Qualche giorno fa abbiamo assistito all’ennesima terribile notizia di naufragio nel Mediterraneo. Secondo l’International Organization for Migration (IOM) delle Nazioni Unite, almeno 74 migranti sono morti nell’ incidente avvenuto vicino alla costa Libica di Khoms. Si stima che questo sia l’ottavo naufragio dall’inizio di ottobre, e che più di 900 migranti siano morti annegati nel Mediterraneo nel corso dell’anno, a causa di ritardi nei soccorsi, mentre quasi 11,000 siano stati rimandati in Libia.
Questo evento ci pone inevitabilmente di fronte a due considerazioni. Nonostante le regolamentazioni in ambito migratorio, l’inabilità degli stati nelle operazioni di soccorso è manifesta e fa si che il Mediterraneo venga considerato la traversata marittima più letale. La seconda considerazione porta ad interrogarci sulla sorte dei migranti riportati in Libia e sulle condizioni dei campi di detenzione a cui molti sono destinati. L’International Organization for Migration afferma come la Libia non sia un posto sicuro in cui ritornare, ponendo l’enfasi sulla crudeltà delle strutture di detenzione, dove i migranti sono soggetti a violazioni dei diritti umani, a sfruttamento e commercio illecito. A tre anni dalla diffusione delle terribili immagini riguardanti i centri di detenzione libici, le quali hanno suscitato un clamore mondiale ed hanno spinto molti leader Europei a fare promesse per proteggere rifugiati e migranti da abusi e condizioni di schiavitù, la situazione sembra non aver subito cambiamenti.
La Libia, grazie alla sua ricchezza petrolifera, è stata per decenni destinazione di migliaia di migranti, provenienti dal vicino Niger o dalle nazioni sub sahariane, in cerca di opportunità lavorative. La primavera araba del 2011, la caduta di Gheddafi e la conseguente guerra civile hanno reso la vita dei migranti in Libia sempre più difficoltosa. La maggioranza di essi non era in possesso di un permesso di soggiorno o altro tipo di documentazione e proprio per questo, erano spesso esposti al rischio di detenzioni arbitrarie.
Con Gheddafi al potere, l’Unione Europea e l’Italia cercarono di raggiungere un compromesso con la Libia nella gestione dei migranti. Come il modello turco, l’UE metteva a disposizione una somma di denaro in cambio della promessa di trattenere i migranti su suolo libico. Tuttavia, il caos generato dalla seconda guerra civile libica iniziata nel 2014, ha dato il via alla crescita di una fiorente “dark economy” basata su attività illecite e traffico di petrolio, armi e persone. La Libia divenne così la principale strada di accesso all’Europa per coloro che scappavano da povertà, guerra ed oppressione.
Per cercare di fermare il flusso verso le coste europee, gli stati dell’UE hanno messo in pratica delle politiche che si basavano sul contenimento e sul “push back” dei migranti, dando molto potere alla guardia costiera libica, la quale si occupava della loro intercettazione e del loro ritorno forzato in Libia. Questo produsse un aumento nel contrabbando, nella detenzione e nel sequestro di migranti.
L’investigazione della CNN, avvenuta nel 2017, mise in luce la crudeltà e le condizioni disumane a cui i migranti erano sottoposti nei centri di detenzione libici. Il risultato fu uno sconvolgimento globale che portò numerosi leader dell’UE e del mondo a condannare la situazione in Libia. Tuttavia, dopo tre anni, le migliaia di persone intrappolate sembrano essere state dimenticate.
Secondo quanto riporta Medici Senza Frontiere, i soldi messi a disposizione dall’Europa verrebbero utilizzati per contenere queste persone in condizioni disumane e far sì che non riescano a raggiungere le coste europee. Un meccanismo di evacuazione è stato messo in piedi per trasferire i rifugiati dalla Libia ad una nazione terza. Tuttavia, avendo una capacità di 2,000 posti annuali, l’evacuazione dei migranti ha un processo lentissimo. A differenza del sistema di ritorno forzato in Libia. Per il solo periodo di gennaio-novembre 2019, 2,142 rifugiati sono stati evacuati dalla Libia e quasi 9,000 sono stati forzatamente fatti rientrare dopo averli intercettati in mare.
Data l’assenza di altre soluzioni, le persone in cerca di protezione sono costrette ad affidare la loro sorte ad organizzazioni criminali per poter raggiungere l’Europa. Vengono venduti e rivenduti ad intermediari e si trovano ad affrontare un viaggio che è tutt’altro che privo di violenza, la cui destinazione è spesso un campo di detenzione. Ad oggi è difficile capire quanti migranti ci siano in queste strutture, tuttavia, si presume che il numero oscilli fra i 5,000 ed i 7,000. Con l’eccezione degli ultimi mesi del 2017, dove la capienza rasentava la soglia dei 20,000. Come riporta il capomissione di Medici Senza Frontiere nell’area di Tripoli, Ibrahim Younis, i campi di detenzione sono delle strutture sovraffollate, dove la maggior parte delle volte manca l’acqua corrente e dove vi è un unico bagno a disposizione per 700-1000 persone. Secondo il “The Guardian”, nel campo di Triq-al-Sikka, a Tripoli, numerosi migranti malati vengono posti su materassi sporchi, nel cortile, ed abbandonati al loro stesso destino. Tre dei sei bagni sono bloccati da escrementi e, dal momento che la maggior parte dei detenuti non possiede scarpe, la fuga rimane fuori questione. Inoltre, la situazione peggiora quando si esce da Tripoli. Come riportato dalla testata giornalistica “Internazionale”, in alcuni centri come quello di Khoms o di Zuara, le latrine non ci sono e le persone si vedono costrette ad urinare in bottiglie di plastica. Le torture e le violenze sessuali sono all’ordine del giorno. La situazione sanitaria è disastrosa: le strutture non posseggono un centro medico quindi, quando qualcuno si ammala, deve essere curato privatamente o non curato proprio.
Tutto questo, secondo quanto affermato da MsF, farebbe parte di un circolo vizioso con la complicità della guardia costiera libica. Quest’ultima verrebbe corrotta dai trafficanti per fare uscire i migranti, in modo da intercettarli successivamente in mare e riportarli indietro. Dando il via ad un loop infinito e smuovendo una montagna di soldi.
A seguito di un’ incursione aerea avvenuta nel luglio del 2019, che colpì un centro di detenzione ospitante 120 persone fra rifugiati e migranti, il governo libico ammise di voler chiudere i centri di detenzione “per la sicurezza dei migranti stessi”. Tuttavia, ad oggi, queste strutture sono ancora in funzione e con la pandemia da COVID-19 in corso, la situazione può solo che peggiorare.
Come affermato dall’Alto commissario delle Nazioni Unite ai diritti umani, Zeid Raad al Hussein “La comunità internazionale non può continuare a chiudere gli occhi (..). La sofferenza dei migranti detenuti in Libia è un oltraggio alla coscienza dell’umanità” (OHCHCR). Non si può permettere che persone che fuggono da guerra, povertà e fame finiscano fra le braccia della morte o condannate ad un destino ancora peggiore.
Beatrice Frascatani
Geopolitica.info