A partire dalla caduta del muro di Berlino si è sviluppato il dibattito relativo alla struttura del sistema internazionale emerso dalle ceneri del confronto bipolare. Nonostante siano passati venti anni una conclusione definitiva non è stata raggiunta a causa della contingenza che caratterizza i rapporti, la posizione e real viagra without prescription la natura delle unità politiche contemporanee.
Nonché per le prospettive contrastanti sorte sulla definizione storica del contesto attuale. Se a livello politico l’Europa sta affrontando ancora una fase di “post Guerra fredda”, per gli Stati Uniti questa è già stata superata con gli attacchi dell’11 settembre, altro spartiacque storico, in seguito al quale sarebbe preferibile parlare di un periodo di “post-post Guerra fredda”.
Sulla scorta dell’euforia generata dalla sconfitta del colosso sovietico, nel decennio successivo al 1989 pochi dubbi sono stati sollevati in merito alle trasformazioni in corso, mentre le numerose teorie elaborate hanno preso spunto dalla certezza dell’ineluttabilità del processo di globalizzazione che avrebbe diffuso il modello politico, economico e culturale dell’Occidente. Nel 1990 Charles Krauthammer ha proclamato l’avvento del “momento unipolare”: il nuovo sistema, che vedeva gli Stati Uniti occupare la posizione di vertice nella piramide del potere mondiale, sarebbe stato caratterizzato da due qualità tali da renderlo unico nella storia. Anzitutto è apparso privo di quel germe di auto-distruzione, la tendenza al bilanciamento, che connoterebbe ogni situazione egemonica. In secondo luogo la sua natura è sembrata incredibilmente più vicina al polo dell’ordine che a quello dell’anarchia, tradizionalmente associato alla politica internazionale. La fase che ha preso inizio con la sconfitta del blocco sovietico, quindi, è stata avvolta dalla percezione neo-positivista che avendo vinto la “terza guerra mondiale” senza doverla combattere, gli Stati Uniti avrebbero potuto guidare il mondo verso un futuro di pace e di benessere.
Questa prospettiva è stata rafforzata dall’apparente esaurimento del soft power del comunismo e dei nazionalismi classici come alternative realistiche alla democrazia rappresentativa e al libero mercato. Il modello occidentale si sarebbe trovato privo non solo di un antagonista diretto, ma, almeno in apparenza, anche di qualsiasi fonte di contestazione. L’immediato avvio di una contraddittoria transizione verso i nostri paradigmi da parte degli Stati sorti dalle ceneri della galassia sovietica e le profonde riforme economiche avviate nella Repubblica Popolare Cinese sono state ritenute le prove più clamorose dell’inesorabilità di questa linea di sviluppo. Non solo. Tutti i potenziali sfidanti hanno preso atto dell’impossibilità di colmare il divario militare e tecnologico con la superpotenza, al punto che questa è dovuta ricorrere alla forza in una serie molto limitata di casi, essendosi creata un’aurea di invincibilità intorno al suo hard power. L’immagine di un “egemone riluttante” o di un “impero su invito” è stata generata proprio dalla propensione degli Stati Uniti a difendere le posizioni raggiunte attraverso la tessitura di una fitta rete di interdipendenze economiche e di interconnessioni diplomatiche piuttosto che con il ricorso alle armi.
Da queste basi ha preso le mosse la riflessione di Francis Fukuyama secondo cui la dialettica hegeliana, fondata sui concetti di tesi, antitesi e sintesi, era divenuta uno strumento desueto per interpretare una realtà dai contorni quanto mai indefiniti. Venendo a mancare l’antitesi, che costituiva il limite e la negazione da cui sarebbe sorto un nuovo rapporto nell’originalità della sintesi, la tesi si sarebbe sovrapposta completamente alla realtà: questa svolta venne interpretata come la fine della storia o come una fase totalmente originale della storia. Il futuro non sarebbe più stato testimone dei titanici scontri di ideologie, trasformandosi in un tempo dedicato alla risoluzione delle grandi questioni economiche e tecniche. Questa idea, sebbene espressa con altre formule, era già affiorata a più riprese in passato, tanto che Arnold Toynbee aveva parlato del “miraggio dell’immortalità” da cui ogni civiltà al suo apogeo finisce per essere persuasa, convincendosi di costituire il grado più alto e definitivo della società umana.
Le tensioni legate alle disfunzioni della globalizzazione e gli attacchi dell’11 settembre hanno fatto sì che la vittoria dell’Occidente nel confronto con il socialismo reale perdesse quel carattere trionfale che aveva assunto nelle suggestioni immediatamente coeve a quegli eventi che nel giro di pochi mesi stravolsero la carta politica mondiale.
Le teorie di Samuel Huntington sullo “scontro di civiltà” hanno rappresentato il primo tentativo organico di contestare l’idea del concretizzarsi di una fase “astorica” e l’ottimismo relativo all’unilinearità del processo di globalizzazione. Dopo la fine delle ideologie sarebbe l’appartenenza culturale, al cui interno svolgerebbe un ruolo chiave l’identità religiosa, a dettare le evoluzioni delle nuove alleanze geopolitiche. In questa prospettiva, pur rimanendo evidente la distribuzione asimmetrica del potere, il mondo si avvierebbe verso una situazione di sostanziale multipolarismo. Gli Stati Uniti resterebbero una “superpotenza solitaria”, contraddistinta da un primato in tutte le dimensioni del potere (diplomatico, economico, militare, tecnologico e culturale) e dalla capacità di promuovere le proprie posizioni globalmente. Ad un secondo livello, si attesterebbero alcune potenze regionali, dotate di un predominio ristretto solo ad alcuni quadranti e, dunque, prive degli strumenti necessari per mettere in atto una strategia di respiro mondiale (il direttorio franco-tedesco dell’Ue, Russia, Cina, India, Iran, Brasile). Ad un terzo livello, inoltre, si muoverebbero le potenze regionali secondarie, con interessi antagonistici a quelli delle altre potenze regionali (Gran Bretagna, Ucraina, Giappone, Pakistan, Arabia Saudita, Argentina).
La riflessione sul possibile tramonto dell’egemonia statunitense è stata affrontata anche da John Ikenberry che nel 2002 ha selezionato una serie di variabili la cui combinazione avrebbe portato ad un riequilibrio nel sistema. Tra le quattro individuate due erano di ordine politico, la rottura con la tradizione del multilateralismo e la diffusione del terrorismo globale, e altrettante di ordine socio-economico, l’irrompere di una profonda crisi finanziaria e la crescente indisponibilità dell’elettorato americano ad approvare l’investimento di denaro pubblico nelle istituzioni internazionali. Negli anni che hanno seguito il biennio di transizione 1999-2001, che con la “guerra umanitaria” in Kosovo e la “guerra al terrorismo” in Afghanistan costituisce un momento di rottura del ritmo rispetto all’andamento positivo del decennio precedente, tali condizioni sembrano essersi verificate, almeno parzialmente, tutte.
Potrebbe, quindi, aver spiegato i suoi effetti quello che Ken Organski ha definito il “fattore fenice”, ossia l’esaurimento di quel periodo di circa 15-20 anni, da considerarsi fisiologico in seguito ad ogni “guerra costituente”, durante i quali la potenza vincitrice del conflitto riuscirebbe ad ottimizzare i frutti della sua vittoria. A dispetto di queste considerazioni non risulta comunque possibile individuare quei rapporti e i soggetti la cui presenza è imprescindibile per dare una definizione chiara del sistema internazionale. Al contrario, ci troviamo dinanzi ad una serie di segnali che sembrano indicarci una situazione al momento intellegibile. Per quanto riguarda lo status giuridico in cui versano diversi Paesi esiste un’incredibile discrasia tra i soggetti coinvolti all’interno degli stessi eventi. Se gli Stati Uniti e numerosi paesi del Vicino Oriente e dell’Asia centrale si percepiscono in guerra, nessuno in Europa mette in discussione l’idea che il continente si trovi in uno stato di pace nonostante le numerose missioni militari in corso. Le conseguenze pratiche sono notevoli: gli atti che agli occhi dei primi sembrano legittimi in relazione al tempo di guerra, appaiono ai secondi come crimini penalmente perseguibili. Non risulta possibile, inoltre, isolare la vicenda performativa per il sistema internazionale, sul modello del confronto tra blocco occidentale e blocco sovietico che aveva caratterizzato il bipolarismo. Se alcuni non esitano a trovarla nel fronte Af-Pak, altri attribuiscono centralità al conflitto israelo-palestinese ed altri ancora al confronto tra Washington e Pechino o tra la Casa Bianca e il Cremlino.
Il sistema internazionale bipolare è stato connotato da un ordine ferreo in quanto dava la possibilità di nutrire aspettative. Una condizione che viene meno se non sono esattamente individuabili gli attori legittimati, o quanto meno effettivamente in grado, ad agire nel sistema internazionale. Attualmente non è possibile di indicare i soggetti principali: se tra il 1945 e il 1989 era inequivocabile che i protagonisti fossero gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica, oggi risultano contrastanti le indicazioni relative ai soggetti dominanti del sistema, tanto che la teoria parla contemporaneamente di unipolarismo, bipolarismo e multipolarismo, mentre la prassi politica è testimone dell’alternanza di una serie di G-Forum a numero variabile. All’incertezza sui soggetti, si somma quella sulle alleanze. Queste durante la Guerra fredda si sono profilate come blocchi monolitici dai quali i membri non erano liberi di uscire, mentre le alleanze odierne hanno recuperato la loro tradizionale natura, ossia essere delle fluide “coalizioni dei volenterosi” la cui unione è dettata dalla missione. Ma occorre sottolineare non solo come sia difficile stilare previsioni sui protagonisti e le alleanze nel medio termine, ma come allo stesso modo sia difficile prevedere anche nel corto raggio le evoluzioni di alcuni attori minori: fare progetti su contesti in cui si muovono attori come il Kosovo, la Palestina, il Pakistan o l’Afghanistan è equivalente a scommettere su una partita di cui non si conosce l’identità dei giocatori in campo.
Infine il sistema internazionale contemporaneo sta definitivamente perdendo uno dei cardini acquisiti con la modernità, l’esclusività dello ius ad bellum degli Stati, che risultano sfidati sia dall’alto, dalle organizzazioni globali e regionali, che dal basso, dai partiti armati, dalle organizzazioni non-governative e dalle compagnie multinazionali. La guerra dopo aver perso con i conflitti mondiali e le lotte anticoloniali i limiti legati alla santuarizzazione di determinati soggetti, luoghi e tempi, sta registrando anche il dissolvimento della condivisione dello spazio comune, dell’uguaglianza della posta in gioco, della simmetria nelle dotazioni tecnologiche e del grado di mobilitazione delle popolazioni, nonché il suo carattere non discriminante. Per tale ragione è stata definita da Alessandro Colombo “guerra ineguale”.
Se il dibattito successivo all’11 settembre ha visto incrementare il gruppo dei sostenitori di un orizzonte multipolare, è stato fatto notare che proprio in relazione agli aspetti qui brevemente delineati le difformità tra il multipolarismo classico ed il sistema attuale risultano oggettivamente consistenti. Il primo, sorto con la Pace di Westfalia e terminato con la Seconda guerra mondiale, è stato fondato sull’esclusività degli Stati e la presenza di un numero esiguo di potenze alla costante ricerca di un equilibrio. Viceversa, oggi assistiamo alla presenza di un numero maggiore di centri di potere, tra cui alcuni costituiti da soggetti non-statali, con aspirazioni globali. Richard Haass, sulla base di queste considerazioni, ha sostenuto l’ipotesi di un’evoluzione verso un sistema “non-polare” (o “apolare”). Questa originale condizione implica l’effettività di numero di potenze concorrenti superiore rispetto al passato e la carenza di istituzioni e relazioni stabili i cui effetti risultino anche solo sommariamente prevedibili. Verrebbe meno, quindi, l’idea stessa di “scacchiere internazionale”, che ha implicato la certezza del numero e della natura dei “pezzi pesanti”, dei “pezzi leggeri” e dei “pedoni”, nonché la necessità di tempo per riflettere sulle opzioni strategiche al cospetto di un’arena le cui tendenze centrifughe impongono l’esigenza di scelte incessanti e, di conseguenza, di un tatticismo troppo spesso di corto respiro.