Spazio oggettivo e spazio soggettivo
Spesso, nel corso della storia, lo spazio fisico è stato investito dal processo di interpretazione del mondo che l’umanità compie per sua natura. Lo spazio, d’altronde, ben si presta a questo tipo di speculazione per via della sua duplice natura di oggettività e soggettività: alla denotazione oggettiva di uno spazio, infatti, sovente si è aggiunta la connotazione soggettiva che ne hanno dato i popoli, le nazioni e gli Stati.
A questo processo è seguito lo scontro sulle interpretazioni che più popoli, nazioni e Stati hanno dato del medesimo territorio. A tal proposito è interessante richiamare alla mente le interpretazioni che le nazioni, soprattutto nell’età dei nazionalismi, hanno dato di alcuni territori. Si prenda, ad esempio, il caso del Tirolo Meridionale, preteso tanto dai propugnatori della teoria della Grande Italia, quanto dai pangermanisti. O anche la regione dell’Epiro, ovviamente greca per i nazionalisti di Atene, ma albanese nelle teorie che partorirono il concetto di Albania Etnica o Grande Albania. Scontro di interpretazioni che, purtroppo, è costato due guerre mondiali.
La fine dell’età dei nazionalismi, e la successiva nascita del confronto bipolare, imposero l’ideologia come nuovo – e principale – motore delle relazioni internazionali. I confini e le etnie passarono in secondo piano nello scontro tra l’ideologia sovietica e quella occidentale: durante la Guerra Fredda, infatti, non era tanto importante ottenere porzioni di territorio o ridisegnare i confini, quanto conquistare alla propria ideologia intere nazioni per trarne vantaggio strategico. Non è un caso, infatti, che le manifestazioni più calde del confronto bipolare (Corea, Vietnam e Afghanistan) furono, di fatto, guerre civili in cui veniva deciso il futuro ideologico di una nazione. Così come non è un caso che i confini statuali siano rimasti praticamente congelati dal 1945 al 1989.
Con la fine del confronto bipolare, e relativo arretramento dell’aspetto ideologico, il nazionalismo fece la sua nuova comparsa nel palcoscenico internazionale. Etnie e confini tornarono alla ribalta drammaticamente, come nel caso delle guerre balcaniche degli anni ’90. Senza la copertura ideologica, l’interesse nazionale è tornato centrale nelle relazioni internazionali e, dopo il sostanziale ridimensionamento della lotta al terrorismo di matrice islamica, il sistema internazionale sembra mostrare una fase di nuova fluidità, in cui i confini tornano a muoversi dopo più di mezzo secolo. A tal proposito, l’annessione della Crimea da parte della Federazione Russa assume un significato ben preciso.
Mar Cinese Meridionale?
Un caso paradigmatico del rapporto tra interpretazione soggettiva di uno spazio geografico e le sue conseguenze geopolitiche è quello del Mar Cinese Meridionale. Tutte le nazioni che si affacciano su questo mare (Repubblica Popolare Cinese, Repubblica di Cina-Taiwan, Vietnam, Filippine, financo ai giapponesi che, in realtà, non godono delle sue acque) hanno dato una loro interpretazione, che si può riscontrare già nella toponomastica. Per i cinesi tale specchio d’acqua è il Nan Hai (Mare del Sud); i filippini lo chiamano Dagat Kanlurang Pilipinas (Mare Occidentale delle Filippine), mentre i vietnamiti Bie’n Ong (Mare dell’Est); in Giappone viene chiamato Minami shina umi (Mar Cinese del Sud), che se da un lato concede la paternità alla Cina, dall’altro contiene i caratteri Shina, usati in modo dispregiativo durante la seconda guerra mondiale per indicare la Cina stessa. Tokyo esclusa, tutti gli Stati dell’area considerano il Mar Cinese Meridionale come il loro mare.
Fin qui sembrerebbe una questione di mera toponomastica, se non fosse che il Mar Cinese Meridionale è il fulcro dei traffici commerciali mondiali (più del 40% della quota globale), i suoi fondali sono ricchi di giacimenti petroliferi e di gas naturale ed è al centro degli interessi del gigante della zona: la Repubblica Popolare Cinese.
Pechino rivendica lo sfruttamento esclusivo di un’area che comprende fino all’80% delle acque del Mar Cinese Meridionale. Le pretese cinesi riposano sulla cosiddetta nine dotted line, una linea a U che include gran parte delle acque territoriali di Vietnam, Filippine, Malesia e Brunei, e che si poggia sulla presunta sovranità cinese sugli arcipelaghi che vi si stagliano, le Isole Spratly e le Isole Paracelso. Queste ultime furono interamente occupate dalla Cina nel 1974, ma sono reclamate dal Vietnam. Le Spartly, invece, sono oggetto tutt’oggi di una disputa internazionale tra i soggetti che si affacciano sul Mare: la Cina sostiene di controllare l’arcipelago sin dalla dinastia Han (200 d.C.); per il Vietnam non ci sono tracce di presenza cinese prima del 1933, mentre per Manila le isole erano terra nullius fino al 1956, quando un cittadino filippino le colonizzò.
Cina: tra ascesa pacifica e core interests
Nel corso della sua storia millenaria, la Cina ha sempre avuto una proiezione continentale, volendo emanare la sua forza all’interno dell’Asia. Pur avendo sviluppato una prodigiosa tecnologia nautica, le avventure marittime cinesi si sono limitate a due sfortunati tentativi di invasione del Giappone, nel 1274 e nel 1281, e all’epopea del grande navigatore Zheng He alla quale, però, non fu dato seguito. La visione del mondo dei cinesi, d’altronde, poneva Pechino al centro dell’universo: di conseguenza, non era la Cina a dover uscire di casa per osservare, ed eventualmente sottomettere, il mondo esterno, ma era quest’ultimo che doveva avvicinarsi alla Cina per godere dei frutti della sottomissione all’imperatore. Una visione del mondo che traspare già dal nome che i cinesi hanno dato alla loro patria: Zhōngguó, il Regno di Mezzo.
La proiezione continentale viene mantenuta anche nei primi decenni della Repubblica Popolare: alla Zhōngguó Rénmín Jiěfàngjūn Hǎijūn, la marina militare cinese, ad esempio, sono stati affidati compiti di mera difesa costiera fino agli anni settanta. Questo approccio era funzionale al tentativo, ritenuto primario dal governo comunista, di riunire sotto un’unica bandiera tutti i territori appartenuti storicamente all’impero cinese: l’occupazione del Tibet, il rafforzamento della presenza nello Xinjiang e nella Mongolia interna, così come la schermaglia con l’India del 1962, furono azioni tese a perseguire tale obiettivo.
Il compito di tenere unita la Cina che si era dato il governo di Pechino era sostanzialmente compatibile con i cinque principi della convivenza pacifica (rispetto dell’integrità territoriale e della sovranità, mutua non aggressione, non interferenza negli affari interni, uguaglianza e mutuo vantaggio) elaborati dalla diplomazia cinese sin dagli anni cinquanta e che avrebbero dovuto regolare i rapporti tra la Cina e gli altri stati dell’area.
Alla poderosa avanzata della potenza cinese, tuttavia, ha fatto seguito un’evoluzione degli obiettivi strategici. La vocazione continentale e interna, infatti, poteva coniugare i principi della convivenza pacifica con la tutela dei core interests (in cinese Héxin lìyì) ossia gli interessi per i quali il governo cinese è pronto a ricorrere all’uso della forza. Tali core interests erano essenzialmente la tutela della sovranità e l’indivisibilità territoriale, con particolare riferimento al Tibet, Xinjiang e Taiwan. Dal 2010, però, Pechino ha aggiunto alla lista anche la sovranità esclusiva sul Mar Cinese Meridionale.
Asean, Usa
L’aggressività di Pechino ha provocato la comprensibile reazione degli altri Stati rivieraschi. La dottrina della nine dotted line, infatti, va a sconvolgere i confini marittimi della zona, forgiati secondo quanto stabilito nella Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare del 1982 e che garantisce agli Stati il possesso di una zona economica esclusiva che si estende per duecento miglia nautiche dalle coste. Posizione, questa, sostenuta dagli Stati interessati dalla disputa anche in seno all’Asean (l’Associazione degli Stati dell’Asia orientale), e che vorrebbe risolvere la questione su base convenzionale e nel rispetto del diritto internazionale.
L’approccio multilaterale dell’Asean è diametralmente opposto a quello tenuto da Pechino negli ultimi anni. Dagli anni Novanta, infatti, il governo cinese ha preferito lasciare irrisolte le dispute internazionali, procedendo di volta in volta al consolidamento dei propri guadagni territoriali e imponendo la propria posizione con la deterrenza militare, economica e diplomatica; ma soprattutto la Cina ha cercato di dividere il fronte opposto con un approccio bilaterale, negando all’Asean la possibilità di interferire nella questione. Da ultimo, Pechino, per rafforzare la propria posizione nell’area, ha proceduto con una sorta di colonizzazione degli arcipelaghi disputati: in tal senso va considerata la creazione della città di Sansha, in un’isola delle Paracelso, e il suo riconoscimento dello status di prefettura.
La bellicosità cinese, inoltre, ha spinto gli atri protagonisti della vicenda ad avvicinarsi ulteriormente agli Stati Uniti, i quali si sono precipitati in zona. Per Washington, l’area riveste un’importanza capitale, come spesso dichiarato nell’argomentare la strategia che ha nel pivot to Asia il futuro della politica estera americana. L’interesse americano è in questo caso duplice: da un lato vuole far sentire la sua capacità di deterrenza nei confronti della potenza cinese; dall’altro si propone di farsi garante dei principi di risoluzione multilaterale e pacifica delle controversie internazionali e della libertà di accesso alle rotte di comunicazione marittime: questioni, queste, messe in discussione dall’atteggiamento cinese. L’approccio multilaterale americano, inoltre, è funzionale al mantenimento dell’unità di quegli Stati che costituiscono la parte meridionale della prima catena di isole che nella visione di Washington dovrebbero fungere da barriera contro l’espansionismo di Pechino.
Il progressivo avvicinamento tra Washington e gli Stati dell’Asean si è rinnovato, lo scorso aprile, con l’ultimo viaggio di Barack Obama nell’area. Di particolare rilevanza è stata la visita nelle Filippine, il paese forse più esposto all’espansionismo cinese. Nell’occasione è stato raggiunto un accordo militare che prevede il ritorno di truppe americane nell’arcipelago dopo più di vent’anni dal referendum indetto da Corazon Aquino con il quale vennero chiuse le basi militari straniere.
Conclusioni
Il Mar Cinese Meridionale è uno spazio disputato. Tutti i protagonisti dello scontro hanno dato una loro interpretazione soggettiva per accampare pretese sul medesimo spazio. Tale interpretazione soggettiva non è in realtà la ragione scatenante dello scontro: essa appare più come una copertura ideale per legittimare l’eventuale possesso del Mare. Nelle sue acque, infatti, scorrono interessi geopolitici ed economici che vanno ben al di là della mera conquista territoriale per riequilibrare i conti della storia e della geopolitica.
La disputa del Mar Cinese Meridionale è, semmai, una spia del più ampio processo che ha reso il sistema internazionale più fluido e nel quale ha fatto ricomparsa l’interpretazione soggettiva dello spazio per giustificare le mire espansionistiche della potenza di turno.