Impegnata nella guerra in Ucraina, la Russia fatica a rispettare i propri impegni nel mondo. La proiezione in diversi quadranti strategici, dal Medio Oriente al Sahel, è subordinata alle priorità del conflitto. Tra questi anche l’America Latina che, da “cortile di casa” degli Stati Uniti, negli anni ha visto farsi più seria la presenza russa, accompagnata dalla penetrazione economica cinese. Washington potrebbe approfittare del momento di difficoltà del Cremlino per ristabilire relazioni proficue con vecchi alleati scivolati verso l’orbita di Mosca, ma non solo.
Gli Stati Uniti riaprono il dialogo col Venezuela?
A inizio marzo una delegazione di alti funzionari della Casa Bianca e del Dipartimento di Stato americano guidata da Juan González, Consigliere per l’America Latina della Casa Bianca, ha incontrato a Caracas rappresentanti del governo venezuelano, tra cui lo stesso Presidente Nicolas Maduro.
Seppure i termini ufficiali dell’incontro siano rimasti segreti, non è difficile intuire le intenzioni degli Stati Uniti: da una parte, ristabilire relazioni politiche ed economiche con il Venezuela, approfittando del momento di difficoltà della Russia, principale sostenitore di Maduro; dall’altra, assicurarsi un sostituto al petrolio russo, incluso tra le sanzioni a stelle e strisce come ulteriore strumento di pressione nei confronti del Cremlino, nonostante i volumi importati dagli Stati Uniti non siano significativi come quelli, ad esempio, dell’Europa.
Per il ritorno ad un dialogo costruttivo resta però un grande scoglio da superare: quello delle sanzioni imposte al regime di Maduro. Nel 2019, in seguito alle elezioni dell’anno precedente, giudicate come truccate e non democratiche, l’allora amministrazione Trump decise di riconoscere Juan Guaido, presidente dell’Assemblea Nazionale e principale leader dell’opposizione, come rappresentante ad interim del Venezuela – mossa appoggiata dai principali alleati di Washington. Parallelamente, venne imposto al Venezuela il divieto di esportare petrolio negli Stati Uniti, privando di fatto Caracas di un mercato proficuo – 12 miliardi di dollari nel 2018 (OEC) – e contribuendo al contempo allo slittamento del Venezuela nella sfera di influenza russa. Mosca, infatti, negli anni è diventata un alleato strategico e politico fondamentale per Caracas, fornendo sia attrezzatura militare che un forte sostegno retorico e diplomatico prima al governo di Hugo Chavez e poi del suo successore Maduro. Contemporaneamente, il Venezuela ha intensificato le relazioni economiche con Cina, Iran e India, quest’ultima principale destinazione del petrolio venezuelano. Ed ha potuto farlo utilizzando proprio la Russia come intermediario per esportare il proprio petrolio.
Già dal 2015 però la produzione petrolifera venezuelana ha subito una rapida discesa, passando da quasi 3 milioni di barili al giorno, ai 778 mila attuali (Trading Economics, febbraio 2022), a causa soprattutto della mancanza di capitale, ma anche della cattiva gestione da parte del governo della compagnia petrolifera nazionale, PDVSA. Non avendo diversificato la propria economia, il Venezuela è rimasto troppo dipendente dal mercato petrolifero e dalle sue fluttuazioni. Con il crollo del prezzo del greggio è crollata anche l’economia venezuelana, con conseguenze drammatiche sulla popolazione. Le sanzioni a stelle e strisce non hanno fatto altro che aggravare il quadro.
Opportunità e ostacoli della cooperazione col Venezuela
La riapertura degli Stati Uniti potrebbe essere per Caracas un’occasione da non perdere. Il ritorno di compagnie straniere nell’industria nazionale potrebbe ridare vigore al comparto petrolifero, aumentando così la produzione, e quindi anche gli introiti nelle casse dell’erario.
Gli Stati Uniti, dal canto loro, otterrebbero numerosi benefici: prima di tutto, il ritorno di compagnie nazionali come Chevron – ma anche di altre compagnie straniere, tra cui l’italiana Eni – nel settore estrattivo locale; in secondo luogo, metterebbe in difficoltà il rapporto tra il Venezuela e la Russia di Vladimir Putin, non tanto per il breve periodo, dato che il supporto retorico del Venezuela alla causa russa in ucraina non è rilevante ai fini della guerra, quanto nel lungo periodo, limitando o eliminando la presenza di una potenza rivale in quello che è da ormai duecento anni considerato il “cortile di casa” di Washington; in terzo luogo, assicurarsi una fonte alternativa al petrolio russo o, più probabilmente, introdurre sul mercato quantità cospicue di greggio per limitarne l’impennata del prezzo. In questo senso l’amministrazione Biden sta già muovendo qualche passo, come dimostra la scelta di rilasciare 1 milione di barili di petrolio al giorno (Al Jazeera, 31.03.2022) dalle riserve americane per i prossimi 6 mesi, proprio con l’intenzione di aumentarne l’offerta.
Rimangono però numerose frizioni, e un compromesso appare lontano. Gli Stati Uniti chiedono al Venezuela di permettere a compagnie straniere di operare, di garantire libere elezioni e di condannare apertamente l’invasione russa dell’Ucraina. Condizioni (Reuters, 06.03.2022) difficili da digerire per Maduro, il quale ha risposto chiedendo di revocare completamente le sanzioni sul petrolio: offerta rifiutata dalla delegazione americana, come prevedibile. Nonostante qualche segno di apertura – il Venezuela ha rilasciato due detenuti statunitensi – rimane una certa distanza tra le due posizioni, complicando il raggiungimento di un accordo.
Intanto l’occidente fatica a recuperare gas e petrolio da fonti alterative a quelle russe. Anche se nel breve periodo la Russia è tenuta a rispettare i contratti firmati precedentemente all’invasione dell’Ucraina, nei prossimi mesi assisteremo ad una drastica riduzione delle nostre scorte, mentre Mosca si rivolgerà principalmente a clienti asiatici, prima di tutto la Cina. E se gli Stati Uniti hanno la capacità di sopperire a questa mancanza – poiché importano solamente il 20% del petrolio che consumano, e di questo il petrolio russo conta per circa l’8% (NBC News, 09.03.2022) – l’Unione Europea è troppo dipendente per liberarsene nel breve periodo.
Alternative per l’approvvigionamento occidentale
Quali sono allora le alternative al petrolio russo? Secondo un report dell’International Energy Agency (IEA), Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti sono i principali candidati per sopperire alla mancanza di petrolio sul mercato per la loro disponibilità di riserve, ma al momento “non mostrano alcuna volontà di attingere alle loro riserve”. E i paesi OPEC+ (Russia compresa) hanno confermato la scelta, anche per il mese di maggio, di aumentare la produzione di solamente 400mila barili al giorno, una misura largamente insufficiente, considerando che la Russia, tra i primi produttori mondiali, nel 2021 ha prodotto oltre 10 milioni di barili al giorno, oltre il 10% del totale.
Una seconda alternativa è quella dell’Iran, ma come per il Venezuela è necessario prima trovare un accordo per abolire, o quantomeno ridurre, le sanzioni imposte dalle due precedenti amministrazioni americane. Sanzioni che colpiscono – direttamente e non – il settore estrattivo iraniano. Tanto che la produzione è calata da quasi 4 milioni di barili al giorno (Trading Economics) prima del 2018 agli attuali 2,4. Si stima quindi che l’Iran abbia le potenzialità per aumentare la produzione di mezzo milione di barili nel breve periodo, fino ad un massimo di 1,3 milioni (Atlantic Council, 03.03.2022). Ma lo scorso mese, nel corso di colloqui per arrivare ad un nuovo compromesso sul nucleare iraniano, il ministro degli esteri russo Sergej Lavrov ha chiesto garanzie che, se l’accordo sul nucleare del 2015 fosse ripristinato, le sanzioni occidentali contro la Russia “non danneggino il commercio, la cooperazione economica e tecnico-militare con l’Iran” (The Guardian, 11.03.2022). Lo stesso Lavrov ha poi fatto sapere di aver ricevuto garanzie scritte dagli USA, ma è comunque probabile che la Russia cerchi di ostacolare il raggiungimento di un accordo per continuare ad approfittare dell’attuale situazione sul mercato degli idrocarburi.
In conclusione, se nel medio-lungo periodo è fondamentale ridurre la dipendenza dall’import di combustibili fossili – in particolare quelli provenienti dalla Russia – per raggiungere la neutralità climatica, nel breve periodo la situazione appare più complicata. L’Europa non ha la capacità di interrompere gli approvvigionamenti da Mosca cambiando fornitore, né aumentando la produzione interna, né tantomeno riducendo i consumi. È necessario trovare un compromesso col Cremlino per assicurarsi la sicurezza energetica a prezzi competenti, ma anche ristabilire un dialogo costruttivo con stati emarginati e oggetto di sanzioni, come Venezuela e Iran.