenta il centro nevralgico del potere statale sin dal periodo coloniale.
Il riavvicinamento agli Stati Uniti
La relazione di Khartoum con gli Stati Uniti nel 2020 ha visto una notevole svolta. Già sotto al-Bashir c’erano stati segnali di miglioramento (come la rimozione delle sanzioni), ma è l’attuale Primo Ministro Hamdouk che ha individuato nella normalizzazione delle relazioni con gli USA una priorità del governo di transizione. Dopo mesi di trattative, a ottobre Donald Trump ha annunciato la rimozione del Sudan dalla lista di sponsor statali del terrorismo, ufficializzata poi il 14 dicembre. A seguito di questa decisione, il 21 dicembre il Congresso americano ha deliberato a favore del ripristino dell’immunità legale del Sudan. Il 6 gennaio il Sudan ha infine ufficialmente normalizzato le relazioni con Israele firmando gli Accordi di Abramo, condizione (posta da Washington) necessaria per ristabilire i contatti con gli Stati Uniti ed il resto del mondo. Il Paese ha anche accettato il pagamento di $335 milioni alle vittime degli attentati di al-Qaeda in Africa orientale nel 1998. In cambio, sarà però in grado di ricevere ingenti prestiti e assistenza dalle istituzioni internazionali. Per esempio, insieme agli Accordi di Abramo il ministro delle finanze sudanese ha già concordato un piano di finanziamenti volto a cancellare gli arretrati del Paese con la Banca mondiale. Il Sudan sarà inoltre in grado di attrarre investimenti dall’estero, finora praticamente assenti.
Queste mosse sono volte a favorire la ripresa economica del Paese, ma potrebbero avere risvolti politici problematici a livello domestico, per esempio in termini di legittimazione e popolarità del governo. La normalizzazione con Israele è stata spinta in larga parte dall’establishment militare, sotto pressione degli Stati Uniti – e delle potenze regionali come Emirati Arabi Uniti, Egitto e Arabia Saudita – nonostante il tradizionale supporto popolare per la causa palestinese non sia venuto meno. Hamdouk aveva infatti fino all’estate scorsa escluso l’ipotesi che la normalizzazione potesse avvenire prima della fine del periodo di transizione nel 2022. Non sono state quindi semplicemente considerazioni di convenienza quelle che hanno portato agli Accordi di Abramo, ma una condizione di vera e propria emergenza su tutti i fronti che sta ulteriormente devastando il Paese e la popolazione. Se si auspica che il riavvicinamento agli USA porti miglioramenti nell’economia, resta da vedere che effetto avrà sulla sul fragile equilibrio politico e sulla transizione democratica.
Marta Fraccaro,
Geopolitica.info