Il 30 giugno 1960, il Congo dichiara la propria indipendenza dal Belgio. Lo stesso anno altri sedici Stati africani diventano indipendenti, dopo decenni passati sotto il dominio coloniale di Francia, Gran Bretagna e Belgio. Per tale ragione il 1960 viene spesso identificato come “l’anno dell’Africa”. Dopo sessanta anni, i cambiamenti e gli obiettivi raggiunti sono stati numerosi ma molta strada rimane ancora da percorrere.
L’indipendenza
Il 1960 viene ricordato come l’anno dell’Africa, poiché caratterizzato da una serie di eventi che portarono all’indipendenza di diciassette Paesi: Camerun, Togo, Senegal, Mali, Madagascar, Repubblica Democratica del Congo, Somalia, Benin, Niger, Burkina Faso, Costa d’Avorio, Ciad, Repubblica Centrafricana, Repubblica del Congo, Gabon, Nigeria, Mauritania; seguiti poi da molti altri nel corso degli anni.
Gli eventi furono in parte il risultato di un lungo processo iniziato quindici anni prima nel tumulto della Seconda Guerra Mondiale. Al termine del conflitto, infatti, iniziarono a costituirsi le prime organizzazioni politiche per la rivendicazione dell’indipendenza dalle potenze coloniali, sulla base anche delle promesse fatte agli africani per assicurarsi il loro sostegno durante lo sforzo bellico. Le rivendicazioni furono influenzate da quanto stava già accadendo in altre parti del mondo, dove diversi Paesi, che fino a quel momento erano stati considerati solo come fonti di approvvigionamento di materie prime e di uomini, avviarono un processo di decolonizzazione, rendendosi indipendenti dalle rispettive madrepatrie e svolgendo un ruolo di apripista ( il Libano, la Siria, le Filippine, la Transgiordania e poi l’Indonesia, l’India, il Pakistan e a seguire Vietnam, Cambogia, Laos, Tunisia, Marocco, Egitto e l’Algeria). È dunque in questo contesto che si arriverà al 1960, anno cruciale per l’Africa Subsahariana, in cui i movimenti indipendentisti africani giunsero al culmine e il continente iniziò ad emergere come una forza importante anche all’interno delle Nazioni Unite. Sviluppi politici, questi, che portarono a grandi speranze per il futuro, ma allo stesso tempo ad affrontare la realtà della violenza post-coloniale.
I decenni post-indipendenza
I decenni successivi furono caratterizzati da conflitti interni e internazionali, di cui ancora oggi se ne sentono gli effetti e che in larga parte sono conseguenze della spartizione ottocentesca (si pensi che, prima del dominio coloniale, l’Africa comprendeva fino a 10.000 diversi stati e gruppi autonomi con lingue e costumi distinti; oggi comprende 54 Paesi). In molti casi, le fragili democrazie sorte nel 1960 furono soppiantate da governi mono-partitici e militari. Il sistema pluralistico, introdotto con l’ottenimento dell’indipendenza, fu spesso smantellato attraverso la messa al bando dei partiti di opposizione.
Si dovranno attendere gli anni Novanta, quando, a seguito delle crescenti pressioni interne e internazionali per un cambiamento politico, i Paesi africani iniziarono a indire nuove elezioni, introducendo, in modo più o meno deciso, un assetto multipartitico. Difatti, nel giro di pochi anni, il continente ha registrato un cambio di leadership, passando da presidenti non eletti, a leader risultati vincitori di una competizione elettorale multipartitica. Ovviamente vi sono gradi diversi di democrazia che variano da paese a paese e molte volte sono ben distanti da quella di stampo occidentale. Infatti, il modello tutt’ora prevalente in Africa viene spesso definito come un’autocrazia elettorale, caratterizzata da elezioni multipartitiche e procedure democratiche standard, ma allo stesso tempo anche da leader politici irresponsabili, sistemi giudiziari politicizzati e ricorrenti violazioni dei diritti umani.
Dagli anni Novanta ad oggi
La fine degli anni Novanta segna un periodo positivo per i Paesi africani, i quali diedero inizio ad un processo di crescita e sviluppo economico protrattosi fino al 2014 (anno in cui si è registrato un crollo dei prezzi delle materie prime). Dal 2004 il reddito interno lordo è aumentato del 250% e tra il 2000 e il 2018, le economie subsahariane hanno registrato una crescita media del 5%, con sei delle dieci economie in più rapida crescita del mondo. Lo sviluppo economico si è tradotto in una maggiore capacità di influenza diplomatica e il potenziale socioeconomico ha dato spazio a una leadership più assertiva. È in questi anni che nasce l’Unione Africana, la quale è andata a sostituire la precedente Organizzazione di Unità Africana, fondata nel 1963, come reazione al dominio coloniale, ma impreparata a gestire le nuove sfide politiche, economiche e militari del continente.
Sebbene secondo l’African Regional Integration Index (2019), il livello di integrazione regionale non sia elevato (con una media di 0.327 su un punteggio massimo di 1), ci sono molti esempi positivi da annoverare, tra cui: la riuscita integrazione delle priorità africane negli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile; la spinta ad includere finanziamenti per il clima per i Paesi in via di sviluppo nell’Accordo di Parigi; un maggiore coordinamento tra i membri africani non permanenti del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Ma soprattutto, i miglioramenti economici, uniti ad una maggiore integrazione regionale, hanno portato nel 2019 all’entrata in vigore di una nuova area di libero scambio continentale (African Continental Free Trade Area, Afcta). L’area, che comprende 54 Paesi, costituisce la più grande zona di libero scambio al mondo per numero di nazioni coinvolte. Con un totale di 1,3 miliardi di persone, a cui si aggiungono possibili nuovi consumatori, l’area potrebbe innescare una potenziale crescita del settore industriale (anche se la sua implementazione è stata momentaneamente sospesa).
Oltre l’aspetto meramente economico, si deve anche considerare che in questi anni è stata registrata una rapida crescita demografica, a cui si affiancano altre trasformazioni, come la crescente urbanizzazione e la diffusione di nuove tecnologie, che prese nel complesso potrebbero contribuire all’instaurazione di nuovi legami economici. Inoltre, a differenza di altre aree del mondo in cui le risorse naturali sono in diminuzione, l’ultimo decennio ha visto l’Africa Subsahariana emergere come uno dei principali fornitori globali di materie prime, attirando l’interesse di numerosi imprenditori che guardano alla regione come nuovo panorama per l’economia mondiale.
Il continente, dunque, è tornato a suscitare l’interesse di grandi e medie potenze, generando una nuova competizione, a partire dalla Cina, seguita poi da Russia, Unione Europea, Francia, Stati Uniti, Giappone, Turchia, e Paesi del Golfo. Dagli anni Duemila, si è tornato a parlare di “anno dell’Africa” (nel 2005, in occasione del 31esimo Summit del G8) e di “nuova corsa all’Africa”.
Se da una parte, l’arrivo di nuove potenze ha contributo ad innescare un maggiore sviluppo economico, che ha permesso agli Stati africani di diversificare i propri partner, emancipandosi dalle potenze coloniali; dall’altra, però, non ha fatto altro che accentuare, anziché risolvere, il problema della dipendenza economica. Soprattutto in un periodo di crisi globale come quello che stiamo affrontando, le conseguenze potrebbero essere devastanti per il continente. Secondo uno studio dell’Unione Africana, “Impact of the Coronavirus on the African Economy”, pubblicato il 6 aprile, l’elevata dipendenza delle economie africane rispetto alle economie estere potrebbe causare una ricaduta economica negativa per l’intera regione, con una perdita media di 1,5 punti sulla crescita del 2020. Inoltre, si deve considerare che la Cina costituisce il principale partner commerciale dell’Africa. Quindi un blocco della produzione e un calo della domanda cinese costituirebbero una grave minaccia per l’economia dell’intero continente.
Olga Vannimartini
Geopolitica.info