L’annuncio del Presidente statunitense Donald Trump circa il possibile ritiro dal Trattato INF e l’ultimatum del Segretario di Stato, Mike Pompeo, con cui si intima alla Federazione Russa la cessazione delle sue (presunte) violazioni al documento, pongono la comunità internazionale dinanzi a incognite che interessano gli equilibri nucleari tra le grandi potenze. Il rischio non è soltanto quello di una nuova “crisi degli Euromissili” ma pure di una sua riproposizione in altre aree del globo in cui gli Stati Uniti appaiono impegnati nel contrastare l’assertività di potenze regionali emergenti. Washington e Mosca devono scegliere se percorrere sino in fondo la via dell’intransigenza oppure optare per una soluzione negoziale
La scelta di Trump
Lo scorso 20 ottobre, il Presidente degli Stati Uniti, Donald J. Trump, aveva affermato che la sua Amministrazione è determinata a recedere dal Trattato INF (Intermediate-range Nuclear Forces) siglato nel 1987 da Ronald Reagan e Mikhail Gorbachev per l’eliminazione dei missili balistici e cruise a medio-corto raggio dispiegati in Europa a partire dalla seconda metà degli anni Settanta da Unione Sovietica, da un lato, Stati Uniti e NATO, dall’altro. Quell’accordo mise fine alla cosiddetta crisi “degli Euromissili” la quale, de facto, rappresentò quella che, con un saggio pubblicato nel 2006, Maynard Glitman – all’epoca capo negoziatore per Washington – definì “l’ultima battaglia della Guerra Fredda”. I motivi della decisione statunitense sono da addebitarsi a ripetute violazioni del trattato (che sarebbero) avvenute negli ultimi anni ad opera della Federazione Russa, erede unica dell’URSS. Sebbene già nel gennaio 2014 gli Stati Uniti avessero provveduto ad informare gli alleati NATO di tali violazioni, il contenzioso aperto con Mosca può datarsi ufficialmente al 28 luglio di quell’anno, quando Barack Obama, per mezzo di una lettera [fonte: nytimes.com], notificò al capo del Cremlino, Vladimir Putin, il mancato adempimento degli obblighi derivanti dalle clausole del trattato. Nel corso di quello stesso mese, inoltre, il ‘Bureau of Arms Control Verification and Compliance’ del Dipartimento di Stato rilasciò il documento intitolato Adherence to and Compliance with Arms Control, Nonproliferation, and Disarmament Agreements and Commitments, in cui si affermava che: “the Russian Federation is in violation of its obligations under the INF Treaty not to possess, produce, or flight-test a ground-launched cruise missile (GLCM) with a range capability of 500 km to 5,500 km, or to posses or produce launchers of such missiles”.
Dal Baltico al Pacifico passando per Bruxelles
Il 30 novembre 2018, il Director of National Intelligence, Daniel Coats, aveva indicato il missile russo 9M729 “Novator” (SSC-8, secondo la classificazione diffusa da Washington) quale principale imputato di tali violazioni. Il 29 novembre, il Segretario Generale della NATO, Jens Stoltenberg, aveva affermato che tale vettore rappresenta una minaccia alla sicurezza europea e al Trattato INF poiché in grado di colpire le capitali europee, abbassando così “the threshold for nuclear conflict” [fonte: nato.int]. Lo scorso 4 dicembre, in occasione del Summit dei ministri degli Esteri dell’Alleanza Atlantica, il Secretary of State, Mike Pompeo, ha infine lanciato un ultimatum alla Russia, dichiarando che gli Stati Uniti – sostenuti in questa decisione dalla NATO – sospenderanno i proprî obblighi verso l’INF entro sessanta giorni se i russi non dovessero ottemperare al rispetto verificabile del trattato. Definendo tutta la vicenda un “misunderstanding”, il presidente della commissione Sicurezza e Difesa del Consiglio della Federazione Russa, Viktor Bondarev, il 5 dicembre ha suggerito un aggiornamento dell’INF, ovvero la sua limitazione allo specifico teatro europeo. Assai più dura, invece, è stata la replica del responsabile del Genshtab (Stato Maggiore russo), Generale Valery Gerasimov, il quale ha avvertito che in caso di uscita di Washington dall’INF e conseguente schieramento di missili a medio-corto raggio in Europa la riposta di Mosca prenderà di mira (“will target”) i Paesi europei che ospiteranno eventuali vettori statunitensi. A queste considerazioni si sono aggiunte quelle dello stesso leader del Cremlino, Vladimir Putin, secondo cui le parole di Pompeo rappresentano null’altro che l’ultimo tassello di una strategia finalizzata a giustificare, ulteriormente, il riarmo statunitense attraverso l’uscita di Washington dall’INF; riarmo a cui la Russia risponderebbe in egual misura [fonte: en.kremlin.ru]. In realtà la Federazione Russa ha già cominciato ad installare sul territorio europeo vettori della versione “Iskander-M 9K720” (nome in codice NATO SS-26 “Stone”), con gittata compresa tra i 400 e i 500 km [fonte: MissileThreat/CSIS], riproponendo con tale iniziativa criticità simili a quelle che furono all’origine della crisi degli Euromissili. Il 5 febbraio 2018, il presidente della Commissione Difesa della Duma di Stato, Vladimir Shamanov, aveva infatti confermato il loro dispiegamento permanente nell’exclave russa di Kaliningrad. I motivi erano stati illustrati dal capo del Cremlino, Dmitry Medvedev, il 5 novembre 2008, durante un discorso all’Assemblea Federale. Secondo Medvedev, il configurarsi di una nuova situazione geopolitica internazionale – conseguenza soprattutto della costruzione ad opera degli Stati Uniti di un sistema globale anti-missile che interessa anche l’Europa – rendeva necessarie adeguate contromisure, tra cui lo schieramento degli “Iskander” con l’obiettivo: “se necessario, di neutralizzare il sistema di difesa missilistico [americano, N.d.A.]” [fonte: en.kremlin.ru]. Questo sebbene sia Washington che l’Ue in passato abbiano affermato che tale iniziativa di difesa non costituisca una minaccia per la Russia, perché unicamente concepita contro possibili attacchi da Nord Corea e Iran. L’INF è stato chiamato in causa anche in rapporto alla regione Asia-Pacifico, dove gli Stati Uniti sono impegnati in un braccio di ferro con Pechino. Ad esempio, il 27 aprile 2017, in una audizione davanti alla Commissione Forze Armate del Senato di Washington, il Comandante dell’USPACOM (U.S. [Indo-]Pacific Command), Ammiraglio Harry Harris Jr., aveva affermato che, a causa dei vincoli dell’INF, gli Stati Uniti non hanno adeguate capacità per fronteggiare, in quella regione, i sistemi missilistici cinesi che – specificava l’alto ufficiale oggi ambasciatore a Seoul – per il 95% violerebbero l’INF se Pechino fosse anch’essa firmataria del trattato. Una motivazione che – va detto – oltreché lapalissiana, appare debole, se si considera che l’INF proibisce i sistemi a medio-corto raggio dispiegati a terra, ma non quelli imbarcati su unità navali.
L’INF Act 2017 e il ruolo del Congresso
In occasione del 30° anniversario (8 dic. 2017) della firma dell’INF, la portavoce del Dipartimento di Stato, Heather Nauert, aveva illustrato l’Integrated Strategy dell’Amministrazione Trump in merito alla questione, utilizzando concetti che – in sostanza – ricordano molto da vicino il dual-track adottato da Stati Uniti e NATO negli anni ’80 per rispondere al dispiegamento dei missili sovietici. Secondo le parole della portavoce, Washington si riservava di attuare una “risposta flessibile”, basata su coercizione e dialogo, ovvero sviluppo di nuovi sistemi missilistici a medio-corto raggio a cui gli Stati Uniti sarebbero stati disposti a rinunciare nel caso Mosca avesse accettato una soluzione diplomatica in grado di riportarla nell’alveo dell’INF. Tale strategia si ritrovava, più compiutamente, nella legge fiscale 2018 licenziata dal Congresso il 12 dicembre 2017 come Public Law 115-91, dove nella Sezione 1239A, intitolata Strategy to Counter the Threat of Malign Influence by the Russian Federation, veniva accluso (Subtitle E) l’Intermediate-Range Nuclear Forces (INF) Treaty Preservation Act of 2017. Quest’ultimo ricordava come l’articolo XV (sez. 2) dell’INF preveda che i firmatarî possano recedere dal trattato qualora eventi straordinarî legati alla materia regolata mettano in pericolo i loro supremi interessi. In ragione di ciò, ovvero delle violazioni da essi attribuite alla Russia, gli Stati Uniti si ritenevano (già allora) legalmente autorizzati a sospendere (“to suspend“) i loro obblighi, in parte o in toto, rispetto al trattato. Il testo legislativo del Congresso autorizzava un programma di sviluppo, in fìeri, per un sistema “road–mobile” GLCM con gittata compresa tra i 500 e 5.500 km, vale a dire quella vietata dall’INF. Il documento prevedeva inoltre lo stanziamento (anno fiscale 2018) di 58 mln di $ per ricerca, sviluppo, sperimentazione (“test“) e valutazione di sistemi di difesa capaci di rispondere a missili ground-launched. Tali disposizioni appaiono di poco al di qua della violazione. L’articolo VI dell’INF stabilisce infatti che nessuna parte contraente possa produrre (“produce“) o condurre test di volo (“flight-test“) di alcun tipo di vettori IRM (intermediate-range missile) e SRM (shorter-range missile). L’INF Act del Congresso, utilizzando il termine << test >>, sembrava dunque porre una differenza che, per quanto sottile e cavillosa, era di per sé rilevante, perché lasciava trasparire come Washington manifestasse (in quel frangente) la volontà di ingaggiare Mosca, unicamente, sul terreno del confronto diplomatico. Il ruolo, non secondario, del Congresso è conseguenza pure del fatto che la Costituzione americana (art. II, sez. 2) attribuisce al Presidente la prerogativa di stipulare trattati, subordinando però tale potere al previo parere e consenso (“advice and consent”) del Senato. Il 27 maggio 1988 l’INF, essendo un trattato non un accordo, fu sottoposto a ratifica del Senato che lo approvò a larga maggioranza (93 voti favorevoli), allegando però tre condizioni, due dichiarazioni e tre declarations and understandings. Durante la crisi degli Euromissili, Reagan aveva inoltre coinvolto i senatori nel processo negoziale con l’URSS, suscitando la formazione di un Senate Arms Control Observer Group. Oggi, una decisione motu proprio dell’Amministrazione Trump potrebbe ingenerare anche una controversia costituzionale poiché, sebbene l’articolo XV dell’INF preveda che le parti possano recedere, l’iniziativa presidenziale sarebbe suscettibile di dibattito negli Stati Uniti, forse incontrando ostacoli nel Campidoglio, benché i risultati delle elezioni di mid-term 2018 abbiano assegnato ai Democratici 233 seggi (su 435) alla Camera e solamente 47 (su 100) al Senato. In questo senso, il caso “Goldwater contro Carter” del 1979 – a suo tempo però respinto dalla Corte Suprema – circa il quesito concernente la possibilità che il Presidente degli Stati Uniti possa recedere unilateralmente da un trattato senza consultare il Senato, costituisce un precedente sintomatico, toccando un tema già affrontato ab origine della storia costituzionale statunitense da Alexander Hamilton nel 1788 nello studio intitolato The Treaty Making Power and Executive, oggi incluso nella serie The Federalist Papers n.75.
Scenari negoziali
Sino al proclama di Trump e all’ultimatum di Pompeo, gli Stati Uniti erano ricorsi soprattutto alla dissuasione economica per ricondurre la Russia al rispetto dell’INF. Il 20 dicembre 2017 il Department of Commerce aveva infatti esteso il regime sanzionatorio di cui è destinataria Mosca a due società russe – la Novator e la Titan-Barrikady – ritenute coinvolte nella fornitura di sistemi d’arma che violerebbero i contenuti del trattato. Il National Security Advisor, John Bolton, parlando da Mosca, dove si era recato in visita il 22 e 23 ottobre scorsi incontrando il suo omologo russo Nikolai Patrushev e Lavrov, aveva affermato che il prossimo passo, dopo la dichiarazione di Trump, sarebbe consistito in consultazioni con gli alleati in Europa e in Asia, nonché in intensi negoziati diplomatici con la Russia [fonte: ru.embassy.gov]. Ciò lascia supporre che la partita negoziale non possa dirsi ancora del tutto conclusa, sebbene alcune recenti dichiarazioni provenienti dall’Alleanza Atlantica rischino – se fraintese – di guastare sul nascere ogni possibile dialogo. È il caso, ad esempio, di quanto affermato il 29 novembre da Stoltenberg circa il fatto che “after many years of categorical denials” la Russia abbia infine ammesso l’esistenza del missile SSC-8 accusato di violare l’INF [fonte: nato.int]. Non serve scomodare oltremisura Retorica e Logica per avvertire come il paralogìsmo del Segretario Generale della NATO sembri volere persuadere che Mosca abbia ammesso anche la violazione del trattato. Va da sé infatti che l’ammissione dell’esistenza di un missile non implica parimenti la prova che esso violi ipso facto gli obblighi del Trattato INF.