Il 29 marzo 2023 il governo saudita ha approvato la decisione di aderire alla Shanghai Cooperation Organization (SCO) in qualità di partner di dialogo (dialogue partner), una scelta dal profondo significato geopolitico. Nata nel 2001, come è noto la SCO rappresenta una delle organizzazioni politiche e di sicurezza più importanti dell’Eurasia, che ricomprende Cina, Russia, India, Pakistan e – da novembre scorso – Iran, oltre a tutte le repubbliche ex sovietiche dell’Asia Centrale eccezion fatta per il Turkmenistan, nonché un numero importante di paesi osservatori e partner di dialogo. Nonostante il suo carattere multilaterale, la SCO viene spesso descritta come un’organizzazione a guida sostanzialmente cinese, mirante in parte a costituire un contraltare strategico della NATO in Eurasia. La SCO sembra così evolversi in un forum panislamico all’interno del quale paesi musulmani tradizionalmente rivali come Arabia Saudita, Iran e Turchia trovano potenzialmente una cornice istituzionale di dialogo.
La SCO e il consolidamento dell’asse Riyadh-Pechino-Mosca
La decisione dell’Arabia Saudita di entrare a far parte della SCO – seppure per ora soltanto con lo status di partner di dialogo – rafforza decisamente i legami di Riyadh con Pechino e Mosca. La risoluzione ha fatto seguito a un annuncio della Saudi Aramco, la compagnia nazionale saudita di idrocarburi, di voler intraprendere investimenti multimiliardari in Cina volti a finalizzare una joint venture nel nord-est del paese. In generale, la decisione saudita di diversificare i propri partner strategici al di là dell’Occidente si inserisce in un disegno più vasto che vede il Medio Oriente spostare la sua attenzione sempre più a “Est”. In questo senso, l’approccio di Riyadh è tipico di un paese che adotta una strategia di politica estera incentrata sull’“hedging” strategico, volto a massimizzare i vantaggi economici e securitari proprio utilizzando a proprio beneficio la competizione tra grandi potenze. In generale, la decisione saudita di diversificare i suoi partner di dialogo all’Occidente si inserisce in un disegno strategico più vasto che vede il Medio Oriente spostare la sua attenzione sempre più a “Est”. In altre parole, la rapida ascesa dell’influenza cinese nella regione si traduce in una riduzione inversamente proporzionale di quella statunitense. Lo straordinario incremento dell’influenza della Cina di Xi Jinping in Medio Oriente ha trovato conferma nella mediazione che ha condotto il 10 marzo scorso alla conclusione di un accordo siglato a Pechino tra Arabia Saudita e Iran che prevede la ripresa delle reciproche relazioni diplomatiche dopo sette anni di rottura ufficiale. È importante sottolineare come in questi ultimi due mesi la Cina si sia lanciata in una dimensione che non le era stata propria in passato come quella della mediazione, confermando la propria volontà di sostituire anche da un punto di vista diplomatico gli Stati Uniti in alcuni quadranti dove, soprattutto nel post-Guerra fredda, l’influenza di Washington è stata preponderante. Negli ultimi anni, la Cina e l’Arabia Saudita hanno intensificato sempre più la cooperazione nei settori energetico e finanziario, mostrando un mutuo interesse nel consolidamento nell’area mediorientale della Belt and Road Initiative (BRI). D’altronde, il re Salman e il principe ereditario Mohammad bin Salman hanno accettato l’idea che la Cina potesse rafforzare la propria impronta diplomatica in Medio Oriente, mostrando un interesse affinché Riyadh e Pechino collaborino per la promozione della pace, sicurezza e prosperità tanto a livello globale che regionale. I rapporti tra Arabia Saudita e Cina trovano un fondamentale epicentro nell’interscambio reciproco di asset strategici, principalmente l’esportazione del petrolio saudita verso la Cina e l’esportazione di armi cinesi all’Arabia Saudita. Ad oggi, la Cina rappresenta il più importante partner commerciale dell’Arabia Saudita, con un interscambio stimato in 90 miliardi di dollari nel 2021; al contempo, la Cina è diventata la principale importatrice di petrolio saudita. Per quanto riguarda la Russia, altro fondamentale membro della SCO, l’Arabia Saudita sta sviluppando relazioni sempre più intense. Nel marzo scorso, il ministro degli Esteri saudita, principe Faisal bin Farhan, ha affermato che l’Arabia Saudita è interessata a rafforzare e sviluppare le relazioni con la Russia su tutti i livelli. Dialogando con il suo omologo russo Sergej Lavrov, il principe ha sostenuto la necessità di unificare le visioni di politica estera russo-saudite e di sostenere le relazioni bilaterali, considerando la Russia un paese “amico”. Da parte sua, Lavrov ha affermato di vedere l’importanza del coordinamento “permanente e reciproco” tra i due paesi a livello ministeriale e governativo e nelle aree strategiche delle relazioni commerciali, dell’economia e degli investimenti. D’altronde, Russia e Arabia Saudita sono attori chiave dell’organizzazione dei paesi esportatori di petrolio OPEC+, dettandone congiuntamente le linee guida principali. Chiaramente, la decisione di Riyadh di rafforzare l’asse con Pechino e Mosca tanto a livello bilaterale che nella cornice della SCO rientra in una strategia volta a diversificare i partner di riferimento nella regione mediorientale dopo anni di quasi esclusivo monopolio statunitense. Ciononostante, questo non significa che Riyadh e Washington rinunceranno alla loro mutuamente benefica cooperazione che si palesa soprattutto nel settore della sicurezza e che trova un punto di riferimento negli Accordi di Abramo conclusi ai tempi della presidenza Trump e riconfermati sotto quella di Biden – di cui però l’Arabia Saudita non è firmataria, sebbene partecipi informalmente ad alcuni meccanismi di cooperazione securitaria che vedono un’attiva collaborazione con Israele e, di conseguenza, con gli Stati Uniti. Al contempo, si continuano a manifestare delle frizioni cicliche tra Riyadh e Mosca nel contesto delle rispettive strategie in seno all’OPEC, che impediscono di poter parlare di indiscussa cooperazione russo-saudita. Infine, nonostante il miglioramento dei rapporti tra Riyadh e Teheran, il problema della sicurezza soprattutto in riferimento alla questione nucleare resta uno dei principali punti di attrito che ancora ostacola una reale convergenza saudita-iraniana.
Il triangolo Riyadh-Teheran-Ankara: La svolta pan-islamica della SCO
L’Arabia Saudita non è il solo paese islamico chiave a godere dello status di partner di dialogo. Anche la Turchia, infatti, gode dello stesso status, approvato già nel 2013. A quel tempo, lo stesso Erdoğan aveva dichiarato di prendere in considerazione la possibilità di abbandonare la candidatura della Turchia all’adesione all’UE in cambio della piena adesione nella SCO. In questo contesto, la scelta della Turchia di voltare le spalle all’UE e di puntare invece sull’integrazione eurasiatica nella SCO si è concretizzata in modo ancora più netto dopo che nel novembre 2016 il Parlamento europeo aveva votato all’unanimità la sospensione dei negoziati di adesione con la Turchia. Subito dopo, alla Turchia era stata concessa la presidenza dell’Energy Club della SCO – il forum per la cooperazione energetica all’interno dell’Organizzazione promosso dalla Russia nel 2006 e operativo dal 2013 – per l’anno 2017. In questo senso, la Turchia fu il primo paese a presiedere l’Energy Club della SCO godendo del solo status di partner di dialogo. Successivamente, nel 2022 Erdoğan ha annunciato che la Turchia avrebbe fatto formale richiesta di piena membership nella SCO. In questa cornice, grazie allo status di membri a pieno titolo di Kazakistan, Kirghizistan e Uzbekistan, a quello prospettico della Turchia e a quello di partner di dialogo dell’Azerbaigian, la SCO incarna ad oggi una piattaforma che rappresenta in modo marcato il mondo turcofono e turco-musulmano. D’altronde, la futura adesione della Turchia comporterà l’integrazione di uno dei paesi guida del mondo musulmano, che soprattutto sotto la guida di Erdoğan risente in modo evidente dell’influsso dell’identità islamica. Al contempo, l’Iran, che è stato un paese osservatore fin dal 2005, ha avviato dal settembre 2021 le formali procedure di adesione alla SCO. Nel settembre 2022, al ventiduesimo summit della SCO tenutosi a Samarcanda in Uzbekistan, l’Iran ha firmato un memorandum di obblighi per aderire formalmente alla SCO – adesione confermata nel novembre 2022 grazie alla ratifica degli accordi da parte del Parlamento iraniano. La piena adesione della Repubblica islamica è prevista nell’aprile 2023. Con l’adesione dell’Iran si rafforza quell’asse strategico ormai consolidato con Russia e Cina, ma, dato particolarmente importante, grazie al partenariato di dialogo di Turchia e Arabia Saudita si creano i presupposti per il rinvigorimento attraverso un format multilaterale delle relazioni tra paesi islamici storicamente rivali, da sempre alla ricerca del ruolo di guida del mondo musulmano. Inoltre, l’inclusione a vario titolo – come membri, osservatori o partner di dialogo – nell’Organizzazione di paesi a maggioranza sunnita (Pakistan, Arabia Saudita, Turchia, Tagikistan, Uzbekistan, Kazakistan, Kirghizistan, Egitto, Qatar, Afghanistan) e sciita (Iran, Azerbaigian) sembra in grado di poter rafforzare il dialogo intersettario islamico. In altre parole, grazie alla recente apertura al segmento arabo del mondo islamico, la SCO prende sempre più le sembianze anche di un’organizzazione panislamica, accogliendo al suo interno le due principali anime spirituali del mondo islamico – il sunnismo e lo sciismo – e le tre principali anime etnolinguistiche – araba, turca e persiana. Ovviamente, la nuova natura della SCO come organizzazione anche panislamica è un fattore contingente, che non esprime l’intenzione ultima dei suoi attori chiave – a cominciare da Cina, Russia e India – e in fondo nemmeno quella dei Paesi islamici in questione. Ciononostante, questo interessante sviluppo potrebbe sortire in futuro degli effetti involontari con implicazioni concrete ed inedite.