La recente crisi tra Belgrado e Priština, ultima di una lunga serie, presenta molti punti in comune con quelle precedenti. Il delicato contesto internazionale ha però indotto il pubblico, gli osservatori e i media a riservare alle vicende dei Balcani una rinnovata attenzione.
Nell’ambito di una situazione balcanica in divenire, caratterizzata dai tentativi di avvicinamento all’UE di Albania e Macedonia del Nord, dalle tensioni in Bosnia-Erzegovina e dalla crisi politica in Bulgaria, poche novità si sono registrate nel corso degli ultimi mesi per quanto riguarda la disputa sul Kosovo e i complicati rapporti Belgrado-Priština. Gli avvenimenti verificatisi tra il 31 luglio e il 1° agosto hanno però riportato la questione prepotentemente al centro delle cronache.
Il governo kosovaro presieduto da Albin Kurti, coerentemente con una politica nei riguardi di Belgrado improntata al principio di “reciprocità”, tentò già nel mese di settembre del 2021 di imporre alle automobili in entrata dalla Serbia una serie di nuove norme: la sostituzione delle targhe serbe con targhe kosovare, il pagamento di una tassa di ingresso e la stipula di un contratto di assicurazione. Tale mossa venne giustificata alla luce dell’analoga politica posta in atto dalla Serbia, che da alcuni anni aveva imposto l’utilizzo di targhe serbe temporanee alle auto provenienti dal Kosovo.
Ebbero luogo così forti proteste della comunità serba locale, che attuò dei blocchi stradali, e una forte reazione da parte di Belgrado, che aumentò lo stato di allerta delle forze armate; le forze speciali della polizia kosovara giunsero in alcuni punti di frontiera, in particolare a Jarinje e a Brnjak, per assicurare l’attuazione delle nuove norme. La crisi venne risolta il 30 settembre. L’accordo prevedeva non più la sostituzione delle targhe per le auto provenienti dalla Serbia ma l’utilizzo di semplici adesivi, in attesa di una soluzione definitiva da individuare nell’ambito di un tavolo di lavoro stabilito a Bruxelles che avrebbe coinvolto Serbia, Kosovo e UE.
Durante lo scorso 31 luglio la tensione è però riesplosa: il governo di Priština ha deciso di imporre la sostituzione di targhe serbe con targhe kosovare, nonché l’utilizzo di nuovi documenti di identità temporanei in luogo di quelli rilasciati dalla Serbia. Sono ricomparsi i posti di blocco a Jarinje e Brnjak per mano della comunità serba, mentre la polizia kosovara ha registrato dei colpi di arma da fuoco, talvolta rivolti contro di essa, senza però che siano stati segnalati dei feriti. A Mitrovica, nel corso del pomeriggio, le sirene hanno iniziato a suonare.
Il Presidente serbo Aleksandar Vučić ha mostrato in televisione una mappa del Kosovo coperto dai colori della bandiera proprio della Serbia, lanciando vari moniti e parlando di una situazione “mai così complicata” in relazione alla questione kosovara; il Presidente kosovaro Kurti, invece, riferendosi ai blocchi stradali ha parlato di “azioni aggressive” pianificate e “istigate”, identificando i responsabili in Vučić e in Petar Petković, direttore dell’Ufficio per il Kosovo e la Metohija (corpo del governo serbo incaricato del monitoraggio della situazione dei territori tutt’ora rivendicati da Belgrado).
Il delicato contesto internazionale nel quale la crisi si inserisce ha fatto sì che una rinnovata attenzione venisse dedicata alle vicende in corso in Kosovo. A ciò hanno contribuito alcune dichiarazioni molto controverse: il parlamentare Vladimir Đukanović, appartenente al Partito Progressista Serbo del quale lo stesso Vučić è presidente, ha affermato in un tweet che la Serbia avrebbe potuto essere costretta a iniziare una “denazificazione” dei Balcani, riproponendo la retorica utilizzata dalla Russia in vista dell’invasione dell’Ucraina nel mese di febbraio; il parlamentare ucraino Oleksiy Goncharenko, sempre attraverso Twitter, ha non solo accusato la Serbia di essere il “cavallo di Troia di Putin in Europa”, nonché di tentare di innescare una guerra in accordo con i metodi dello stesso Putin, ma ha anche dichiarato che, in caso di invasione serba del Kosovo, l’Ucraina avrebbe dovuto difendere quest’ultimo, addirittura attraverso l’utilizzo delle proprie truppe di terra. Sui social media si è diffuso il panico di uno scoppio di nuove ostilità nel cuore del continente europeo, già sconvolto dall’invasione russa dell’Ucraina, e su Twitter hanno ampiamente circolato delle fotografie raffiguranti i Carabinieri italiani presenti sul ponte di Mitrovica.
La svolta è arrivata nella notte tra il 31 luglio e il 1° agosto, quando Albin Kurti, al termine di una mediazione che ha visto coinvolti lo stesso Primo ministro, la Presidente Vjosa Osmani, l’ambasciatore statunitense a Priština Jeffrey Hovenier e rappresentanti europei, ha annunciato la sospensione dell’attuazione delle nuove norme fino al 1° settembre, a condizione che i blocchi stradali nel Kosovo settentrionale venissero rimossi. Ciò è avvenuto durante la giornata del 1° agosto, quando la situazione si è finalmente stabilizzata.
La missione KFOR della NATO, presente sul terreno con circa 3800 unità provenienti da 28 Paesi, nel corso della notte ha diffuso un comunicato ufficiale nel quale ha affermato di essere pronta a intervenire nel caso in cui la stabilità nel Kosovo fosse stata messa a repentaglio, in accordo con il mandato conferito dalla risoluzione del Consiglio di Sicurezza n° 1244 del 1999, ribadendo anche il proprio sostegno alla normalizzazione delle relazioni tra Belgrado e Priština. Il contenuto del comunicato non ha presentato elementi di sorpresa o di novità, rimarcando tuttavia una volta di più il ruolo della KFOR come forza in grado di agire contro eventuali minacce alla sicurezza e alla stabilità del Kosovo.
La Serbia ha invece ricevuto il sostegno della Federazione russa; Maria Zakharova ha espresso la posizione di Mosca, descrivendo come “irragionevoli e discriminatorie” le regole che Priština aveva cercato di imporre ai serbi e chiedendo alle autorità kosovare, così come a USA e UE, di “rispettare i diritti dei serbi in Kosovo”. Una posizione simile è stata espressa da Richard Grenell, diplomatico statunitense che ricoprì il ruolo di inviato speciale dell’allora Presidente Trump per i negoziati di pace tra Serbia e Kosovo nel periodo 2019-2021. Grenell ha definito la mossa di Kurti “folle, spericolata e inutile”; le sue parole sono state ampiamente riprese dai media serbi.
L’ambasciatore USA in Kosovo Hovenier ha affermato invece come tali misure fossero in linea con gli accordi di Bruxelles del 2013, aprendo così la strada a una legittimazione del principio di “reciprocità” propugnato dal governo di Kurti; ciò potrebbe portare a una riproposizione dei provvedimenti in esame al termine della loro sospensione, dunque il 1° settembre.
La diplomazia, dunque, dovrà lavorare in vista di tale data per individuare una soluzione, possibilmente duratura, al problema. In un contesto mondiale ed europeo caratterizzato dalle avversità ben note, per la comunità internazionale è ancora più urgente il compito di adoperarsi con costanza e intensità per la stabilità del delicato scenario balcanico, agendo per favorire la risoluzione delle dispute ancora irrisolte e conciliazione tra gli attori della regione. Un’azione efficace in questo senso passa per il contrasto alle azioni destabilizzanti volte a incrinare non solo il contesto politico locale ma, più in generale, la tenuta dell’ordine internazionale, le cui potenze revisioniste potrebbero individuare nei Balcani il contesto nel quale agire per indebolirlo.
All’Europa e, in particolare, all’Italia spetta il dovere di mostrarsi all’altezza della situazione. Questa crisi ha rappresentato l’occasione per sottolineare l’entità e l’efficacia dello sforzo compiuto costantemente dall’Italia per garantire la stabilità in Kosovo e favorire la convivenza tra le popolazioni qui presenti, assolvendo anche a compiti particolari quali, per esempio, la salvaguardia dell’importantissimo patrimonio culturale e artistico della regione.