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TematicheCina e Indo-PacificoLa staffetta Trump-Biden e i rapporti economici sino-americani

La staffetta Trump-Biden e i rapporti economici sino-americani

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Con il termine decoupling ci si riferisce ad un processo di “disaccoppiamento” economico e commerciale tra le due principali potenze mondiali. Si tende a considerare come l’inizio di questo processo la seconda metà del 2018 e l’inizio del 2019, precisamente dall’imposizione statunitense, su iniziativa del presidente americano Donald Trump, di dazi su prodotti cinesi, e a farlo coincidere con la più generica guerra commerciale tra i due Paesi. Dopo una serie di iniziative analoghe intraprese dal segretario Xi Jinping e dei cessate il fuoco temporanei, i due capi di Stato sono giunti, nel gennaio 2020, alla firma di un trattato commerciale volto alla riduzione delle tariffe esistenti, alla non imposizione di ulteriori, e all’acquisto, da parte cinese, di beni e servizi statunitensi del valore, rispetto al 2017, di 200 miliardi di dollari nei successivi due anni. Nel paragrafo successivo ripercorreremo i principali eventi che hanno costituito, in maniera diretta o indiretta, quella che è stata per gli analisti contemporanei la guerra commerciale tra la Cina e gli Stati Uniti; successivamente, cercheremo di analizzare il contesto economico della regione Indo-Pacifico; nel paragrafo conclusivo, cercheremo di analizzare le implicazioni che il decoupling, e probabilmente il recente recoupling, possono avere sull’ordine economico mondiale.

Le decisioni unilaterali del presidente Trump e le iniziative del successore Biden
Già con l’amministrazione Obama – in particolare con la National Security Strategy (NSS) del 2010 – si è identificato nella Cina e nel Sud-Est asiatico (Asia-Pacifico nella nss del 2015) un’area di interesse strategico ed economico di prioritaria importanza per la sicurezza nazionale statunitense. Di fatto, la postura diplomatica del presidente Trump è stata non del tutto incoerente con quella del suo predecessore per quel che concerne l’identificazione della Repubblica Popolare cinese come un potenziale rivale per l’egemonia globale. Nemmeno l’imposizione dei dazi nel 2018 rappresenta il primo gesto bellico del presidente Trump: la sua prima rappresaglia può essere intravista nelle modifiche al North American Free Trade Agreement (NAFTA), modifiche che includono la possibilità da parte dei Paesi firmatari di ritirarsi dall’accordo nel caso in cui uno degli altri segnatari finalizzi trattati costituenti Area di Libero Scambio (ALS) con economie non di mercato, come appunto quella cinese. È stata secondo molti, questa, una mossa finalizzata a controllare i rapporti economici e commerciali dei propri vicini in ottica anticinese; tuttavia, il nuovo Accordo Stati Uniti-Messico-Canada (USMCA), prevede quella che viene definita come “sunset clause”, ovvero una clausola di revisione congiunta ogni sei anni dall’entrata in vigore dell’accordo, la quale permette di rinnovare, o recedere, il trattato per ulteriori sedici anni. Dal momento che la versione definita dell’USMCA è stata approvata in Congresso nel dicembre del 2019, la prima revisione congiunta è prevista per il 2025, anno in cui dovrebbe iniziare il secondo mandato dell’attuale presidente o del prossimo/a. La revisione di questo trattato potrebbe rappresentare un’ulteriore cartina da tornasole della continuità, o meno, della politica americana verso la Cina. L’altro trattato riguardante i rapporti tra le prime due economie mondiali, ovvero quello che viene comunemente riferito come “Phase One Trade Agreement” è stato firmato dalle due potenze nel gennaio 2020. L’accordo prevede, oltre al già citato impegno di acquisto di beni e servizi americani da parte di Pechino, delle regolamentazioni in termini di proprietà intellettuali e l’impegno da parte della Cina di terminare le pratiche di trasferimento di tecnologia, con le quali vincolava imprese estere che volessero operare entro i propri confini. Il 4 ottobre 2021, lo United Stated Trade Representative (USTR) Katherine Tai ha dichiarato, in un intervento al Center for Strategic & International Studies, che Washington ha intenzione di pretendere da Pechino l’applicazione dell’accordo Phase One. Inoltre, durante l’evento sono stati menzionati i termini “recoupling” e “coesistenza duratura”. Nonostante alcune delle tariffe imposte dal predecessore del presidente Biden siano ancora in vigore, l’attuale ambasciatore cinese a Washington Qin Gang, durante un’intervista ad un’emittente americana, ha dichiarato che la sua nazione è aperta sia ad incrementare il commercio con l’estero, che a sedersi a tavolino con gli Stati Uniti per evitare ulteriori confronti in termini di dazi imposti. Secondo un’analisi condotta dal Peterson Institute for International Economics (PIIE), è indubbio che uno dei motivi per il quale l’amministrazione Biden sia intenzionata a perseguire l’accordo raggiunto dalla precedente sia dettato in parte dal fatto che la Cina non sia riuscita a raggiungere il volume di importazioni previsti dagli accordi (Brown, 2021); tuttavia, la loro analisi stima che la causa di ciò è anche da ravvisare nella crisi economica dovuta alla pandemia, più che da precise scelte di politica industriale della leadership cinese in ottica antiamericana. Insomma, il principale cambiamento di rotta tra Washington e Pechino sulla questione commerciale è da ritrovare nei toni, poiché dal punto di vista dei dazi e degli accordi imposti l’amministrazione Biden sembrerebbe mostrarsi senza soluzione di continuità rispetto la precedente; lo testimonia, allo stesso tempo, come allo stato attuale si parli di recoupling ma senza la rimozione delle barriere tariffarie imposte, attuando l’accordo firmato dall’amministrazione Trump e la firma, da parte dell’attuale presidente statunitense, di un ordine esecutivo mirato alla creazione di una supply chain high-tech al di fuori della sfera di influenza cinese.

L’ordine economico nell’Indo-Pacifico
Sebbene le modifiche apportate al nafta dal presidente Trump rappresentino una più evidente volontà di marginalizzare le relazioni commerciali internazionali della Cina, già con l’uscita degli Stati Uniti dal Partenariato Trans-Pacifico (PTP), uno dei primi atti ufficiali dell’allora Capo di Stato americano, in discontinuità con la strategia Pivot to Asia dell’amministrazione Obama, si era potuto assistere alle prima avvisaglie di tensioni economiche e commerciali. Obama, durante un’intervista rilasciata nel febbraio 2015, aveva espressamente dichiarato come fosse intenzione del suo governo quella di «scrivere le regole prima che sia la Cina a farlo», intendendo in questo modo lo sviluppo di un ordine economico regionale a guida americana ed improntato sui principi liberali del libero commercio, della democrazia, del diritto e delle istituzioni internazionali, dei rapporti transnazionali. Al contrario, l’ordine economico regionale a guida cinese è tendenzialmente legato ad una concezione di regione “chiusa”, il che non significa assenza di scambi commerciali tra Stati, bensì assenza di grandi potenze esterne alla regione che dettino le regole. La Regional Comprehensive Economic Partnership (RCEP), ALS che comprende i Paesi dell’Association of Southeast Asian Nation (ASEAN) e quelli con i quali quest’ultima ha realizzato als bilaterali (Australia, Cina, Corea del Sud, Giappone e Nuova Zelanda), si può intendere come la volontà dei Paesi dell’Indo-Pacifico di fare un passo in questa direzione e per questo è sostenuta fortemente da Pechino. Tuttavia, come questa rappresenta la volontà degli Stati asiatici di autodeterminare le modalità tramite le quali scambiare beni e servizi è pur vero che la strategia Free and Open Indo-Pacific (FOIP), promossa dal Giappone di Shinzo Abe riflette gli ideali statunitensi condivisi dagli alleati americani nella regione, parziale eccezion fatta per la Corea del Sud. Il ritiro degli Stati Uniti dal PTP ad opera dell’amministrazione Trump ha rappresentato una rottura di alcune delle misure del Pivot to Asia obamiano; allo stato attuale delle relazioni internazionali, l’attuale capo di Stato americano Joe Biden non ha ancora espresso la volontà di rientrarvi. Tuttavia, la Repubblica Popolare ha già formalizzato la propria candidatura all’accordo trans-pacifico nel settembre 2021. Questa rappresenta senza ombra di dubbio un braccio di ferro da non sottovalutare nelle relazioni tra le due superpotenze. Da una parte, la Cina può far valere la sua importanza economica nella regione, importanza rafforzata dal fatto che ben sette Paesi aderiscono anche alla RCEP. Dall’altra, secondo gli accordi USMCA, in base ai quali i firmatari devono notificare agli altri la decisione di aderire ad ALS in cui partecipino economie non di mercato e avviare consultazioni tra di loro, gli Stati Uniti potrebbero utilizzare questo escamotage per influenzare l’adesione cinese alla Comprehensive and Progressive Agreement for Trans-Pacific Partnership (CPTPP), dal momento che l’adesione all’accordo sottostà all’approvazione di quegli Stati che abbiano ratificato il trattato, tra cui, appunto, Canada e Messico. La stabilità dell’ordine economico regionale, e in una certa misura di quello mondiale, subisce le perturbazioni derivanti dalla rivalità tra le due potenze. Questa, però, non può essere liquidata come semplice antitetica competizione, bensì ha dei risvolti ben più complessi. A titolo esemplificativo, si pensi che la stessa volontà di costruire una supply chain senza Cina nel settore high-tech espressa dal presidente Biden potrebbe avere delle ripercussioni negative sugli alleati statunitensi, piuttosto che sulla RPC, come sostiene un commento dell’Institute for New Economic Thinking (INET). In sostanza, l’ordine economico asiatico è eterogeneo: da una parte troviamo Paesi che aderiscono ad accordi commerciali con la Cina pur trovandosi in una situazione di conflitto commerciale, poiché auspicano di poter simultaneamente trovare un contesto multilaterale in cui mitigare la preponderanza economica del Dragone; dall’altra, Stati che non solo aderiscono alla rcep, ma anche alla CPTPP e alla strategia foip. In questo modo, il quadro risulta particolarmente frastagliato, per cui né Washington né Pechino sembrerebbero essere nella posizione di dettare le regole a loro piacimento, sebbene quest’ultima si trovi sul punto di aderire ad entrambi i trattati e la prima al contrario ne è tuttora esclusa.

Conclusioni
La riduzione della dipendenza economica e commerciale con l’estero è una delle necessità previste dal tredicesimo piano quinquennale cinese: il piano Made in China 2025 «punta a rendere il Paese un polo manifatturiero ad alto valore aggiunto sulla cresta della quarta rivoluzione industriale». L’Unione Europea, con la sua Bussola Digitale 2030 e il suo Percorso al Decennio Digitale, si prefissa l’obiettivo di trovare la propria “sovranità digitale”. Se da una parte la struttura economica cinese fa sì che la decisione del partito sia coerente con la propria evoluzione di politica industriale, dall’altra la corsa all’accaparramento di fabbriche di microchip, la cui carenza è principalmente dovuta alla recente pandemia, mostra la debolezza di un ordine internazionale la cui interdipendenza tra Stati può facilmente essere resa un’arma. La stessa proposta statunitense di una tassazione digitale al G20 dimostra come l’ordine economico liberale non è in crisi esclusivamente a causa del revisionismo cinese, bensì anche per via di contraddizioni e problemi strutturali insiti emersi dall’affermazione del Washington Consensus ad oggi. In questo senso, il decoupling promosso dalla Presidenza Trump si può interpretare anche come sintomo delle difficoltà degli Stati Uniti a sorreggere l’ordine economico globale. Si vedrà come la nuova amministrazione si confronterà con lo stesso dilemma; ad oggi le prospettive di un recoupling non si sono ancora concretizzate.

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