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Sirianizzazione o grand bargain? La mediazione di Israele tra Mosca e Kiev

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Nelle ore più buie dell’aggressione russa all’Ucraina tra i Paesi più attivi sul fronte della diplomazia figura Israele. La posizione dello Stato ebraico rappresenta un unicum nel panorama internazionale. Si tratta dell’unico attore occidentale – definibile come tale soprattutto per la sua stretta alleanza con gli Stati Uniti – che può vantare relazioni privilegiate sia con l’Ucraina che con la Russia. Una condizione che può rivelarsi nel medio e lungo periodo una trappola da cui rifuggire ma che, in questa fase, viene abilmente sfruttata dalla leadership israeliana per avanzare la propria opera di mediazione, equiparabile solamente al ruolo giocato dalla Turchia. Il dilemma a cui è costretto Israele lo ha spinto ad adottare un approccio di cauta condanna nei confronti dell’invasione russa dell’Ucraina. Al fine di non restare schiacciato dalla naturale evoluzione degli eventi, Israele continuerà a richiedere la cessazione delle ostilità, presentandosi come un mediatore credibile per entrambe le parti. Resta da capire se ed eventualmente quando la sua azione risulterà efficace. 

I legami con la Russia

Per comprendere perché Israele ha necessità di assumere un ruolo di mediazione in questo conflitto è necessario analizzare i suoi interessi in gioco e le ragioni che lo legano a Mosca e a Kiev. Sono almeno tre i piani d’indagine da considerare per capire in che modo Israele guarda alla Russia. In primo luogo, la Russia rappresenta per lo Stato ebraico una componente essenziale della propria memoria storica. È nei territori russi infatti che partirono alla fine del XIX secolo le prime due aliyoth, cioè le ondate migratorie di ebrei sionisti che giunsero in Palestina per fondare lo Stato israeliano. In secondo luogo, l’influenza russa può essere avvertita anche sul piano sociale e politico interno. Un fenomeno relativamente recente che ha ulteriormente accentuato le radici russe di Israele è l’arrivo all’inizio degli anni novanta dei così detti refusenik, gli ebrei con passaporto sovietico. Per tale comunità, molto influente nel tessuto sociale israeliano, la Russia rappresenta un riferimento culturale e sentimentale a cui rimanere ancorati.

Infine, a partire dall’intervento militare in Siria nel 2015, Mosca ha assunto un ruolo rilevante anche nella dimensione strategica. È necessario ricordare, infatti, che proprio a partire da quell’anno vige un tacito accordo grazie al quale all’aeronautica israeliana è permessa la conduzione di raid aerei su obiettivi iraniani e di Hezbollah in territorio siriano, in quella che viene definita nella dottrina di difesa israeliana la war between wars. Una postura eccessivamente dura potrebbe convincere Mosca a rivedere i termini di questa intesa, limitando la capacità di incursione aerea israeliana – una direzione che i russi hanno già fatto intendere di poter prendere poche settimane fa, dando inizio a insolite missioni signalling di pattugliamento congiunto con l’aeronautica siriana dell’area prospicente le Alture del Golan. Altro dossier in cui le azioni russe hanno un’influenza sulla sicurezza nazionale israeliana è l’Iran e le negoziazioni sul nucleare. Proprio a causa degli effetti del conflitto in Ucraina i negoziati di Vienna si sono bruscamente interrotti a pochi metri dal traguardo della firma finale. 

I legami con l’Ucraina

Anche con l’Ucraina lo Stato ebraico può vantare relazioni privilegiate tra rispettive popolazioni. In Ucraina vive ancora oggi una comunità di circa 50 mila ebrei, che salgono fino a 200 mila a seconda dei criteri di definizione della jewishness – anche il Presidente Zelensky proviene da una famiglia ebraica. Per la particolare conformazione istituzionale assunta fin dalla sua fondazione da Israele, definito “Stato ebraico e democratico”, esso si identifica come l’entità politica in cui può trovare soddisfazione il diritto di autodeterminazione nazionale del popolo ebraico. Seguendo questa formulazione, giuridicamente sostanziata nella Legge di Ritorno del 1950, ciascun ebreo ha il diritto di ottenere la cittadinanza israeliana, rendendo Israele la patria di ciascun ebreo, indipendentemente dalla cittadinanza. Una medesima formulazione è rintracciabile nella Dottrina di difesa delle Israel Defense Forces del 2015, unico documento di tale livello mai pubblicato. Nel secondo dei quattro obiettivi nazionali elencati viene si afferma la necessità di mantenere inalterato il carattere di patria del popolo ebraico dello Stato israeliano. 

A tal proposito il governo israeliano ha approntato l’operazione returning home, con cui si prepara ad assorbire, oltre ai rifugiati ucraini in via temporanea, fino a 100 mila olim ucraini e russi in via permanente. Si tratta di un’ondata migratoria tra le più importanti degli ultimi tre decenni, in grado di alleggerire almeno parzialmente l’indebolimento della maggioranza demografica ebraica della popolazione israeliana, ipotesi in grado di scuotere alle fondamenta il peculiare assetto istituzionale dello Stato israeliano nella sua determinazione di Stato degli ebrei. La tribalizzazione della società israeliana, così come evocata dall’ex Presidente Rivlin in un discorso del 2015, è avvertita in Israele come una minaccia concreta alla sopravvivenza dello Stato, quantomeno nelle forme assunte fin dalla sua fondazione. 

Non si dimentichi, inoltre, il valore che l’Ucraina assume per una parte demograficamente sempre più rilevante della popolazione ebraica di Israele, ovvero i chassidim, frangia di quella che viene definita la corrente ultra-ortodossa dell’ebraismo. Ogni anno circa 25 mila ebrei si radunano nella cittadina di Uman, luogo di origine della comunità chassidica. A tale dimensione storica, culturale e identitaria va infine aggiunto il legame economico-commerciale tra i due Paesi. A dispetto della riduzione che in termini assoluti ha subito il commercio tra Israele e Ucraina a causa della crisi pandemica, in termini merceologici è utile ricordare che il 40% delle importazioni israeliane da Kiev sono rappresentate da cereali, una materia prima di cui l’intera regione mediorientale scarseggia. Un protrarsi eccessivo delle ostilità – considerando che anche la Russia è tra i principali esportatori in questo settore – potrebbe dar luogo a gravi interruzioni delle supply chains con effetti dirompenti sulla stabilità sociale e politica dell’intera regione.

La posizione di Israele nel conflitto

Fin dalle prime ore dall’inizio dell’aggressione russa dell’Ucraina Israele ha manifestato una condanna accorta nei confronti di Mosca. Il governo israeliano ha optato per una divisione dei compiti in capo ai suoi due più importanti rappresentanti nella dimensione della diplomazia, il Primo Ministro Bennett e il Ministro degli Esteri Lapid, manifestando plasticamente la necessità di solidarizzare con Kiev senza chiudere completamente la porta del dialogo con la Russia. A Lapid è toccato il ruolo del poliziotto cattivo. Fin dalle prime ore dallo scoppio delle ostilità, il Ministro degli Esteri ha pubblicato un duro comunicato di condanna in cui l’aggressione russa è stata definita un atto che viola l’ordine internazionale. Al contrario, Bennett ha più volte evitato di pronunciare una condanna chiara verso Mosca, limitandosi a manifestare la propria solidarietà al popolo ucraino al fine di lasciare aperta la porta del dialogo con il Presidente russo. Una posizione che sembra aver dato i suoi primi frutti il 5 marzo scorso, quando il premier israeliano si è recato nella capitale russa per un faccia a faccia con Putin. 

Concretamente, Israele non ha imposto sanzioni economiche nei confronti della Russia. Tuttavia, dopo due settimane circa dall’inizio delle ostilità in occasione del suo viaggio in Europa, Lapid ha dichiarato che lo Stato ebraico non sarebbe stato utilizzato come territorio tramite cui bypassare le sanzioni imposte da Stati Uniti e Unione europea – ancorché nelle stesse ore venivano avvistati diversi jet privati di oligarchi russi giungere all’aeroporto Ben-Gurion di Tel Aviv, tra cui quello di Roman Abramovic. Altro discorso riguarda l’assistenza militare a Kiev. Nonostante le pressanti richieste del Presidente Zelensky, precedenti allo scoppio delle ostilità, Israele ha rifiutato di fornire aiuti militari all’Ucraina. Lo scorso ottobre, ad esempio, durante la visita del Presidente israeliano Herzog a Kiev, gli ucraini avrebbero richiesto la fornitura del sistema di difesa anti-missilistica Iron Dome, ricevendo un responso negativo da parte israeliana.

Alle Nazioni Unite, invece, Israele ha sposato una posizione più dura nei confronti della Russia, lavorando persino per convincere diversi Paesi arabi a votare a favore della risoluzione di condanna dell’Assemblea generale. Su richiesta americana, ad esempio, secondo le fonti consultate dall’analista Barak Ravid, Israele avrebbe persuaso gli Emirati Arabi Uniti a votare la condanna verso Mosca, dopo che qualche giorno prima Abu Dhabi si era astenuta al Consiglio di Sicurezza. Un ruolo che fino a due anni fa, cioè prima della firma degli Accordi di Abramo, sarebbe stato inimmaginabile.

Negoziato: quali scenari?

I tentativi di mediazione israeliani risalgono a mesi prima dall’inizio dell’invasione russa. Già nell’ottobre scorso, infatti, in occasione dell’incontro tra Bennett e Putin a Sochi, il premier israeliano si era proposto come mediatore, in una fase di escalation diplomatica e di ammassamento truppe che ancora potevano solo far presagire le reali intenzioni di Mosca. Putin in quell’occasione come successivamente aveva rifiutato l’offerta. Dal canto suo il Presidente ucraino Zelensky si è pronunciato più volte a favore di un possibile ruolo diplomatico dello Stato ebraico, arrivando fino a definire la città di Gerusalemme come un “posto costruttivo” ideale come luogo del negoziato. Dallo scoppio delle ostilità si è perso il conteggio degli innumerevoli contatti telefonici che Bennett ha tenuto con entrambe le parti, a cui si aggiunge la già richiamata visita a Mosca, seguita da una tappa a Berlino, e il tour europeo di Lapid tra i baltici e l’Europa centro orientale, organizzato anche per coordinare gli aiuti umanitari forniti in territorio ucraino e nei Paesi limitrofi

Solo nelle ultime ore il Presidente russo ha fatto una parziale apertura rispetto a un possibile negoziato mediato da Israele che possa superare gli scarsi risultati raggiunti dai summit bilaterali tenuti in Bielorussia. Che il tempo della diplomazia possa essere meno lontano del previsto lo dimostra anche la pubblicazione di una bozza di piano di pace in 15 punti, pubblicato dal Financial Times – ritenuta da molti analisti realistica sebbene si sia espresso in senso contrario il portavoce della presidenza ucraina. Nondimeno, al di là del merito negoziale al momento difficilmente pronosticabile, in questa fase è più utile tracciare dei possibili scenari di metodo. In poche occasioni come in questa, infatti, l’assetto negoziale che verrà seguito potrà essere utilizzato fin da subito per misurare a che altezza le parti in causa vorranno porre l’asticella degli obiettivi, più o meno ambiziosi, del negoziato.

È possibile tracciare due ipotesi di negoziato. La prima opzione, meno auspicabile ma al momento più probabile, è quella di un negoziato bilaterale tra Ucraina e Russia – magari a livello di presidenti – con la mediazione di un attore terzo, come Israele, sulla falsariga del dialogo intessuto già in Bielorussia. In uno scenario del genere, il negoziato avrebbe ad oggetto il solo conflitto ucraino e, con una prospettiva di breve periodo, ambirebbe a raggiungere un cessate-il-fuoco duraturo. In un formato ristretto come quello tracciato, si concretizzerebbe probabilmente quello che può essere definito come lo scenario siriano, ovvero l’ipotesi di un congelamento del conflitto, ma non una sua risoluzione. Concretamente, ciò significherebbe riconoscere almeno informalmente la creazione di sfere d’influenza che smembrerebbero il territorio ucraino. Non si giungerebbe alla firma di un trattato di pace ma alla creazione di un forum di dialogo, convocato periodicamente, sulla falsariga dei summit di Astana che hanno accompagnato i mutamenti sul campo della guerra in Siria. Le forze russe si ritirerebbero nei territori della Crimea occupata e delle auto-proclamate Repubbliche indipendentiste. Nell’ipotesi più ambiziosa si assisterebbe a una compartimentalizzazione del negoziato tale per cui le questioni territoriali verrebbero congelate e, tutt’al più, si potrebbe discutere lo status internazionale dell’Ucraina: neutralità (modello austriaco o scandinavo); rinuncia formale all’ingresso nell’Alleanza atlantica (ipotesi già evocata da Zelensky); rinuncia di Kiev ad ospitare basi militari o assetti stranieri sul proprio territorio; garanzie di sicurezza dell’Ucraina da parte di attori terzi. 

Il secondo scenario, meno probabile ma più auspicabile, vedrebbe la convocazione di un summit negoziale allargato, con la presenza delle due parti in conflitto, di un mediatore (Israele?) e di potenze garanti, su tutte Usa e Cina (forse l’Unione europea oppure uno o più Stati membri, sebbene ci siano da superare le resistenze russe che considerano i Paesi europei come co-belligeranti). La posta in palio in questo caso potrebbe essere maggiore. Si parlerebbe di una risoluzione definitiva della questione ucraina all’interno di una riconfigurazione del sistema di sicurezza euro-russo. È a tale livello, regionale e globale, che guarda Putin, che fin dai mesi che hanno preceduto l’aggressione aveva fatto intendere come il suo vero interlocutore fosse Washington e non Kiev né Bruxelles. Affinché tale ipotesi di grand bargain si concretizzi è necessario che il Presidente Biden si convinca a un compromesso difficile con l’aggressore russo. Eventualità a cui gli Stati Uniti non sono ancora disposti a cedere.

In questo caso anche la Cina sarebbe chiamata a fare la sua parte (va in questa direzione il summit sino-americano di Roma e la telefonata tra Biden e Xi). Nonostante le parole spese dall’Ambasciatore cinese a Washington in un op-ed pubblicato sul Washington Post, in cui ha richiamato al rispetto dei principi della Carta Onu e alla sovranità e integrità territoriale ucraina, il ruolo di Pechino fino a questo momento è stato di scudo, quantomeno diplomatico, nei confronti della Russia. Pechino si è astenuta in occasione delle votazioni delle risoluzioni di condanna dell’azione russa nel Consiglio di Sicurezza e nell’Assemblea Generale della Nazioni Unite. Di più, il giudice cinese, insieme a quello russo, è stato l’unico a votare contro la richiesta della Corte di Giustizia internazionale, che chiedeva alla Russia di sospendere l’atto di aggressione – sebbene formalmente i giudici votino a titolo personale e non in rappresentanza del proprio Paese. La cartina di tornasole che farà comprendere il reale coinvolgimento della Cina nei piani d’aggressione russi, di cui Pechino ha smentito una preventiva conoscenza così come un suo assenso, sarà misurabile sul piano geo-economico. Pechino sarà disposta a fare da sponda alla Russia per bypassare le sanzioni economiche come fatto per anni con l’Iran? Dopo le pessima performance dimostrata in occasione della diffusione del coronavirus, il dossier ucraino potrebbe rappresentare un ulteriore e forse definitivo test per le ambizioni di un Paese come la Cina, che si candida al ruolo di grande potenza o ancor più di egemone internazionale. Il tempo dell’ambiguità strategica, più volte mascherata dietro al principio di neutralità e non ingerenza, potrebbe ben presto dimostrare la sua inconsistenza dinnanzi alle regole immutabili della politica internazionale che, nel lungo periodo, impediscono a una grande potenza di godere dei dividendi del suo status internazionale rifuggendo tuttavia le proprie responsabilità. 

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