Nelle ultime settimane si è discusso molto dell’Indo-Pacifico, in quanto principale terreno di scontro tra Usa e Cina.
In questo contesto, il Giappone sta assumendo sempre più importanza, come storico alleato americano, partner commerciale di Pechino e vicino di Taiwan, principale oggetto di contesa tra i due rivali. Tokyo si trova in una zona di mondo che sta velocemente diventando molto calda e sembra costretta ad uscire dal guscio di pacifismo e sviluppo economico che aveva creato alla fine della Seconda Guerra Mondiale.
Un Paese anormale
Il Giappone è usualmente definito, come la Germania, un Paese anormale, in quanto si è a lungo privato volontariamente di una forza militare, rifiutando di agire da Grande Potenza. Ciò iniziò alla fine della Seconda Guerra Mondiale, da cui Tokyo uscì sconfitta e umiliata.
Nel 1946 gli Stati Uniti, come potenza occupante, imposero una costituzione che, all’articolo 9, dichiarava che il Giappone rinunciava al diritto di fare la guerra. Come la Germania, divenne un Paese pacifista e devoto allo sviluppo economico.
Alla fine del secolo scorso, il Sol Levante era diventato la seconda economia al mondo, anche grazie al fatto che non doveva preoccuparsi di politica estera e difesa, contando sull’ombrello protettivo degli americani. Tanto che, a partire dagli anni 70, questi ultimi cominciarono a lamentarsi del cosiddetto “freeriding” nipponico, e spinsero per un maggiore impegno per la sicurezza regionale. La maggioranza dei giapponesi si opponeva, però, alla revisione dell’articolo 9, simbolo di un Giappone pacifista. Questo, infatti, consente al Paese di possedere solo delle forze difensive (Self-Defense Forces, SDF), da usare in caso di diretta minaccia alla nazione.
Tra il 2014 e il 2015 decine di migliaia di persone protestarono contro la scelta dell’ex premier Abe di modificare l’interpretazione dell’articolo 9 in modo da permettere al governo di mandare militari all’estero anche in assenza di una diretta minaccia alla nazione.
Un sondaggio realizzato via telefonica tra marzo e aprile di quest’anno mostra come il 50% della popolazione sia favorevole a una revisione dell’articolo. La popolazione è quindi, oggi, molto divisa.
Quelli favorevoli a una modifica sostengono che l’articolo impedisce al Giappone di acquisire maggiore importanza a livello internazionale. Esso è visto come l’eredità sgradita dell’occupazione americana e il principale ostacolo alla normalizzazione del Paese. Quelli contrari affermano che l’articolo ha consentito al Giappone di tenersi fuori dai conflitti armati: in 70 anni nessun giapponese è morto in battaglia. La modifica dell’articolo porterebbe il Sol Levante ad essere coinvolto negli impegni militari americani, non sempre apprezzati, aumenterebbe la tensione con i vicini e rischierebbe di riportare a galla lo spettro di militarismo e autoritarismo che aveva preceduto la Seconda Guerra Mondiale.
Tuttavia, l’aumento di tensioni nell’Indo-Pacifico costringe a un ripensamento della postura pacifista nipponica. Tokyo non può permettersi di continuare ad essere anormale. Il contesto profondamente competitivo costringe i giapponesi a doversi impegnare per la sicurezza regionale.
Fin da quando fu costretto ad aprirsi al mondo, nel 1854 a seguito della spedizione Perry, il Giappone vede il mondo in termini di predatore e preda. All’epoca realizzò velocemente che l’arretratezza tecnologica lo costringeva a ruolo di preda. Riuscì però a sfuggire la colonizzazione grazie alla determinazione di diventare abbastanza forte da essere predatore, e il suo status venne consolidato grazie agli accordi con la Gran Bretagna nel 1902 e la vittoria contro la Russia nel 1905.
Oggi il Giappone è circondato da predatori. La Cina e la Corea del Nord sono la principale fonte di preoccupazione militare per Tokyo, mentre Seul è un forte competitore sul piano economico.
In rotta di collisione
Il Giappone è dunque a un bivio. Da un lato vorrebbe continuare a rimanere fuori dalla storia, come lo è stato dal 1946. Mantenere buone relazioni sia con Cina che con Stati Uniti e prosperare economicamente senza occuparsi troppo di sicurezza. Dall’altro lato, la guerra in Ucraina sta accelerando lo scontro tra i due giganti, e l’Indo-Pacifico, più specificamente Taiwan, rischia di trasformarsi rapidamente in un campo di battaglia.
La Cina vede l’Indo-Pacifico come una sua potenziale sfera di influenza, mentre gli americani vogliono evitare che un’area che produce più del 60% del Pil mondiale sia dominato dal principale rivale. Taiwan, per esempio, è il principale produttore di semiconduttori al mondo e il suo assorbimento darebbe grandi vantaggi a Pechino. L’isola di Formosa rappresenta anche una Cina diversa, priva del controllo autoritario dello stato e altrettanto florida. A livello strategico, la sua posizione è fondamentale per il contenimento del Dragone. Washington deve quindi difendere Taipei, pena il decadimento da prima potenza.
La Cina ha varie contese territoriali con i Paesi che si affacciano sul Pacifico. La presenza di numerose isole e scogli davanti alla costa cinese, controllati da potenze rivali, impedisce al gigante asiatico di espandersi nel mare che ritiene all’interno della sua sfera di influenza. Taiwan è l’ostacolo più evidente, posizionato com’è di fronte alla Cina. A soli 170 chilometri a nord di Taiwan le disabitate isole Senkaku sono rivendicate sia da Pechino che da Tokyo. Il ministro della difesa nipponico Kishi ha rimarcato più volte la volontà del Giappone di mantenere la stabilità e la pace nell’area. Il 90% dell’energia importata da Tokyo passa, infatti, attraverso le acque intorno a Taiwan. Per questo Kishi ha detto che qualsiasi cosa succeda all’isola riguarda anche il Giappone. Tokyo sta mantenendo una linea dura, affermando la sua sovranità sulle isole Senkaku e aumentando la spesa militare, sebbene minima rispetto a quella cinese.
Nei prossimi anni la tensione nell’Indo-Pacifico è destinata ad aumentare, man mano che ci si avvicina al 2049, centenario della nascita della Repubblica Popolare e scelto dal partito comunista come anno limite per la riannessione di Taiwan alla Cina. Il Giappone, che ha preferito per anni tenere un basso profilo nelle questioni di sicurezza, sarà probabilmente costretto a tornare ad armarsi, per far fronte all’espansione del Dragone. L’articolo 9 non è un ostacolo come lo è stato per decenni, dato che grazie alla revisione di Abe il Giappone può supportare i suoi partner in base al diritto di autodifesa collettiva. Negli ultimi anni, il Sol Levante ha rivisitato la sua strategia operativa, pianificando una nuova classe di caccia torpedinieri, poi classificati come portaelicotteri, come il JS Izumo, che si è dimostrato capace di compiere complesse operazioni di decollo corto e atterraggio verticale, fondamentali per controbilanciare il potenziamento della marina cinese che si è dotata di nuove portaerei. Il Giappone sta dunque potenziando la sua componente aeronavale, da sempre punto di forza nipponico, per prepararsi a combattimenti nei cieli del Mar Cinese. Rimane il gap tra le due potenze asiatiche, dato che il budget della difesa del Dragone è più del quadruplo di quello nipponico (rispettivamente terza e quinta potenza militare al mondo).
Sarà quindi importante capire quale posizione vorrà tenere Tokyo tra i due rivali. Un coinvolgimento totale al fianco degli Stati Uniti e una guerra sul portone di casa avrebbero conseguenze devastanti per il Paese. È possibile che il Giappone cerchi di diminuire le tensioni ed evitare scontri frontali. In ogni caso, Tokyo si sta preparando al peggio. Il governo ha dichiarato di voler innalzare la spesa per la difesa al 2% del Pil, seguendo il punto di riferimento della Nato. Questa svolta storica avrà sicuramente un impatto sulle relazioni con la Cina. A dispetto del pacifismo interno, il Giappone si prepara a sopravvivere allo scontro tra i due giganti.